L’Italia è una repubblica fondata sul potere delle caste. I cervelli non fuggono dall’Italia, come spesso si sente dire erroneamente, fuggono dagli italiani. Fuggono da una classe dirigente inadeguata, che esercita il potere con arroganza e incompetenza su una sudditanza addormentata. Fuggono dalla mediocrità di un Paese in cui la cultura e la conoscenza sono considerati disvalori e l’approssimazione, l’arrivismo, l’arroganza e le opinioni personali vengono considerati un valore. Se vogliamo trattenerli, e dare una speranza alle generazioni che verranno, c’è poco da fare, bisogna cambiare radicalmente la cultura massonica, clientelare e baronale in cui siamo immersi. Il potere uccide l’iniziativa e la creatività delle menti brillanti. Le spegne. Spegne le idee, l’entusiasmo e la buona volontà. Livella tutto e tutti verso il basso, affinché la mediocrità si vesta di eccellenza. Un lavoratore ha due alternative: adeguarsi o andarsene. Calvino, nel libro Le città invisibili, sosteneva che l’inferno è qualcosa che viviamo ogni giorno stando insieme: possiamo scegliere di farne parte fino al punto di non vederlo più o, scelta ben più difficile, cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Che tradotto in termini lavorativi significa restare o andarsene. Ma come siamo arrivati a questo punto? A dire il vero, l’attuale condizione l’aveva prevista con largo anticipo Platone, descrivendo il mito della caverna. Ricordate la storia dei prigionieri nati incatenati in una caverna e costretti a guardare le ombre della vita vera, che scorre alle loro spalle, proiettata su una parete da un enorme fuoco? La pubblica amministrazione è esattamente così, un posto in cui la percezione distorta della realtà viene rappresentata come l’unica verità possibile. E quali sono le ombre “parlanti” proiettate nella caverna della PA dal fuoco, che in questo caso simboleggia il potere? Sono le carriere dei mediocri costruite ad arte da altri mediocri a colpi di meriti immeritati e titoli inverosimili. Sono i vincoli burocratici di ogni tipo e le regole assurde che penalizzano il merito e favoriscono il demerito. Sono le dinamiche dell’Ufficio favori, quello che esisteva una volta nei ministeri e che è cambiato soltanto nel nome e non nella sostanza. Sono i concorsi truccati da un apparente rigore a cui non crede più nessuno. Sono le guerre tra poveri, che si contendono miserie di ogni tipo. Sono i diritti che vengono proiettati nella caverna sotto forma di privilegi, tra il malcontento e l’invidia di chi non può usufruirne e la malafede di chi ne approfitta. Sono gli interessi personali, che prevalgono sugli interessi collettivi. Sono le decisioni immobili, quelle che farebbero bene alla collettivita e invece restano là, appese, sospese e mai prese perché chi è pagato per decidere, nella pubblica amministrazione, fa tutto tranne prendere decisioni importanti che non abbiano altro obiettivo se non il profitto personale. Sono gli obiettivi miseri ingigantiti come le ombre della caverna e le logiche “make or buy”, che sarebbe meglio chiamare “buy or buy”, perché non serve più studiare un problema e trovare le soluzioni adeguate, se si possono acquistare soluzioni costosissime che fanno “quasi” tutto quello che serve e a volte vengono acquistate preventivamente senza nemmeno avere un problema da risolvere. Sono i giorni persi non per lavorare, ma per creare le condizioni affinché si possa lavorare. Sono i fallimenti di chi resta sempre impunito, perché chi sbaglia, nel pubblico, non paga mai, semmai riceve un premio. Capita, però, che un prigioniero riesca a rompere le catene, esca dalla caverna e si accorga che esiste il sole. Inizialmente resta accecato, ma poi riesce a vedere posti nei quali la cultura è un valore e il merito non è una menzogna rimpallata tra la dirigenza e i sindacalisti. Vede posti in cui le idee, le buone idee, da sole bastano per avere “i mezzi e le chiavi del laboratorio”, senza dover aspettare le concessioni da parte di qualcuno che prima o poi chiederà qualcosa in cambio, fosse anche l’attribuzione indegna di meriti che non gli appartengono. Vede i giganti su cui Newton si è appoggiato per guardare più lontano e il rispetto il pensiero e la condivisione dei benefici. Il cervello fugge perché si rende conto di poter essere libero, libero da un sistema malato e illusorio che prosciuga gli animi e riduce a zero le aspettative. A volte capita anche che il cervello libero torni nella caverna per raccontare cosa c’è fuori e dare la stessa opportunità di libertà agli altri prigionieri, quelli che non hanno catene reali, ma sono schiavi della narrazione distorta frutto di quell’unica realtà che vedono e nella quale credono ciecamente. Le ombre sono l’unica verità che conoscono e rappresentano le vere catene da cui non si può scappare. Uscire dalla caverna e guardare il sole richiede uno sforzo troppo grande per gli occhi abituati al buio. Significa rischiare e affrontare il cambiamento. Significa contaminarsi, accettare le diversità degli altri, esporsi a rischi e delusioni. Si dice che i canarini nati in gabbia non sappiano cosa significhi volare, e per le persone è più o meno così: un cervello nato in gabbia non sa cosa significhi pensare. Restare nella caverna significa rinunciare al pensiero e alla ragione: alcuni (per fortuna) non resistono. E sono tanti i cervelli che non ce l’hanno fatta a resistere e hanno lasciato la caverna: più di 800.000 in dieci anni, secondo l’Istat. Ognuno porta via qualcosa, poco importa se sia un brevetto rivoluzionario o la ricetta della pizza napoletana: ogni italiano emigrato è una piccola parte del Paese persa per sempre. È una sconfitta che non può essere giustificata in nessun modo, se non attraverso l’amara consolazione che quel pezzo “buono” d’Italia non viene perso, ma contamina altre culture e in qualche modo rende giustizia ai volenterosi che restano: agli eroi malpagati che fanno turni massacranti nelle corsie degli ospedali, agli idealisti ostinati che passano la vita nei laboratori, ai rassegnati nei corridoi dei ministeri e agli ingenui che pensano di cambiare le cose, illudendosi di far volare i canarini nati in gabbia.
Mese: Febbraio 2020
Lo Smart Working e il mito della Fata Morgana
Avete presente il mito della Fata Morgana, quello da cui prende nome il fenomeno fisico visibile da Reggio Calabria? Si tratta di una specie di miraggio, che ingrandisce Messina e la proietta talmente vicina alla Calabria da illudere i calabresi di poterla toccare, allungando una mano. Si chiama “effetto Fata Morgana” perché la leggenda vuole che la sorellastra di re Artù, Morgana, arrivata insieme a lui in Sicilia su una barca che aveva il simbolo celtico della triscele, andò a vivere in un castello sott’acqua al centro dello stretto di Messina per proteggere il fratello rimasto sull’isola. In un leggendario mese d’agosto, un re barbaro arrivò a Reggio per conquistare la Sicilia. Morgana, per proteggere il fratello, fece apparire la Sicilia talmente vicina alla Calabria che il re si illuse di poterla raggiungere a nuoto. Mentre nuotava, però, l’incantesimo si interruppe e il re barbaro morì affogato.
Vi starete chiedendo se avete sbagliato articolo, perché vi parli di miti e leggende e cosa c’entri lo smart working con la Fata Morgana. Mi verrebbe da rispondere che la triscele è sì un simbolo celtico, ma è anche il simbolo della Regione Siciliana, probabilmente ha origini orientali e rappresenta il moto del sole rotante attraverso un essere con tre gambe che si inseguono, ma effettivamente porterei i lettori fuori tema. Il paragone, comunque, è quanto mai pertinente: la Fata Morgana è la protettrice del sistema melmoso che governa la pubblica amministrazione. Per vedere l’effetto Fata Morgana, non c’è bisogno di un particolare indice di rifrazione della luce del sole nei diversi strati d’aria, come nel caso del fenomeno fisico, basta pronunciare la parola smart working e miracolosamente appare il miraggio di una società moderna, che rispetta il lavoro e i lavoratori, che risparmia le risorse, che non inquina, che restituisce agli individui la cosa più preziosa che un essere umano possa avere, il tempo, e che restituisce anche il piacere di lavorare con gli altri e di incontrarsi quando serve, evitando di convivere come polli in piccole stanze e sedi sempre più costose e inutili. È grazie alla Fata Morgana se il miraggio appare, sparisce e i lavoratori affogano illusi e disillusi. Ma chi è la Fata Morgana, nella Pubblica Amministrazione? La Fata Morgana è una commistione tra dirigenza e sindacati, tra spartizione dei poteri e conservazione dei privilegi, tra finte prove di forza e meschine dimostrazioni di debolezza, è una palude melmosa fatta di burocrazia, di accordi siglati sottobanco, di riunioni massoniche, di graduatorie poco trasparenti e di regole impopolari che creano disuguaglianze, malcontenti e mettono i lavoratori l’uno contro l’altro. La Fata Morgana è la menzogna che illude i lavoratori, li demotiva, li svuota da ogni entusiasmo, li fa scappare all’estero, li porta a odiare il lavoro, i colleghi, le dinamiche lavorative e causa ansia, depressione e sfiducia. La Fata Morgana è una narrazione del lavoro che confonde i diritti con i privilegi, il potere con il dovere, che divide i lavoratori e crea obiettivi miserabili, premi ridicoli e guerre tra poveri disastrose. La Fata Morgana riesce a tirare fuori il peggio dai lavoratori, li abitua al brutto affinché la promessa di qualcosa non dico di bello ma di meno brutto venga vista come un traguardo. La Fata Morgana è il sistema di un Paese vecchio e stanco in cui la Pubblica Amministrazione resta sempre 20 anni indietro perché è vittima di sé stessa. La Fata Morgana non muore mai, perché è un personaggio reale che nasce dal mito e continuerà a illudere coi suoi miraggi i cittadini e i lavoratori onesti, continuerà a spegnere gli entusiasmi e a far fuggire i propri figli in Paesi in cui i miraggi non esistono. Chiarito questo aspetto, cerchiamo di capire come si possa far fallire qualcosa che comincia con la parola “smart”. Eppure, l’auto che porta quel nome, a parte gli improperi di chi è convinto di trovare un parcheggio libero e invece si accorge che è occupato da una Smart, ha avuto un ottimo successo…
Qualsiasi iniziativa, anche la migliore, può diventare un fallimento, se viene raccontata nel modo sbagliato. E per raccontare qualcosa nel modo sbagliato, basta cambiare il significato alle parole, mascherarle, stravolgerle. Con lo smart working lo stravolgimento delle parole è stato abbastanza semplice da attuare: in Italia, soprattutto nella pubblica amministrazione, è stato tradotto in “lavoro agile”, col benestare nientepopodimeno che dell’Accademia della Crusca. Però, il significato di smart non è esattamente agile e l’uso di questa parola è stata un’inconsapevole captatio malevolentiae perché da subito ha fatto sì che la sua accezione fosse associata quasi unicamente al concetto di conciliazione vita e lavoro, ideato negli Stati Uniti negli anni ‘70 e arrivato in Italia con 40 anni di ritardo. E passare dalla conciliazione vita e lavoro all’assistenza e ai casi umani, nella pubblica amministrazione, ci vuole veramente poco. Di conseguenza, la parola smart working (di cui fa parte anche il telelavoro, con buona pace di chi sostiene il contrario) ha permesso di creare uno strumento assistenziale che solleva le amministrazioni dall’obbligo sociale e morale di usare altri strumenti per assistere il personale con situazioni di disagio.
Purtroppo per noi, la parola agile lascia fuori altri aspetti legati allo smart working, altrettanto importanti, che rappresentano il vero cambio culturale in cui si trova immersa la società : i modelli comunicativi smart, le dinamiche e i processi smart dell’Industria 4.0, il lavoro smart attraverso il cloud, le piattaforme virtuali e i sistemi interconnessi. Se il problema fosse solo la traduzione letteraria, non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, ma lasciare fuori gli aspetti centrali della trasformazione digitale non è solo una questione di traduzione, è una questione di fallimento. Di solito, le ragioni che conducono verso un fallimento sono sempre molteplici, ma hanno una madre comune: l’ignoranza. Nel caso specifico, ci sono anche ragioni minori; l’esercizio del potere, il bisogno di controllo, l’incapacità di pianificare e lavorare per obiettivi, la prerogativa di creare disuguaglianza, la burocrazia, la paura e altre virtù che la Fata Morgana non disdegna. Il problema è che l’ignoranza della Fata Morgana non riguarda soltanto il lavoro agile perché se non riesce ad attuare lo smart working, significa che non riesce a pianificare le attività, non riesce ad analizzare i costi e a ottimizzare le spese, non riesce a lavorare a far lavorare per obiettivi, non riesce a gestire i processi lavorativi e non ha idea di cosa sia il benessere organizzativo. In rete si può leggere un working paper molto interessante (Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa vita italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, Tiraboschi, in WP CSDLE “Massimo D’Antona 335/2017), che fornisce un quadro chiaro della situazione italiana; quella che per i non addetti ai lavori è solo una sensazione, per gli esperti di diritto del lavoro è una certezza confermata dai fatti: gli ostacoli all’applicazione dello smart working non sono contenuti nella normativa, ma nella testa di chi dovrebbe attuarla. Se da una parte, la normativa c’è e lascia ampia libertà, dall’altra, la Fata Morgana, che non ha dimestichezza con la libertà, è resistente ad attuarla e ha bisogno delle imposizioni. Non dimentichiamo che l’Italia è quel Paese in cui, per obbligare i motociclisti a salvarsi la vita, è stato necessario fare una legge che imponesse l’obbligo di indossare il casco. La Fata Morgana non altererebbe mai gli equilibri melmosi di convenienze e connivenze, quando lo fa è perché c’è una rivoluzione in corso o un’imposizione dall’alto. Quando arriva l’imposizione da un provvedimento governativo o da un dirigente illuminato, la Fata Morgana agisce come è abituata a fare: in modo scomposto, cercando di tamponare l’emergenza. Il primo passo riguarda la costruzione del miraggio, il bando. E il lavoratore lo vede quel miraggio, ci crede. Dà fiducia alla Fata Morgana. Vede la possibilità di crescere i figli serenamente senza correre di qua e di là, ma anche di non restare imbottigliato ore nel traffico. Vede la possibilità di lavorare dalle 21 alle 2 di notte perché col silenzio si concentra meglio. Vede la possibilità di vendere l’auto, perché una in famiglia è più che sufficiente, e di lasciar perdere colf e baby sitter, scoprendo che lo stipendio può bastare anche senza fare gli straordinari. Vede la possibilità di consumare meno risorse, per lasciarne un po’ anche agli altri, e di mangiare qualcosa di più sano dei pasti della mensa aziendale. Di solito, però, questo miraggio inizia a dissolversi quando al bando viene associato un regolamento più o meno fantasioso. I regolamenti, si sa, sono fatti apposta per creare disuguaglianze e malcontenti. Dai regolamenti di telelavoro/smart working, e negli anni ne ho visti tanti, si percepisce subito il disegno della Fata Morgana: il lavoro agile deve sembrare un privilegio che il datore di lavoro “concede” al lavoratore. E in questo caso le parole “privilegio” e “concessione” sono fondamentali. La Fata Morgana è contemporaneamente buona e cattiva perché concede qualcosa riservata a pochi figli prediletti. E come si fa a individuare i figli prediletti? Con una gara a cui si può partecipare elencando una serie di disgrazie che vengono chiamate requisiti. E la Fata Morgana non si vergogna a proclamare vincitori persone che, per un motivo o per un altro, il premio della disgrazia non avrebbero mai voluto vincerlo. Per fortuna, non sempre i vincitori hanno problemi reali. Poiché si tratta di una gara, esistono anche partecipanti sleali che producono false disgrazie, ingannano la Fata Morgana, e vincono non il lavoro agile, ma un consistente numero di giorni di ferie di cui nessuno chiederà mai conto. Perché la nostra dea, diciamo la verità, crea le condizioni per indurre i partecipanti a comportarsi meschinamente e a ingannarla.
Il miraggio scompare quasi del tutto quando una qualche commissione è chiamata a fare delle valutazioni oggettive per assegnare i premi. Se fosse un esperimento fisico, si potrebbe ricorrere alla teoria di propagazione degli errori, per dare dei risultati attendibili, ma nella pubblica amministrazione non serve né il rigore scientifico né tantomeno la trasparenza: le commissioni sono lo strumento con cui si somministrano ai lavoratori le ingiustizie mascherate da verità. È normale, secondo voi, che, per ottenere il lavoro agile, un lavoratore debba arrivare a chiedersi quanti punti vale essere in terapia oncologica? Perché la Fata Morgana ci tiene tanto a umiliare coloro i quali la tengono in vita? Questo sarebbe l’approccio “smart” al lavoro?
Sembra impossibile che la Fata Morgana non si chieda, quale sia il costo di un lavoratore in ufficio e di un lavoratore “smart”, che non si chieda se sia il caso di cominciare a controllare i risultati e non gli obiettivi, che non si chieda quanto sia ingiusto creare inutili competizioni e disuguaglianze, che non si chieda quanto sia inutile misurare il tempo e non i risultati. Se si ponesse queste domande, però, sarebbe un altro mito, e la Fata Morgana è nata per far apparire i miraggi e farli scomparire.
Trasformazione Digitale, istruzioni per l’uso
In principio era il papiro. Per quasi quattromila anni è stato l’unico materiale attraverso il quale scrivere e tramandare la storia dell’umanità. Nell’anno 105 d.c., in Cina, Ts’ai Lun trovò il modo per fabbricare, «con vecchi stracci, reti da pesca e scorza d’albero », un nuovo materiale scrittorio agevole da produrre e da utilizzare, di basso costo e alla portata di tutti: la carta, chiamata in cinese «Tche ». Si trattava di un’invenzione eccezionale e rivoluzionaria che, come spesso capita, non venne compresa immediatamente. Nonostante gli evidenti limiti del papiro (la difficoltà di produzione, la fragilità, la deperibilità, l’impossibilità di realizzare libri), la carta impiegò oltre mille anni, anche grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili, per diventare il materiale principale attraverso cui è stato possibile condividere la cultura e renderla disponibile a tutti. I detrattori della carta furono molti e la resistenza al cambiamento si protrasse nei secoli. La paura di passare al nuovo materiale venne supportata da affermazioni prive di fondamento: la carta è più fragile del papiro, è difficile da produrre, è più deperibile, è sensibile all’umidità… e così via fino ad arrivare alla peggiore delle chiusure mentali: “Si è sempre fatto così, funziona e non c’è motivo di cambiare”.
Questo meccanismo di protezione è sempre efficace, dà sicurezza, trova spesso un’ampia schiera di sostenitori e frena inevitabilmente il miglioramento delle condizioni umane. Se la carta non avesse avuto il sopravvento, i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton li avrebbero letti in pochi e la teoria della gravitazione universale sarebbe rimasta nascosta chissà per quanto tempo. Del resto, lo stesso ragionamento fu fatto negli anni ‘70 da chi sosteneva che i floppy disk erano meno sicuri della carta, inadatti a conservare le informazioni, poco pratici, inutilizzabili senza un personal computer a portata di mano, etc. Il papiro e il floppy disk, oggi, sono accomunati da un elemento nostalgico: resistono simbolicamente attraverso ciò che hanno rappresentato per l’uomo. In inglese la carta si chiama ancora “paper”, in francese ‘papier’, e per salvare un documento si fa clic su un’icona che rappresenta un floppy disk. Internet e il web sono l’equivalente moderno della carta e del floppy: negli ultimi anni sono stati i principali attori di una rivoluzione epocale, che ha avviato un cambiamento culturale talmente radicale da rivoluzionare il modo di agire e di pensare dell’umanità. Il cambiamento culturale ha obbligato la tecnologia ad adeguarsi, non il viceversa. In poco tempo, si è passati dai personal computer per pochi addetti ai lavori agli smartphone per tutti. La cultura digitale, ben diversa dalle competenze digitali necessarie per utilizzare le tecnologie, è ormai ampiamente diffusa tra la popolazione. Gli acquisti si fanno con un clic e i prodotti si ricevono a casa entro 24 ore, le operazioni bancarie e i pagamenti si fanno con un’app, le indicazioni stradali si chiedono a un assistente dicendo semplicemente “Okay Google, Ehi Siri”. Il fenomeno che chiamiamo “Trasformazione digitale” non è un prodotto della tecnologia, ma un modello culturale che è stato costruito nel corso degli anni attraverso un percorso di crescita collettiva, passato per la condivisione, il benessere e il miglioramento delle condizioni di vita. Proprio come nel caso della carta e del floppy disk.
Se questa considerazione è valida nella vita di tutti i giorni, quando si parla di Pubblica Amministrazione il punto di vista cambia completamente. In primo luogo perché la trasformazione digitale nella PA viene ancora confusa troppo spesso con la tecnologia. Si parla di digital trasformation, facendo riferimento ai servizi in cloud, alla virtualizzazione, ai sistemi iperconvergenti, e si sottovaluta l’aspetto essenziale: la tecnologia è solo il mezzo attraverso cui è possibile attuare il cambiamento. Gli individui, sono loro la componente essenziale della digitalizzazione. Lo sono nella duplice veste di parte attiva e fruitori: da una parte creano gli strumenti e le politiche digitali, dall’altra usufruiscono dei benefici indotti dal cambiamento. I dirigenti della PA, pur essendo nella vita privata i primi fruitori di app, social, Amazon e “Okay Google”, quando si tratta di dare forma a una “cultura digitale aziendale” sono ancora impreparati e resistenti al cambiamento. Hanno paura. Paura di perdere il controllo sugli altri, paura di perdere potere, paura di essere attaccati dai sindacalisti: per questo restano ancorati ai modelli organizzativi militari, che hanno alla base la filosofia del “divide et impera”. Attuano una finta digitalizzazione attraverso l’acquisto di qualche soluzione tecnologica accompagnata da regole spesso inutili, vincoli e paletti burocratici di ogni genere, che rappresentano sempre un mezzo efficace per creare disuguaglianza, ambiguità, competizione tra i lavoratori e malcontenti di ogni genere. La trasformazione digitale non è nient’altro che una trasformazione culturale la cui parola chiave è “condivisione”. Condivisione della cultura, della tecnologia, del benessere, della conoscenza e dei dati. Internet e il web sono nati per questo, per condividere informazioni, e il cambiamento culturale è stato indotto dalla condivisione capillare di conoscenza e servizi attraverso la tecnologia. La condivisione ha portato un livello di benessere elevato e una potenziale consapevolezza mai sperimentata nella storia dell’umanità. Il termine potenziale, quando si parla di consapevolezza, è d’obbligo perché, paradossalmente, l’eccesso di informazioni abbinato a una riduzione del livello culturale si è rivelato molto pericoloso. Il primo problema che dovrebbe affrontare un manager moderno riguarda sicuramente la cultura e la “narrazione” del lavoro a cui i dipendenti pubblici sono da sempre abituati. Sarebbe utile elencare un insieme di comandamenti, per demolire le convinzioni e le convenzioni attuali, ma per ovvi motivi di spazio è sufficiente fermarsi ai primi dieci, anche per non infastidire chi lo ha fatto più di duemila anni fa.
- Perché soffrire al lavoro quando si soffre già abbastanza nella vita?
- Un lavoratore, quando entra in ufficio, ha gli stessi bisogni di quando non lavora
- Ogni lavoratore ha una vocazione, fosse anche mettere lo smalto alle unghie delle formiche
- Controllare il tempo di permanenza in ufficio per dimostrare di aver raggiunto degli obiettivi è utile come pulire le serrande dal polline per risolvere un’equazione differenziale.
- Nella PA il sinonimo di graduatoria è quasi sempre fregatura
- I lavoratori sono contemporaneamente uguali e diversi
- Il senso del dovere non deve essere mai confuso col senso del potere
- Per fare delle scelte bisogna essere consapevoli, per fare degli errori anche.
- Il migliore amico non è mai il miglior dirigente e prima o poi farà pentire il suo protettore di averlo scelto.
- Quando un dipendente pubblico si sveglia, è già nel migliore dei luoghi di lavoro possibili: a casa.
Non è chiaro perché il lavoro, da che mondo è mondo, debba essere accostato alla sofferenza. Il lavoratore pubblico deve soffrire e deve essere punito, non c’è niente da fare, se non altro per essere dato in pasto ai media come simbolo del sacrificio e del riscatto della giustizia sociale. Gli schiavi sulle galee non venivano frustrati e terrorizzati? Sì, lo erano, ma ampi studi hanno dimostrato che la cultura del terrore è controproducente prima di tutto per il datore di lavoro. Dà effetti a breve termine e crea disastri nel lungo periodo che non si possono più riparare. C’è da dire che il datore di lavoro, di solito, si aspetta che un lavoratore smetta di essere un individuo e indossi la maschera disumana di un automa asessuato, senza bisogni, problemi e debolezze; ma quale luogo, se non il posto di lavoro, si presta meglio per manifestare i bisogni, le debolezze, le frustrazioni, le meschinità, le aspirazioni e tutte quegli aspetti che rendono la vita impossibile a chiunque? Si può chiedere a una madre o a un padre di far finta di non avere figli e di dedicarsi al lavoro senza il pensiero degli orari, della spesa, della scuola e della cena da preparare? Ed è possibile che vengano effettuate ancora scelte inique e clientelari, basate esclusivamente sulle simpatie personali, ignorando completamente i dati? Sì, è possibile perché i manager pubblici continuano a essere inadeguati, poco formati e senza una visione chiara di cosa fare e come farlo: Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est (Per chi non sa in quale porto dirigersi, nessun vento va bene – Seneca). Si va avanti ciecamente a colpi di regole insensate e autoritarie, di burocrazia e di regolamenti privi di logica, che non tutelano né il lavoro, né il lavoratore e nemmeno il datore di lavoro. Gli unici a essere tutelati da questo modo incosciente di gestire il lavoro moderno sono proprio i dirigenti, classe inattaccabile, irremovibile e incontestabile per definizione. Si continua a parlare di modelli lavorativi ampiamente superati in ambito privato, di orari di lavoro improbabili partoriti da menti stanche e inadeguate, che ragionano come se la comunicazione tra lavoratori avvenisse ancora attraverso la corrispondenza portata dal “camminatore” da una stanza all’altra. È esattamente questo modello di subcultura che bisogna sovvertire, per cambiare le cose. Lo si può fare soltanto sostituendo la subcultura con la cultura digitale. E attraverso i dati. Quei dati che le pubbliche amministrazioni usano in percentuali molto basse (si stima che i dati “visibili” siano il 15% del totale) e che sarebbero preziosi per prendere decisioni consapevoli.
Un esempio immediato di “logica data driven” da applicare alla Pubblica Amministrazione riguarda senza dubbio i dipendenti. Se è vero che gli individui sono il cuore della trasformazione digitale, è anche vero che in ogni amministrazione pubblica è possibile integrare diverse fonti dati che comprendano le competenze, la professione svolta, il curriculum vitae, le attitudini, i processi lavorativi, gli obiettivi e i risultati, i percorsi di carriera e le situazioni di disagio dei lavoratori.
Basterebbe partire dall’insieme di queste informazioni, analizzare i dati e avere una visione chiara del personale per pianificare la formazione, i piani di fabbisogno, la mobilità, gli avanzamenti di carriera e le procedure concorsuali. È altresì vero che i maggiori ostacoli alla trasformazione digitale sono riconducibili alla scarsa conoscenza dei processi lavorativi e alla disorganizzazione, che spesso costringono i dipendenti pubblici a fronteggiare le emergenze piuttosto che a rispettare una precisa pianificazione a cui siano collegati degli obiettivi da raggiungere. Non è un caso se le principali competenze richieste alla dirigenza siano relative all’intelligenza emotiva, ovvero alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie emozioni e quelle degli altri. Questa caratteristica è essenziale per favorire il benessere personale e aziendale, per migliorare i processi di comunicazione, la gestione dei problemi e dei conflitti, e la capacità di prendere decisioni ai vari livelli di responsabilità.
Tra le principali competenze richieste alla dirigenza della PA, molte delle quali riconducibili all’intelligenza emotiva, ci sono:
- Mettere al centro gli individui nelle strategie aziendali
- Sperimentare ed esporsi a eventuali fallimenti
- Creare le condizioni organizzative per ridurre i conflitti e motivare il personale
- Investire in cultura e formazione digitale
- Avere una visione di medio/lungo periodo
- Individuare e risolvere le criticità nei processi lavorativi
- Pianificare le attività e gli obiettivi
- Individuare gli strumenti migliori per attuare i cambiamenti
- Favorire il benessere organizzativo
- Monitorare i processi, misurando il raggiungimento degli obiettivi
Le competenze digitali diventano fondamentali quando il cambiamento culturale è stato avviato. A quel punto si può parlare di DNA digitale, di soft skills e di hard skills. Ma questa è un’altra storia.
Alessandro Capezzuoli