Non scrivevo spot pubblicitari da un po’ di anni. Dirò di più: col passare del tempo, la pubblicità sono arrivato a schifarla.
In questo caso, però, non si tratta di pubblicità, ma di campagna di promozione sociale. Gli spot che ho ideato, di cui ho scritto anche le sceneggiature, hanno un fine nobile e il risultato, anche grazie alla collaborazione con Idea Positivo, è di tutto rispetto.
La comunicazione istituzionale di solito è ingessata, fredda e asettica come lo sono le cravatte senz’anima che circolano nei ministeri. Il codice di comportamento che regola i meccanismi e i rapporti umani nella pubblica amministrazione viene spesso adottato, senza grandi stravolgimenti, anche come codice comunicativo e questo, a meno di non trovarsi in un film di Fantozzi, è quasi sempre un fallimento. Da ex pubblicitario, mi sono sempre chiesto il motivo per cui le istituzioni sottovalutino le tecniche di comunicazione “classica”, a favore di una comunicazione formale e palesemente inefficace, che serve essenzialmente ad aumentare la distanza con i cittadini. Il motivo credo si possa ricondurre alla volontà da parte dei decisori di mostrare all’esterno un apparente rigore e purezza che accontenti l’opinione pubblica e nasconda il sistema di marchette e prebende che regola molte organizzazioni più delle regole scritte.
Gli addetti ai lavori sanno benissimo che dietro ogni forma di promozione c’è il disegno di una mente perversa in grado di convincere gli altri a compiere qualsiasi tipo di azione, attraverso l’utilizzo di messaggi collaudati che riescono a persuadere l’inconscio degli esseri umani. Il capitalismo ha insegnato che il bisogno vero e proprio di un oggetto non induce automaticamente le persone al consumo senza fine. Ad esempio, per portare le persone alla follia di sostituire un’auto ogni tre anni, c’è bisogno di qualcuno che diffonda in continuazione dei messaggi martellanti in grado di cambiare i costumi e le morali. Quei messaggi, alla fine, si possono riassumere in un’unica formula: “Guarda che ti serve, guarda che ti serve, guarda che ti serve”. A volte, il bisogno non viene indotto esplicitamente, ma viene veicolato attraverso un’efficace leva sull’appartenenza o sull’esclusione: solo se possiedi un certo oggetto appartieni al gruppo e possiedi un’identità, altrimenti sei escluso. Il capitalismo ha anche insegnato che per “vendere” un prodotto, un servizio o uno stile di vita servono strutturalmente due componenti: i bisogni (e i sogni) reali o indotti dei consumatori e il loro soddisfacimento, raggiungibile soltanto attraverso il consumo e l’utopica speranza che un prodotto reclamizzato abbia dei plus e dei benefit rispetto a un altro.
Se è vero che le istituzioni, per definizione, non devono effettuare una vera propria vendita, è ancor più vero che le tecniche per far conoscere i risultati di una ricerca o di un obiettivo raggiunto, se non seguono le logiche commerciali, sono sicuramente fallimentari. Quasi nessuno ricorda uno spot istituzionale, mentre quasi tutti ricordano almeno un jingle, un payoff famoso (Galbani vuol dire fiducia, per esempio) o la signora dei Ferrero Rocher.
Eppure, un manifesto provocatorio contro il razzismo, magari con un messaggio simile a quello veicolato da Oliviero Toscani per Benetton, sarebbe più efficace di molti testimonial moralizzatori.
C’è anche un altro aspetto, forse il più importante, che rende sterili le campagne di comunicazione istituzionali: la mancanza di storie.
Una campagna pubblicitaria, anche la più scarsa, racconta una storia. La frase “Ambrogio, avverto un certo languorino…la mia non è proprio fame, è voglia di qualcosa di buono” non avrebbe avuto nessun riscontro pubblicitario, se non fosse stata inserita all’interno di una storia. Le istituzioni partono dal presupposto che per comunicare con i cittadini non serva raccontare il bisogno in una storia, perché i cittadini dovrebbero essere interessati “per definizione” alle attività statali. No, io non sono interessato a conoscere l’albo pretorio del Comune di Roma, a meno che non ne abbia un reale bisogno. Il risultato è che le comunicazioni istituzionali “vendono” soltanto alle altre istituzioni e non ai cittadini. Quando Idea Positivo mi ha chiesto di ideare dei format e di scrivere degli spot per pubblicizzare il Sistema Informativo sulle Professioni, la prima cosa a cui ho pensato è stata “raccontare delle storie che partano dal bisogno e evidenzino i plus e i benefit”. Così, ho provato a rovesciare il paradigma comunicativo e a raccontare l’orientamento scuola-università, le morti bianche, i centri per l’impiego e l’orientamento scuole medie-superiori. Il risultato, grazie anche alla regia di Silvio Cambedda e a un’ottima post produzione, è andato oltre ogni aspettativa: nei prossimi mesi, molte istituzioni coinvolte nel progetto attueranno la stessa strategia comunicativa, attraverso i diversi canali social (non è esclusa la possibilità di utilizzare i canali televisivi e le risorse della Pubblicità Progresso). A memoria, non ricordo di iniziative simili, in cui viene attuata una comunicazione condivisa: sarà mica il caso di pensare la comunicazione istituzionale sotto altri punti di vista?