Cosa significa “avere le palle”? A dispetto dell’accezione apparentemente volgare, il significato di questa espressione è da ricercarsi nella storia della famiglia de’ Medici: c’è chi l’attribuisce al numero di palle dello stemma nobiliare e chi alle pillole con cui un medico, appartenente alla famiglia, curò Carlo Magno. Col tempo, questa espressione ha subito una nuova contestualizzazione: durante la prima guerra mondiale, i soldati più pericolosi erano quelli che giravano i proiettili al contrario, per causare più danni al nemico (da qui, e non dagli attributi maschili, deriva la condizione di chi “ha le palle girate”). Di certo c’è che questo modo di caratterizzare una persona non è per niente sessista e può essere utilizzato indistintamente per l’uomo, per la donna e più in generale per i lavoratori. Tra le tante leggende, io preferisco la versione in cui si fa riferimento alle pillole di Carlo Magno: mi piace pensare che “avere le palle” significhi saper prendersi cura di qualcuno o di qualcosa. Che a sua volta significa essere liberi, colti, coraggiosi, generosi, ribelli, folli, visionari e rivoluzionari, se occorre. Tutte caratteristiche assenti nella classe dirigente moderna e, soprattutto, nella classe dirigente della PA, che è bravissima a prendersi cura dei propri interessi e meno degli interessi altrui.Il cancro della pubblica amministrazione, checché se ne dica, non è per niente il lavoratore (o, almeno, non solo), è quell’esercito sterminato di dirigenti senza palle, strapagati dalla collettività per raggiungere dei fantomatici obiettivi istituzionali, che nella maggior parte dei casi corrispondono a un solo obiettivo personale: mantenere il potere e lo stipendio. Poiché la piramide dirigenziale funziona grazie a un sistema gerarchico clientelare, attribuire le responsabilità dei fallimenti è un compito arduo: per questo, chi sbaglia, nella PA, non paga mai. Per questo, è molto difficile risalire alla radice delle responsabilità e descrivere precipuamente il sistema di crediti e di debiti, di scambi di favori e di prebende, tipico di una concezione del lavoro (e non solo) molto italiana. Quando si compie uno scempio, di solito, ci sono i carnefici e i complici: nei bassifondi dei vertici, i carnefici agiscono alla luce del sole, senza vergogna, i complici sono pavidi, restano in silenzio, accettano passivamente, lasciano che le cose vadano in malora, senza opporsi, per non avere rogne. Come se l’indifferenza di fronte a un crimine sia una garanzia di innocenza sufficiente per autoassolversi e per essere assolti. In questo gioco perverso e malato di connivenze e di ginnastiche d’obbedienza, i lavoratori sono semplicemente una merce, uno strumento che serve alla dirigenza per rafforzare la propria posizione, per esercitare il potere e mantenerlo. Molto tempo fa, quando avevo ancora fiducia negli ideali marxiani, un docente che si occupava della formazione dirigenziale mi raccontò che, durante i corsi, ai dirigenti di ogni ordine e grado veniva inculcato nella testa un messaggio chiaro e inequivocabile: “I lavoratori servono esclusivamente a favorire la carriera dei superiori e a nient’altro. Siate abili, divideteli, create disuguaglianze e lasciate scannarli tra loro”.Mi sono rifiutato di credere a questa versione, fin quando non ho capito che aveva ragione, che Marx e Feuerbach avevano buttato via i migliori anni della loro vita e che i loro insegnamenti non erano serviti a niente. La PA, fortunatamente non tutta, ormai da anni, sta andando verso una deriva che rispecchia esattamente la situazione drammatica in cui versa il nostro Paese: la distruzione totale della collettività a favore dell’individualismo, il disfacimento dell’ interesse pubblico a favore di quello privato. Se dovessi scegliere un momento in cui tutto è cominciato, sceglierei gli anni ‘80, quando le USL (Unità Sanitarie Locali) sono diventate ASL (Aziende Sanitarie Locali): è bastato cambiare una vocale per cambiare la vocazione di un’intera nazione: quella A al posto della U significava che una delle cose pubbliche più preziose, la sanità, sarebbe andata verso una lenta e inesorabile privatizzazione. Che la parola unità avrebbe dovuto lasciare spazio alla parola azienda e che il diritto alle cure, prima o poi, sarebbe diventato subordinato al reddito. La parola dirigente, di conseguenza, è stata sostituita dalla parola manager e la distruzione è stata completata dalla Legge 59 del 15 marzo 1997 (meglio conosciuta come RIforma Bassanini) e successivamente dalla legge 133 del 6 agosto 2008 (la RIforma Brunetta). Queste due leggi, insieme alle rispettive leggi finanziarie, attraverso le quali è stato dato il colpo di grazia alla scuola e alla sanità, hanno trasformato il luogo di lavoro in un luogo di competizione e di sofferenza, laddove, per anni, era stato un posto di collaborazione e di discreto benessere. Con molti problemi, per carità, ma umanamente sostenibile. A un peggioramento della condizione lavorativa nell’eterna classe degli oppressi, è corrisposto un miglioramento della vita della classe degli oppressori, che possono godere di una serie di garanzie di impunibilità varie, autorizzate per legge. Paradossalmente, da quando si è iniziato a parlare di benessere sul lavoro, il malessere, l’insoddisfazione e l’allontanamento dei lavoratori (di solito i più preparati)l dal posto pubblico a favore di quello privato sono aumentati vertiginosamente.D’altronde, non si può migliorare il benessere lavorativo, applicando misure repressive e punitive nei confronti dei lavoratori e azzerando i diritti conquistati in anni e anni di lotte. È bene sempre ricordare che la Pubblica Amministrazione è fatta di persone: se non vengono rispettati gli esseri umani non può essere rispettata l’istituzione che si rappresenta. A ogni modo, è ormai chiaro che le azioni peggiori, perpetrate ai danni dei cittadini, debbano essere supportate da parole che significhino l’esatto contrario: si usa il termine “benessere” per creare malessere, “misura giusta” per compiere ingiustizie, “azione necessaria” quando nessuno ne sente la necessità, “missione di pace” per fornire armi e soldati ai paesi in guerra.La classe dirigente, abilissima a cambiare direzione in funzione di come soffia il vento delle convenienze, già inadeguata a gestire la cosa pubblica, si è trasformata da subito in un leviatano senza testa assolutamente incapace di contrastare la privatizzazione, le vessazioni, la distruzione dello status quo e lo sfascio dell’apparato statale. Come si può, dico io, utilizzare un modello organizzativo che abbia come fine il profitto, per gestire delle amministrazioni che dovrebbero avere come fine il benessere della comunità? Se a questa domanda è difficile dare una risposta, ancor più difficile è trovare una logica nell’impiego, nel settore pubblico, di manager che non sono chiamati a generare profitto e che, per questo, non rischiano mai nulla, perché giocano con i soldi degli altri (i cittadini).Nei casi peggiori, l’avvicendamento di manager spregiudicati, invasati dal delirio capitalistico del “make or buy”, ha prodotto la cessione di conoscenza, la vera ricchezza delle istituzioni, e vincolato l’erogazione dei servizi pubblici alla fornitura di servizi privati di dubbia qualità. Il risultato ottenuto è facilmente prevedibile: la distruzione totale degli equilibri produttivi, l’umiliazione dei lavoratori e, ovviamente, un premio: l’avanzamento di carriera. Perché, una cosa l’ho capita, maggiori sono i fallimenti della classe dirigente e maggiori sono gli avanzamenti di carriera: se mia nonna sapesse che ai giorni nostri viene promosso un incapace che ha fatto fallire la bottega e gettato sul lastrico la famiglia, desidererebbe morire una seconda volta.Poiché al grottesco non c’è mai fine, quegli stessi manager, che in un’azienda privata non avrebbero potuto ambire nemmeno al ruolo di fattorini, sono gli stessi che, passando di promozione in promozione, e fingendo abilmente una redenzione mai sincera, quando, a causa del loro operato, vengono realmente ceduti degli asset pubblici alle aziende private, indossano la divisa da Don Chisciotte e adottano iniziative contro le privatizzazioni: come se un macellaio manifestasse contro gli allevamenti di suini… poco credibile…Sia chiaro, non ho niente contro l’iniziativa privata: ben venga il modello imprenditoriale inventato da Olivetti, ben vengano gli imprenditori coscienziosi, che sappiano abbinare col giusto equilibrio il profitto, il benessere dei lavoratori e il miglioramento della vita collettiva. Purtroppo, quando il profitto prende il sopravvento, il resto perde di valore, anche la vita. Gli imprenditori illuminati che conosco, e ce ne sono, faticano a restare a galla e sono costretti a barcamenarsi per sopravvivere ai colossi e al modello Briatore o, peggio, Musk.Cambiare questa classe dirigente è un’impresa impossibile, perché un Paese ha la dirigenza che si merita e, oggi, le palle le hanno veramente in pochi. Si fa un gran parlare di competenze, ma la realtà è che la parola competenza viene utilizzata a sproposito per mascherare con originalità l’incompetenza e l’ignoranza. Eppure, l’Italia è un Paese in cui i dirigenti con le palle ci sono: basterebbe andare a cercare gli esiliati, quelli che “hanno un caratteraccio”, quelli che non si sono piegati ai ricatti e che vengono messi da parte perché antepongono la comunità in cui vivono agli interessi personali e ai giochi di potere. Quelli che, altra nota dolente, hanno la conoscenza, quella caratteristica di cui la Pubblica Amministrazione non ha bisogno, perché fa emergere la mediocrità diffusa e genera invidie e malcontenti. La cultura, nella PA, viene severamente punita ed emarginata, in quanto, oggi come ai tempi del fascismo, fa paura.Un po’ di tempo fa, sull’onda di chissà quale illuminazione, a qualcuno venne in mente di proporre una valutazione della dirigenza “dal basso”, perché, ci vuole poco a capirlo, un dirigente che valuta un altro dirigente non potrà mai essere obiettivo. Panico. Adesso che si fa? Si fanno rispondere al questionario i fedelissimi, gli yesman, gli zerbini, affinché le valutazioni risultino positive. Ebbene, i risultati, in molte amministrazioni, furono ugualmente disastrosi: nemmeno i fedelissimi se la sentirono di partecipare a questa operazione collettiva di distorsione della realtà. È stato un po’ come assistere a quelle elezioni in cui i candidati non vengono votati nemmeno dai genitori…È chiaro che le colpe enormi della dirigenza non assolvono quei lavoratori che utilizzano la PA come una mucca da mungere, ma questa è un’altra storia, che necessita di altre analisi e di altre argomentazioni. Se è facile, per molti politici e per gli imprenditori, sostenere l’inutilità dell’apparato pubblico, non è altrettanto facile immaginare uno Stato, che so, senza il MEF o senza Agenzia delle Entrate: senz’altro migliorabili, ma senza dubbio indispensabili. Il miglioramento, però, ha bisogno di una consapevolezza diversa e di una lenta ricostruzione di quel tessuto sociale distrutto da anni di politiche scriteriate.Raccontata così, sembrerebbe uno sfacelo, ma una speranza c’è: i giovani. Loro, fortunatamente, sono diversi, hanno capito da subito che “i boomer” sono il problema. A loro sono rivolte le speranze della “generazione X”, una generazione arresa che ha miseramente fallito. Siate coraggiosi, non abbiate paura di ribellarvi, dite no ai ricatti, alla schiavitù, alle gerarchie e al potere. Siate liberi. Riprendetevi il futuro, la dignità e il Paese che vi abbiamo tolto. Metteteci da parte. Indignatevi e, soprattutto, collaborate: la collaborazione è meravigliosa, è l’unica speranza di salvezza degli esseri umani. Da soli, per quanto possa essere grande la fama, il livello raggiunto o la poltrona occupata, non si va da nessuna parte.Vi chiediamo scusa. Scusa.