Corri, corri come se non dovessi fermarti mai. Corri, corri come se non ci fosse un domani. Corri, qualsiasi cosa accada. E non rallentare, nemmeno se senti che ti scoppia il cuore. Un decimo di secondo perso è una gara persa, e tu non devi perdere. Tu sei nata per correre, ragazza. E per vincere.
Ogni volta che si fermava a guardare quei trofei, Emma pensava alle parole del suo allenatore. Aveva iniziato l’atletica leggera per dispetto, perché le sorelle erano iscritte entrambe a un corso di danza classica e a lei quei balletti sembravano ridicoli. Roba da femminucce, pensava. Gli allenamenti, invece, erano durissimi. Correva col sole e con la pioggia; quando i suoi compagni uscivano da scuola per consumare il pomeriggio davanti alla televisione, lei andava ad allenarsi. E le parole del suo allenatore, giorno dopo giorno, le erano entrate dentro. Le soddisfazioni se le era tolte a colpi di vittorie, complimenti e articoli di giornale. Nel frattempo, però, la vita le era corsa accanto. Quanto e più di lei. Senza che se ne accorgesse. Emma era nata per correre, o l’avevano convinta che fosse così. Le gare, quelle maledette gare, che un bambino dovrebbe vivere come un gioco, per lei erano diventate un’ossessione. La competizione con gli altri l’aveva estesa non solo all’atletica, ma a ogni aspetto della vita. I rapporti umani, i sentimenti, i piccoli traguardi di tutti i giorni: in ogni cosa c’era un obiettivo da raggiungere, un avversario da sconfiggere e una medaglia da vincere. Senza fermarsi. Corri, corri come se non dovessi fermarti mai. Corri sotto al diluvio e sotto al sole cocente. Era diventata forte, Emma. Forse troppo. Il suo carattere si era indurito come la pianta dei suoi piedi. Sacrificio. Impegno. Rabbia. Vittoria. E poi di nuovo a correre e ad allenarsi, per aggiungere una medaglia e un articolo di giornale alla carriera. Bulimica di successi. Ogni vittoria le creava un senso di vuoto profondo, un’insoddisfazione che riusciva a colmare soltanto correndo. Fame, nausea. E poi ancora fame e ancora nausea. Vomito.
Gli obiettivi, i grandi obiettivi che vedeva in lontananza, il matrimonio, la casa, la famiglia, li aveva rincorsi con la stessa rabbia e lo stesso spirito di sacrificio. Li aveva raggiunti, quegli obiettivi, ma aveva un marito che non amava, una casa acquistata per avere un posto qualsiasi in cui stare e una profonda insoddisfazione, che a sessant’anni non avrebbe più potuto colmare. Avrebbe dovuto fermarsi, altro che correre. La vita aveva regalato anche a lei attimi di felicità, attimi che non era riuscita ad assaporare e che non sarebbero più tornati. Aveva avuto carezze dolci da un uomo che ormai non c’era più. C’erano stati raggi di sole, panini in riva al mare e accenni di batticuore messi a tacere dalla razionalità. Nei ricordi, un diluvio di vita non vissuta. Persa. Lasciata scorrere in attesa di qualcosa che non sarebbe arrivato mai. Gli obiettivi, quei maledetti obiettivi da raggiungere, le avevano rovinato degli istanti di bellezza, che avrebbe dovuto sorseggiare lentamente come un cioccolato caldo durante un inverno gelido. Il viaggio, conta il viaggio, non la meta. Adesso l’aveva capito. Adesso era tardi. La gara più importante, quella che ognuno fa con sé stesso, l’aveva persa.