A quel congresso, a cui avrebbero partecipato tutti i suoi colleghi, Massimo non voleva andare. O quanto meno avrebbe voluto starsene nascosto tra gli invitati, invece di fare un discorso sui valori della famiglia tradizionale e di come quell’ipocrita normalità inventata fosse l’unica possibile. Non era la persona più indicata ad “affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società”, come recitava il volantino del congresso. Proprio lui che si era sempre sentito sbagliato e inadeguato. Sempre in colpa, fin da bambino. Proprio a causa di una famiglia normale. Normale e ignorante. E bigotta. Sempre col dito puntato, sempre con quella strana vergogna che provano i cattolici quando entrano in chiesa, preoccupati più di non commettere quei peccati inventati da persone come loro che di non essere miseri. La differenza tra sembrare perfetti e mostrarsi veri, Massimo la conosceva bene. E preferiva essere vero. La sua normalità si chiamava Federico, il compagno con cui condivideva la vita da più di vent’anni. L’amore della sua vita. L’ omosessualità, dopo aver sperimentato sulla sua pelle la bestialità della cattiveria umana, se l’era tenuta per sé, insieme alla felicità di quella relazione. Nessuno avrebbe dovuto più entrare nella sua vita. Ne aveva subite troppe, di umiliazioni. Quelle rare volte in cui aveva provato a parlarne con qualcuno, genitori inclusi, si erano ripetute patetiche scene da film trash: risatine, compatimento, allontanamento, discriminazione… C’era stato un periodo in cui malediceva il giorno di essere nato. Non riusciva a convivere con la sua identità, a volte provava addirittura schifo per quello che era. Cercava di annientarsi, pur di non essere più lui. Pur di non essere. Aveva delle lunghe cicatrici sui polsi. Stavano là, da anni, a testimoniare una personale battaglia contro la vita. Battaglia vinta.
– Quanto potere di farmi del male ho dato alle persone… sono stato proprio uno scemo.
Un sorriso sulle labbra. Quelle parole che lo avevano ferito a morte, adesso lo facevano ridere. Per un lungo periodo, non era stato più Massimo. Era il gay, l’omosessuale, il malato. Questo agli occhi di quelli buoni. I cattivi, invece, lo chiamavano frocio, culattone, checca, depravato. E i pianti si sprecavano. E la voglia di morire pure. Poi era arrivato Federico, e la sua vita si era trasformata da condanna senza fine a un dono senza confine. Era riuscito a dare un senso anche al tempo perso a disperarsi.
– È stato un modo per ingannare l’attesa, ma ne è valsa la pena.
Poveracci, pensava adesso. Non capiranno mai cos’è l’amore. Sono tutti troppo impegnati a essere normali in una normalità che si sono creati da soli. E non vedono. Non vedono di essere imprigionati dentro a una gabbia che hanno costruito con le loro mani. Gli animali nati in gabbia non hanno idea di cosa sia libertà. Di quanto sia bello sentirsi liberi. Sentirsi liberi ed essere sé stessi. Ogni tanto qualcuno ci prova, a scappare, ma sono pochi. E, di quei pochi, la gente dice “È impazzito”, “È uscito di testa”. Sono quelli che restano là, a guardare la vita passargli davanti, aspettando che si consumi, convinti di essere al sicuro. Non avendo altro di meglio da fare che vivere attraverso le vite degli altri. O meglio, non proprio attraverso le vite, attraverso l’invidia e il giudizio nei confronti di quelle vite.
– Ci vado, al convegno. Ci vado.
Non sempre è possibile rifiutare di eseguire le disposizioni di un superiore, specialmente quando il lavoro è precario e traballante.
– Se non posso rifiutare, posso eseguire a modo mio…
E Massimo si era preparato un discorso a modo suo.
– Cos’è la famiglia?
Disse, quando venne il suo turno.
– Intendo la famiglia vera, quella cattolica, quella naturale di cui discutiamo in questo convegno. È amore o razionalità? È amore o convenienza? Da quando ho ricevuto l’invito a questo congresso, non smetto di domandarmelo. Che sia una conseguenza dell’amore, non c’è dubbio. Che sia l’unica conseguenza dell’amore, mi sembra una negazione della realtà. Tra gli invitati, ci sono molte persone che conosco da anni. Alcune hanno un’amante, altre l’hanno avuta. Alcuni consumano il tempo sui siti pornografici, altri sono iscritti ad associazioni di scambisti…
– Ma che cazzo dice?
– È impazzito?
– Questo coglione!, domani si becca una lettera di richiamo.
– … altre hanno una ex moglie, una ex famiglia, una nuova ex moglie e una nuova ex famiglia. Altre sono gay, ma si vergognano. Si vergognano di amare, capito? Si vergognano di provare dei sentimenti. Sono costrette a provare vergogna per una delle cose più belle che possa accadere nella vita. Eppure sono qua, a celebrare qualcosa in cui in fondo non credono, ad applaudire i loro carnefici, a esaltare una delle tante forme d’amore di cui l’uomo è capace, fingendo che sia l’unica possibile. Quella che alcuni uomini hanno scelto come normalità. Quella che si può mostrare senza provare vergogna. Lo hanno deciso per tutti, anche per chi non lo pensa. E hanno chiamato “naturale” ciò che in natura non esiste, per dividere, per discriminare.Per farci sentire in colpa. Come se ci fosse un amore naturale e uno innaturale. Come se l’amore avesse delle regole da seguire. E le emozioni? E l’irrazionalità? E quello che scoppia dentro due persone che si amano? L’amore che non si vede, insomma. Quello vero. Facciamo finta che non esista? Ci fa comodo far finta che non esista? A me no. A me no.Oggi celebriamo ciò che si vede e che ci fa comodo: un funerale, più che una gioia. “L’unità stabile e fondamentale della società” è quella in cui le persone non siano costrette a vergognarsi di essere quello che sono. È quella in cui l’amore non è scritto su un contratto,ma può assumere tutte le sue sfumature in qualsiasi momento della vita. “L’unità stabile e fondamentale della società” è il rispetto della libertà altrui e io sono qui per celebrare la libertà.Come.Unità.Stabile.Della.Società.