Io e lo sport abbiamo sempre avuto un rapporto burrascoso, tipo Brooke e Ridge in Beautiful. Ormai non conto più le volte che ci siamo presi e lasciati… che nostalgia. Quante volte, dopo una prova impegnativa, ho detto, Ma chi cazzo me l’ha fatto fare?, più o meno come quando ripenso alle poche ma squilibrate donne che per fortuna sono lontane. Quanti commoventi vaffanculi di cuore ho indirizzato alle salite ripide percorse in bicicletta? Quanti mortacci, passando al setaccio diverse generazioni, ho evocato, mentre scendevo da qualche pista nera con gli sci? Lo so, le parole d’amore sono una cosa meravigliosa… Nonostante ormai siamo arrivati ai ferri corti, lo sport continua a tentarmi come una baldracca d’alto bordo: prima mi fa vedere la coscia tornita e poi mi presenta il conto. Ho provato di tutto: calcio, nuoto, pallavolo, basket, windsurf, sci, canoa, ciclismo, atletica… e in ogni disciplina ho primeggiato al contrario. Ho ultimeggiato. Fallendo, ovviamente. Daniela, la mia compagna fedele come un lupus eritematoso, invece, oltre ad avere una predisposizione naturale per qualsiasi sport che la diabolica mente dell’uomo abbia avuto la malvagità d’inventare, è anche campionessa di decathlon. No, non intendo quella specialità che prevede la pratica di dieci sport impossibili per le capacità di qualsiasi comune mortale. Sarei tentato di dire che è più portata per passare ore e ore dentro al negozio di sport dal nome omonimo, a rompere le balle ai commessi e a scegliere capi d’abbigliamento super scontati, dai colori improbabili, che non indosserebbe nemmeno Platinette, ma nemmeno questa è l’attività in cui spicca. Il suo è un decathlon psicologico contro di me, una specie di giochi senza frontiere distruttivo, che prevede:
– Frantumazione ripetuta delle sacche scrotali perpetrata con lamentele crescenti su temi casuali, sconnessi e inutili.
– Frattura scomposta dell’apparato riproduttivo, preceduta da scenata di gelosia isterica e simulazione di convulsioni
– Tre giorni di “niente’” a chiunque tenti di chiedere cosa c’è che non va
– Prova di velocità di bipolarismo, per battere il primato del mondo sul numero di cambi d’umore al minuto
– Distruzione di autostima a colpi di “non capisci”.
– Rievocazione e rinfaccio di parole dette anni prima, registrate nel master boot record dell’hard disk cerebrale, e pronte a essere vomitate al primo malfunzionamento del BIOS.
– Prova di imbruttimento multipla con testata a freddo in pieno petto, corredata dalla fatidica domanda “chi è quella troia?”
– Istigazione alla crisi d’identità, con tecniche di distruzione psicologica subliminali, e competizioni ad minchiam con qualsiasi donna abbia avuto la sventura di nominare.
– Sollevamento di problemi inesistenti e corsa alle insoddisfazioni
– Salto con l’ansia e scatto di nervi
Capirete che, con una donna simile accanto, gli sport estremi si sprecano. Il più pericoloso in assoluto è la contraddizione. Basta che io dica timidamente “forse stai sbagliando”, badate bene, “forse”, non “sono certo che”, per scatenare una prova di forza su chi ha ragione. Prova di forza che finisce solitamente in rissa e non termina alla fine della discussione. Nooo, termina quando è stata attuata, da parte sua, una vendetta lenta, progressiva e proporzionata, come suggerito dal codice barbaricino, libro che tiene sopra al comodino e consulta tutte le sere prima di addormentarsi. Termina in un momento qualsiasi, in un pomeriggio qualsiasi, in cui non si può far altro che tirar fuori il rancore. Quando la noia e la voglia di stare lontani superano di gran lunga la voglia di stare insieme. Questa è la vera differenza tra me e lei: io quel “forse” lo dimentico subito dopo la discussione, a lei resta marchiato a fuoco nelle sinapsi. E a volte le sue sinapsi si impallano come Windows. La differenza è che per risolvere la situazione non si possono spingere i tasti Ctrl-Alt-Canc e tantomeno riavviare il sistema operativo. Va in loop, come quei programmi che si scrivevano da ragazzini sul Commodore 64 per sentirsi dei programmatori navigati. Riga 1, print “Sei bello”. Riga 2 go to 1. Solo che nel caso di Daniela la riga 1 corrisponde a uno dei dieci punti elenco del decathlon decalogo. Su quel “forse”, lei costruisce un castello di riflessioni, di “forse intendeva dire che…”. Lo fa in piena autonomia e libertà. E quando una donna ragiona liberamente e autonomamente sulle parole dette da un uomo, di sicuro trae delle conclusioni sbagliate. Perché siamo diversi, non c’è niente da fare. L’uomo ragiona in maniera euclidea e la donna in modo naif. Per comprendersi, bisogna parlarsi e confrontarsi. Altrimenti si rischia di schiantarsi a volo d’angelo sulle incomprensioni e di atterrare a pelle di leone sui fallimenti sentimentali. Che poi è la mia specialità, anche negli sport. Sono un campione di volo a cazzo di cane e atterraggio scomposto. Ricordo quella volta in cui, per seguire lei e i suoi amici, dei pazzi esaltati con la fissazione dell’adrenalina e delle prestazioni da gara, mi sono imbattuto nella più fantozziana delle discese sugli sci: la Gran Risa. Già il nome avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa, rispetto alla reazione che avrebbero avuto gli altri nei miei confronti.
– Hai visto quanto è ripida? Sembra un muro…
– Infatti, più che Gran Risa avrebbero dovuto chiamarla Muro del pianto…
– E dai, Luca, devi sempre rovinare tutto!
– Non voglio rovinare nulla, invece. Sai che a me piace scendere lentamente, facendo delle tappe, che prevedono strudel, cioccolata calda e bombardino con panna.
– Uffa! Non capisci proprio niente. Pensi sempre al cibo. Prendi esempio da Piero… lui scende come un razzo e ha uno stile perfetto.
Che vi avevo detto? Ecco il primo “Non capisci” della giornata. E, per non farsi mancare nulla, anche l’istigazione alla crisi d’identità. Piero, invece, capisce. Per essere precisi, Piero è un manager rampante, palestrato e con la fissazione del deltoide scolpito, della dieta proteica, e del Rolex Daytona stile macellaio arricchito. Tacchina Daniela da sempre. E lei si lascia tacchinare, peraltro. Il fatto è che non riesco a prendere esempio da un gorilla con due neuroni sconnessi, e questo sta diventando un problema. Io sono fiero del mio sognare, di questo eterno mio incespicare, direbbe Guccini. E rido in faccia a quello che cerchi e che mai avrai, direbbe sempre Guccini.
– Sì, Piero è il mio modello di riferimento. Se oltre a sciare come Alberto Tomba riuscisse a dire “se io avessi” e non “se io avrei”, sarebbe un uomo da sposare.
– Non essere polemico: non si vive di soli congiuntivi. Serve anche altro…
– Sì, è vero, per vivere servono anche i Rolex da otto chili. Di piste nere, invece, si può morire.
– Esagerato! Su, forza, vedrai che ti divertirai.
Come no…
Odio la mia accondiscendenza, specialmente quando la uso per mascherare il mio senso di inadeguatezza. Per non sentirmi diverso, dico sì. E mi pento. Dovrei fregarmene e dire dei no tondi tondi, ma non sono capace. Eppure, dovrei aver imparato che quando cerco di essere uguale agli altri le cose vanno a puttane. Qualsiasi cosa. Dal lavoro all’amore. Tranquilli, non vi deluderò: anche stavolta, per non sentirmi inadeguato rispetto a Piero e per non deludere Daniela, dirò di sì. Anche se ho paura. Anche se non so sciare. Anche se vorrei solo stare con lei, senza avere quest’ansia da prestazione e da competizione. Servirà a qualcosa? Chi può dirlo? Ah, già, posso dirlo io, che vi sto raccontando la storia…
Eravamo schierati in formazione d’assalto. Sembravamo i Sorci verdi, il temibile battaglione aereo della seconda guerra mondiale da cui deriva il celebre detto “te faccio vedé li sorci verdi”. Con la precisazione che, in quell’occasione, io ero il bersaglio e loro il battaglione. E i sorci verdi, in effetti, me li hanno fatti vedere. C’è da dire che la formazione d’assalto era molto disomogenea. In prima fila erano schierati Daniela e Piero, poi, a scalare, in ordine di ego ed esaltazione, gli altri componenti del gruppo. In coda, io e Rosario, un cinquantenne siciliano e imbranato che vedeva nella mia inadeguatezza l’unica sua ancora di salvezza, più o meno come io vedevo nella pratica professionale del suo nome l’unico sistema per uscire vivi da quella situazione.
– A Lù, non so te, ma, come dite a Roma?, io me sto a cacà sotto dalla paura…
– Tranquillo, Rosà, scendiamo piano piano a spazzaneve. A ogni curva tu dici un ora pro nobis, nella speranza che serva a qualcosa, e vedrai che ne usciamo vivi.
Che gruppo di merda!
Disomogeneo al massimo.
Mi chiedo perché, per far funzionare le cose in una coppia, si debba sempre scendere a compromessi. Non è possibile andare nella stessa direzione? No, pare di no. Uno ama il mare, l’altra la montagna. Una è pigra, l’altro iperattivo. Uno è simpatico, l’altra ha il senso dell’umorismo di un frigorifero. Uno è passionale, l’altra una lavastoviglie con le unghie. Uno ha amici anarchici e minimalisti, l’altra amici fighetti e superficiali. Fattele due domande, se le relazioni naufragano, no? Ogni volta che si fa un compromesso, si rinuncia a essere sé stessi. E ogni volta che si rinuncia a essere quello che si è, si scava la fossa alle relazioni. Perché se uno è costretto a essere qualcun altro significa che la persona che ha accanto ha bisogno di qualcun altro. Questa rincorsa a essere diverso da quello che sono mi ha un po’ rotto i coglioni. Soprattutto quando mi ritrovo in contesti in cui la diversità mi fa sentire profondamente inadeguato. Tipo quelle cene tra pariolini figli di papà in cui ognuno tenta di dimostrare, a colpi di successi lavorativi, scarpe in pelle di foca nana del Sahara e soluzioni capitalrazziste ai problemi del mondo, chi ce l’ha più lungo, senza rendersi conto di mettere sul tavolo una dotazione genitale che meriterebbe un microscopio di precisione, per essere osservata. Sappiatelo, io rubavo i pezzi dei motorini insieme a Giggetto, il tossico del quartiere. Quanta nobiltà c’era in quei gesti. Eravamo i Robin Hood delle due ruote. Rubavamo a chi aveva i pezzi di ricambio, per venderli a poco prezzo a chi non li aveva. A chi non aveva il motorino non rubavamo niente Più nobili di così credo che non si possa essere. Quella era un’azienda solida, altro che Amazon. Una vera Società a Responsabilità Limitata. Io mi limitavo a fare il palo e Giggetto a smontare i pezzi: eravamo d’accordo che se la polizia si fosse bevuta uno dei due l’altro avrebbe negato fino alla morte qualsiasi conoscenza. Più limitata di così… Non siamo mai andati in perdita, i conti sono sempre stati a posto. Il fatto che i miei soldi li abbia investiti in cazzate inutili dipende dal mio spiccato senso per gli affari, che si è palesato fin dall’adolescenza. Ricordo con commozione quel trittico, composto da sella, ruota e carburatore di una Vespa 150, che ha fruttato la somma esatta per comprare un Game Boy con cui sfidare gli amici a Tetris. E ricordo nettamente i ringraziamenti sinceri del ricettatore: erano mesi che la sua Vespa singhiozzava a causa di un carburatore malfunzionante. Con una spesa contenuta, gli consentimmo di sistemarla. Tutti contenti, insomma. Se state pensando che il derubato non sia rimasto proprio contento, vi dico che se uno può permettersi un carburatore funzionante, non si può provare pena. Sono problemi suoi, se viene derubato. A me interessa aiutare chi non può permetterselo…
Invece, sentire i discorsi dei manager rampanti mi fa venire il voltastomaco. Sì può essere schiavi di un padrone, che si arricchisce alle loro spalle e non gliene frega un cazzo dei dipendenti, credendo di vivere una vita appagante e sentendosi realizzati? Evidentemente sì, è possibile. Se è possibile questo, può anche verificarsi l’eventualità che un ladro libero faccia il suo sporco lavoro, che poi così sporco non è, se viene paragonato a quello di chi ruba in giacca e cravatta, e smonti nottetempo i paraurti delle auto per rivenderli ai bisognosi.
Insomma, mentre guardo le ricche facce da culo che mi circondano, ripenso ai primi tempi, a quanto eravamo spensierati io e Daniela quella volta in cui ci ritrovammo a sciare insieme ad Alberto, il mio migliore amico, e a quella baldracca della sua compagna, la donna che ci ha fatto allontanare. Sono mesi che non usciamo insieme. E mi manca un po’. Chissà come avrebbe reagito, in questa occasione. Sicuramente non mi avrebbe lasciato indietro… In certi momenti, bisognerebbe fare delle fotografie, per ricordarsi come siamo prima che tutto cambi. Sarebbero delle immagini da guardare con nostalgia, utili per trovare il punto esatto in cui qualcosa è andato storto e si è rotto, e servirebbero per capire come non sbagliare più. Invece, si dimentica, o si cambia, e si cede il fianco agli sbagli ancora, ancora e ancora.
– Scendiamo a cannone e l’ultimo paga da bere.
Ancora con queste scommesse da coglioni? Pago io e la finiamo qua, penso.
– Quanto mi sta sul cazzo quel Piero.
– Lo dici a me? È una vita che cerca di rimorchiare Daniela. Prima o poi ci riuscirà, ne sono certo.
– Minchia!, ieri sera eravamo seduti allo stesso tavolo: non ha fatto altro che parlare di SUV, bilanci, Costa Smeralda e investimenti.
– Che uomo modesto. Briatore in confronto a lui è don Gallo…
– Però sa sciare… Guarda come scende a razzo.
– Dai, scendiamo anche noi…
Come si traduce, in italiano, l’espressione romana “Mortaccisuaquantoèripidastadiscesa”?
Non mi viene in mente niente. “Accipicchiolina, la pendenza è elevata” non rende l’idea.
Ma chi me l’ha fatto fare? Non potevo restarmene in albergo, simulando un attacco di cervicale? Mi tocca far ricorso al coraggio che non ho. Mi faccio il segno della croce, nel nome di Daniela, di Piero e dell’anima di chi t’è muort. Scendo con una grazia che non dico Graziella un po’ per modestia e un po’ perché renderebbe di più l’idea la terza Grazia, quella più famosa…
Ogni metro è una scommessa con Newton per mantenere l’equilibrio. Ovviamente, nel mio caso, più delle leggi della fisica valgono le leggi della metafisica e, soprattutto, il ricorso alla religione. Non proprio alla religione… diciamo a quella branca della religione che prevede un sano raccoglimento spirituale al quale prima o poi ricorrono tutti. No, non parlo del catechismo e nemmeno della confessione. Parlo della bestemmia, per l’esattezza. Ci vuole talento a nominare invano il nome di dio e di tutti i suoi collaboratori, a mo’ di cantilena, come in una canzone degli Inti Illimani o, meglio, come in un coro gospel.
Mantenendo il tempo.
In ordine d’importanza.
Solista: Porco Giuda ciabattino.
Coro: Prega per noi.
Modestamente, io quel genere di talento ce l’ho. Forse, quando andrò all’inferno, avrò uno sconto di pena. Forse…
Mentre valuto con attenzione il girone infernale in cui potrei finire, esitando tra quello dei minchioni e quello degli assaggiatori professionisti di merendine, sento dire:
– Wow, la pista è ghiacciata! È fantastica…
Fantastica un cazzo, dico io.
Ma non faccio in tempo a concretizzare il mio dissenso perché, davanti a me, Rosario perde l’equilibrio, dando ragione più alla legge di Murphy che a quella di Newton, fa una spaccata, perde l’equilibrio e inizia a rotolare a valle come un cannolo siciliano.
– Luca, aiuto!, non riesco a fermarmi…
Capirai, ti stai rivolgendo alla persona giusta… Provo a vedere quello che riesco a fare. Ecco, ora giro a sinistra. No, questo sci di merda mi porta a destra. Cumulo di neve, ghiaccio e accelerazione improvvisa. Perdo l’equilibrio, cado, resto in piedi. Cazzo, sto andando sparato verso di lui. Lo prendo? Lo schivo? Lo ammazzo?
Per fortuna, Rosario si è fermato con naturalezza, schiantandosi contro un masso al lato della pista. Non dà segni di vita. Sarà morto? Se lo è, buon per lui: non dovrà fare i conti con la moglie,quando rientra in albergo. Lo vedo avvicinarsi; cioè, sono io ad avvicinarmi a lui a velocità folle, ed è sdraiato davanti a me, in posizione da briscola: a 4 di bastoni con gli zebedei a favore di sci. Rosario, arrivo, sono il tuo asso di bastoni e ti dimostrerò scientificamente che le bestemmie funzionano meglio delle preghiere. Per dimostrare che le parole che scrivo non mi tradirebbero mai, uno dei miei sci non tarda a centrarlo in pieno sulle palle prendendole anche come trampolino di lancio, prima di staccarsi dall’attacco. L’altro, più discreto ed elegante, prende una direzione sobria e, con le lamine affilate che si ritrova, trancia di netto il completo da sci nuovo di pacca e gli recide un’arteria secondaria del braccio, colorando la pista di sangue. A prima vista, potrebbe sembrare una tragedia, invece la buona notizia c’è: la mia manovra impeccabile è servita per farmi capire subito che Rosario è vivo. Il colpo del primo sci ha suscitato in lui una reazione positiva, manifestata attraverso una evidente espressione di giubilo, roba tipo “ma porca di quella M…”
Visto che le bestemmie servono? Se un uomo bestemmia significa che è vivo.
Nel frattempo, anche il secondo sci, dopo aver svolto egregiamente il suo lavoro, si stacca. E qui entro in scena io. Impatto violento, sci persi istantaneamente… e cosa resta, se non il volo dell’angelo imprecatore? Mi libbro in aria come un passerotto, e ricado violentemente a pelle di leone sulla pista che “Wow, è ghiacciata! È fantastica…”.
Aveva ragione Rosario: fermarsi su una pista nera ghiacciata è quasi impossibile. Bisogna avere culo. E io spero di averlo e di schiantarmi come lui contro un masso. Niente da fare, continuo a scivolare su quel muro di ghiaccio, come una saponetta imbevuta di sugna. A un certo punto, la fortuna sembra ricordarsi di me: un cumulo di neve improvviso mi fa uscire dalla pista. Dio, ti prego, fammi terminare la corsa addosso a un abete, uno di quegli abetoni montani che sembrano fatti apposta per stroncare la vita degli incapaci. Macché, sono incapace anche nel fuori pista e continuo la mia corsa nella direzione del laghetto. Complimenti! Bel posto dove mettere un laghetto. Ci voleva tanto a prevedere che un giorno qualche deficiente avrebbe potuto finirci dentro?
Quel giorno è arrivato.
Quel deficiente pure.
A nulla servono le preghiere, le bestemmie e i cespugli abbattuti con la faccia e con le mani messe in posizione di barra falciante Gaspardo modello F925: un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di piùùù. Giusto un coglione come me può pensare all’Equipe ‘84, prima di morire assiderato in un laghetto montano. Per fortuna, una ragazza, evidentemente pratica di coglioni che si tuffano a valanga nei laghetti, vede la scena e si precipita a salvarmi dall’assideramento. Ricordo due cose, di quell’evento: la striscia di sangue che ho disegnato col mio naso rotto e il telefonino annegato al posto mio e morto per sempre. E con lui tutta la rubrica telefonica. Centinaia di contatti persi. Anche quello di Luisa, che si è sempre sottratta alle mie advances, ma sono sicuro che avrebbe ceduto, prima o poi, se solo avessi imparato a memoria il suo numero, invece di aver imparato quello di Aristide Squarcialupi, il meccanico a cui ho telefonato centinaia di volte per quella bagascia di Panda mai riparata completamente. L’acqua gelata del lago non è per niente male: ricordo lucidamente l’effetto istantaneo del congelamento scrotale. Mi cadrà tutto l’apparato, ho pensato.
In tutto ciò, invece di una parola compassionevole, che so, un “tesoro mio ho avuto il terrore di perderti”, Daniela non si è smentita. Quando l’angelo salvatore, ragazza peraltro dalle fattezze gradevolissime, mi ha accompagnato infreddolito e bagnato come un pulcino alla fine della pista, tra le espressioni di ilarità e disprezzo della comitiva si è levata la voce calda di Daniela, che ha sussurrato “chi sarebbe quella zoccola?”.