Il cibo è la mia seconda passione. La prima è… la narrativa. Che avevate capito? Subito a pensar male… “Ci sono gente” totalmente in malafede e voi non fate eccezione. A dire il vero, ero indeciso se scrivere musica o narrativa, ma poi ho optato per la prima, che in qualche modo comprende anche la seconda. Direte, se c’è di mezzo anche la musica, non potevi scrivere che il cibo è la tua terza passione? Sì, avrei potuto scriverlo, ma poi non sarebbero tornati i conti e non avrei saputo argomentare bene l’equivoco tra prima e seconda passione. E poi non è che devo svelare tutti i trucchi del mestiere… Comunque, in questi anni, avreste dovuto capire con chi avete a che fare. Dovreste sapere che se mi proponessero di scegliere tra un fine settimana triste in compagnia di Belen Rodriguez e la lettura ad alta voce de I fratelli Karamazov in un gruppo di ultrasettantenni, non farei nessuna fatica ad ammettere candidamente di avere un’amaurosi fugace, patologia che sicuramente conoscerete, anche senza usare Google, e che indica un desiderio irrefrenabile di “amaure” fugacemente Belen. Sbagliato. Volevo vedere fino a che punto arrivasse la vostra ignoranza sulle patologie oculari; patologie che io conosco alla perfezione, conoscendo a memoria la poesia Un ottico dell’Antologia di Spoon River. Si tratta di una comune perdita temporanea della vista che, purtroppo, con enorme rammarico, mi costringerebbe a disertare la lettura condivisa e a ripiegare sul fine settimana triste. Lo so, sarebbero dei giorni terribili, che passerei chiuso con lei in una camera d’albergo con vista sul mare senza sapere cosa fare. Che noia, dio, che noia. Dovrei far ricorso a tutta la mia fantasia, per non tagliarmi le vene, e, ovviamente, porterei con me tutte le precauzioni del caso: le carte napoletane e il gioco dell’oca, per l’esattezza. Passare ore e ore a lanciare i dadi, per arrivare al traguardo e ritrovarsi tra la casella 89 e il rischio di finire sulla casella “torna al punto di partenza” è un dramma che nessuno meriterebbe di vivere. Porterebbe alla disperazione chiunque. Meglio vaccinarsi contro l’amaurosi fugace, dunque, e scongiurare ogni rischio. Purtroppo, non sono riuscito a vaccinarmi in tempo e un paio di weekend con la bisteccona argentina li ho dovuti trascorrere. Vi dirò, non vi perdete niente. Non è gran che, non sa giocare nemmeno a rubamazzo. Ho vinto sempre io. Solo una volta mi sono lasciato intenerire e ho finto di finire sulla casella “salta due turni”, ma solo perché sono un buono. Sono convinto che chiunque altro non avrebbe avuto pietà. Non so perché sia finito a parlare di questo, visto che ero partito dal cibo. Forse perché cibo e gioco dell’oca danno lo stesso piacere? O forse perché sono un dissociato che inizia a parlare di un argomento e finisce col parlare di tutt’altro? Lascio a voi la risposta. Non cado in queste provocazioni che peraltro mi sono fatto da solo. Ho detto che parlerò di cibo, e gioco dell’oca sia! Cioè, e cibo sia.
La mia è una vera e propria malattia. Io con gli ingredienti ci parlo. Li coccolo. Quando vedo il guanciale solo e triste nel frigorifero, mi commuovo. Tutto solo, al freddo. Mi chiedo: “Ma non ce l’ho un cuore? Possibile che sia diventato così arido?”. A quel punto, sento il dovere di trasmettergli tutto il calore che merita. Sui fornelli. I vegani non me ne vogliano, ma c’è della poesia in tutto questo. Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da guanciale e pecorino. Ed è subito amatriciana. Quasimodo approverebbe commosso. Mi sento un poeta. Ermetico come un vasetto di ciauscolo. Sensibile come un finocchio al cazzimperio. Cazzimperio come un finocchio sensibile.
E atletico.
Atletico come un capocollo di suino nero dei nebrodi.
Campione indiscusso di salto in padella. Ci sono voluti anni e anni di faticosi allenamenti, ma alla fine ce l’ho fatta. Il polso della mia mano destra, che prima era dedito esclusivamente a pratiche e movimenti condizionati dai precetti onanistici, si è evoluto. Avrei potuto perdere tranquillamente la vista, ed evitare di ricorrere all’amaurosi, se non fosse subentrata questa passione per la cucina. Tralascerei l’immagine di me associata agli ampi movimenti della mano nella pratica del salto in padella e ai micro movimenti relativi alla pratica onanistica: non ne uscirei vincente e trasmetterei false aspettative alle mie fans. Poi, c’è da dire che gli allenamenti di salto in padella non sono mai esenti da rischi. Prima di raggiungere un livello di dimestichezza simile a quello raggiunto nell’altra attività, peraltro praticata con soddisfazione per circa trent’anni, qualche piccolo inconveniente l’ho avuto. Sono talmente onesto da ammettere che degli incidenti sporadici si verificano tutt’ora, ma si tratta di casi isolati. Qualche goccia d’olio bollente che mi ustiona le mani, sugo sulle camicie, macchie di unto sulle Clarks. Robetta, insomma.
Purtroppo, come in tutto ciò che si fa nella vita, c’è una differenza sostanziale tra l’obbligo e la passione. Cucinare per qualcuno che si ama è passione, è donargli un po’ d’amore, seppur sotto la forma di tonnarelli a cacio e pepe. Quando Daniela entra in casa e, per esempio, sente il profumo di ciambellone appena sfornato, cambia espressione. Si distende. Può esserle accaduta qualsiasi cosa, che so, una lite in ufficio terminata con una scarica di vaffanculi repressi, che non ha potuto spedire a destinazione perché con gli altri mantiene sempre un timido riserbo, ma appena varca la soglia di casa, si riconcilia col mondo. La sequenza è: fetta di ciambellone caldo, baci, letto, amore e lite furiosa. Perché al vaffanculo represso bisogna dare libero sfogo, non si può reprimere, e io sono il suo sfogatoio preferito. Con me il timido riserbo non funziona, siamo come il canestro e il pallone da basket. Col tempo, lei è diventata più precisa: potrei azzardare che è quasi una specie di Michael Jordan dell’insulto. Ormai mi centra anche a occhi chiusi. Anche quando sono innocente e del tutto estraneo ai fatti. Perché una donna trova sempre il motivo per insultare o sminuire il proprio uomo. E se non lo trova, ne inventa uno. Sarebbe capace di rinfacciarmi che a ottobre del ‘68 non ho cambiato la cinghia della tapparella”. Aivoglia a spiegarle che nel ‘68 non ero neanche nei pensieri dei miei genitori e che non ero nato. Aivoglia a spiegarle che, da quando stiamo insieme, ho preso 7 lauree, 4 master, scritto 95 libri, e letti almeno 2000, e inventato le tapparelle che si sollevano con la forza del pensiero. Per lei e per i suoi amici sarò sempre il coglione che nel ‘68 non ha cambiato la cinghia della tapparella. Amen.
E questo discorso quando salterà fuori? In un sabato qualsiasi, dopo l’annuncio del venerdì, annuncio che ormai conosco benissimo: “Amore, domani sera ho invitato a cena i nostri amici”.
Come? Stai dicendo che vuoi frantumarmi gli zebedei, con la storia della tapparella, senza concedermi nemmeno di appellarmi a un attacco di amaurosi tremends? Ho una dignità, io. E so fare l’analisi psicologica delle frasi che mi dici. Punto primo, se esordisci con la parola “amore”, qualsiasi cosa dirai dopo sarà senz’altro un padulo di dimensioni galattiche che viaggia con moto uniformemente accelerato verso le mie terga. Punto secondo, se inviti delle persone a cena e io devo passare una giornata davanti ai fornelli, nonostante l’amaurosi, c’è qualcosa che non funziona. Punto terzo, i nostri amici sono solo amici tuoi. A me stanno sulle palle a livelli stratosferici. Soltanto con la mia ex suocera ho raggiunto livelli simili di disgusto. Ma, si sa, l’uomo innamorato è per definizione cedevole e rincoglionito, e io non faccio eccezione. Quindi, di solito, rispondo con altrettanta tenerezza “Certo, amore, passeremo una bella serata”. Che tradotto significa “passerò una serata di merda insieme a qualche mignotta rifatta e a dei superuomini che non devono chiedere mai”. Anche perché, con quei prepuzi che si ritrovano al posto della testa, non saprebbero cosa chiedere e quali domande fare. In compenso, hanno le soluzioni per qualsiasi problema, purché il problema non riguardi loro. Ma su questo punto mi soffermerò tra poco, quando vi parlerò dell’alternativa alla cena fatta in casa. Quella più terrificante. Quella che, nella maggior parte dei casi, mi obbliga a soggiornare lunghe ore sulla tazza del cesso fin quando le mie chiappe non si siano fuse con la tavoletta. Sì, sto parlando del ristorante “in”, quello che conosce l’amico figo che sa vivere. Al contrario di me che non so vivere e sono ancora attaccato alle fettuccine fatte in casa da mia nonna, quelle alla nazzicaculo, per intenderci. Quelle col ragù fatto pippiare 7 ore sui fornelli, in cui affondare mezzo filone sciapo di Terni. Quelle che lasciano nel piatto un irresistibile richiamo alla scarpetta. I sentimentalismi non pagano, questo è evidente. Invece, quei posti del cazzo in cui si mangia bene, si spende poco e si può conversare per ore di argomenti interessantissimi fin quando i testicoli non chiedono asilo politico ai polmoni, quelli sì. Quelli sono da uomini di mondo. Funziona così, lei rientra in case e…
– Amore?…
Eccolo. Sento il sibilo.
Colpito!
Ahi!, donna furba di dolore ostello,
che hai disprezzo imman per le mie terga,
dispensi più paduli di un bordello
Quando uno ha l’anima candida e poetica come me, non c’è nulla da fare. Sento odore di Nobel…
Sentiamo, cosa devo aspettarmi, dopo questo incipit vaselinato?
– Stasera ti porto a cena in un posto bellissimo. Andiamo insieme a Piero, Franca, Carlo…
– Davvero? Fantastico… di che posto si tratta?
Fantastico un cazzo. Voglio starmene a casa a sfondarmi di fettuccine e vino dei castelli.
Un posticino che conosce Piero. Dice che si mangia un sushi da dio e si spende pochissimo… lo sai, lui per queste cose è un fenomeno.
Come no. Un vero fenomeno. Ha un talento per sparare minchiate colossali, oltre alla sfacciata intenzione di portarti a letto, usando quei mezzi da Casanova fallito che funzionano bene su quelle bagasce delle tue amiche. Mi chiedo chi sei diventata, Dani. Non ti riconosco più. Non mi piaci più. Siamo lontanissimi. Te ne sei accorta? No, secondo me no. Non ti sei accorta che ci siamo persi. Ha ancora senso stare insieme? Ti ricordi chi sono e perché ci siamo scelti? Ricordi i tuoi slanci d’amore, i tuoi gesti altruisti? Ricordi il mondo che avevamo costruito? Camminiamo sulle macerie, facendo finta di niente. Passando dagli impegni di lavoro alle cene di merda insieme ad amici che amici non sono. Rimpiango i primi tempi, quando vivevamo in simbiosi. Quando il tempo aveva senso solo se stavamo insieme, anche solo a guardare il soffitto. Quando ti addormentavi tra le mie braccia e dicevi “ho tutto, sto bene così, non mi serve altro”. Adesso cos’hai? Adesso cosa ho? Niente. Mi manca tutto. Un’altra volta. Anzi manca tutto e faccio finta di niente.
– “Maddai”… è una bella idea. Se non ti dispiace, invito anche Alberto e Cristiana. Sono mesi che non facciamo qualcosa insieme…
– Sei sicuro? Non mi sembra una buona idea… Cristiana è veramente pesante e volgare. Temo che mi faccia fare una brutta figura…
C’è un momento preciso, in ogni coppia, in cui bisognerebbe parlare senza freni inibitori. Dire tutta la verità, fregandosene delle conseguenze. E’ un momento di confine, e si percepisce chiaramente. Sai benissimo che se parli la storia finisce e se non parli continuerai a strascinarla per un po’, con la stessa agonia. E’ questione di attimi. Un secondo, per prendere una decisione. Un secondo per decidere se ferire o non ferire, se restare o andarsene, se dare ancora una possibilità o non darla più, se essere te stesso o far finta di essere qualcun altro. Capite bene che si tratta di una responsabilità enorme. Una volta, quando ancora ci amavamo, è accaduto. Ho mostrato il mio disagio, il mio dolore e la mia sofferenza: ero io ed è stato drammatico. Danni incalcolabili. Ne siamo usciti in fin di vita. Perché il problema non era solo nelle mie parole, ma anche nei miei silenzi e nelle fragilità che ho rotto. Troppo rischioso, mandare in frantumi qualcuno che si ama. Ma adesso posso permettermelo. Ci vogliamo bene, non ci amiamo più, e siamo alla distanza giusta per non ferirci. Ci penso un momento. Prendo fiato. Rifletto ancora. Sto per dire “È finita, non ti amo più”, ma le parole si fermano. Sembrano incastrate nella gola come spine di pesce. Conficcate nella trachea. Dico la prima cosa che mi passa per la testa.
– Ho voglia di vedere i miei amici, Dani. Della figura che “potrebbe” farti fare Cristiana non me ne può fregare di meno. D’altronde, anche Piero, con quelle sue uscite da psicodemente, non fa una bella figura ai miei occhi. Preferisco la volgarità di Cristiana, che almeno è sincera.
– Come fai a difenderla, non lo so. Ti ha creato solo problemi, in agenzia. Stavate per chiudere i battenti, a causa del suo modo di essere. E non dire di no… troieggiava con chiunque. Non la sopportavi… non capisco come hai fatto a cambiare idea.
– Sì, è vero, ha creato qualche problema. Ma ho imparato a conoscerla. Ha cercato di migliorarsi e ho capito che troieggia molto meno di quello che sembra. In ogni caso, molto meno di quelle baldracche delle tue amiche!
Ecco là, mi è scappato…
– Non ti permetto di rivolgerti a loro con questi toni. Ognuna ha una storia che tu non conosci: non puoi esprimere giudizi.
– Esattamente come non puoi farlo tu con Cristiana.
Discorso chiuso.
Muro contro muro.
In auto, silenzi, musi lunghi e anime annoiate. Distanza. Sembriamo come quei luoghi che qualche anno prima sembrano fantastici e dopo qualche anno li trovi completamente cambiati. Rivedi le foto e ti chiedi “com’è possibile?”. Prima c’era un campo di papaveri e margherite e adesso c’è il deserto.
Cazzo, mi sono intristito per voi al pensiero che in questo momento starete ricordando qualcosa di bello che non c’è più. Non ho inventato nulla, sia chiaro. Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, diceva Francesca, per mano del sommo poeta.
Vabbè, parcheggio davanti al ristorante tra la BMW di Piero e la Porsche di Fabio, un altro superuomo dell’alta finanza, sempre abbronzato e col sorriso lupigno. Ho qualche perplessità… non vorrei che quei due cessi a pedali facessero sfigurare la mia Panda Hobby 1.100 Fire. Specifico “1.100 Fire” perché la mia non è quella col motore tradizionale ad aste e bilancieri. Altrimenti avreste ragione a non considerarla al pari della BMW e della Porsche. Ho anche il portapacchi sul tetto, se proprio vogliamo essere precisi. Optional di altissimo livello, che i fighetti non sanno nemmeno a cosa possa servire. Possibile che non abbiano mai avuto l’esigenza di trasportare, che so, un divano letto o un materasso a molle indipendenti, sfoderabile, che al minimo accenno di moto si impenna come il ciuffo di Little Tony? Io prevedo tutto, cari miei. E quando devo acquistare un’auto guardo agli aspetti pratici.
A dire la verità, sono un po’ preoccupato per la serata. Daniela non ha tutti i torti: Cristiana è una mina vagante. È anche vero che non la sopportavo… e parlo al passato perché le persone cambiano e lei negli ultimi anni si è comportata lealmente in diverse occasioni. L’ho apprezzato e si è guadagnata la mia fiducia, al punto da diventare una buona amica. È una donna ruvida e schietta, non c’è che dire. A volte se ne esce con delle espressioni gergali da carrettiere che, per quanto possano essere volgari, descrivono benissimo le situazioni, ma mi mettono terribilmente in imbarazzo. Per questo, ho cercato di metterla in guardia, cercando di contenere la sua esuberanza con un ammonimento imperativo:
– Cristiana, mi raccomando, sii sobria…
– In che senso?
– Nel senso che ti troverai in mezzo a un gruppo di stronzi che non sono capaci nemmeno di stare a galla e Daniela non vuole fare brutta figura.
Mentre sono perso tra i miei pensieri, Alberto arriva con la sua Audi cabrio. Eccone un altro, penso. Valutate voi, tra tutta questa gente, chi è inadeguato: io o loro? La maggioranza vince, ma si contende premi di merda. Vogliamo competere veramente? Facciamo una gara di trasporto materassi e vediamo chi vince. Ecco là, parli di materassi e spunta Cristiana, vestita come un carretto siciliano e truccata come il cantante dei Cure, che mi tramortisce con un profumo agli olii essenziali di mango e caciocavallo. Meno male che le avevo chiesto di essere sobria. Avrei dovuto dirle “sii zoccola” e si sarebbe presentata sicuramente in tailleur e con un filo di trucco. Ha una personalissima visione della zoccolagine e non ha tutti i torti…
– E me cojoni…
Esclama, guardandosi intorno.
– Prego?
Risponde Daniela, fingendo di non aver capito. Io, invece, conoscendo Cristiana e interpretando bene l’intonazione data alla sua esclamazione di giubilo, ho capito tutto.
Il significato è chiaro:
E. Bel posto, non c’è che dire…
Me. Spenderemo una cifra spropositata per mangiare poco e male.
Cojoni… Mi annoierò talmente tanto che ringrazio dio di essere donna perché se avessi le palle resterebbero incollate alla sedia.
Che poi è quello che ho pensato anch’io. Solo che, essendo uomo, e avendo le palle, l’incollaggio istantaneo lo rischio realmente. Se fossimo andati da Peppe er matriciano, mi sarei sentito più a mio agio. Tovaglie di carta, boccali di birra e soffritto di sugna. Ah, quella sarebbe vita. Invece no. Entriamo in una sala elegantissima appestata di cristalli di Murano, sedie di Murano, camerieri di Murano, pane di Murano, pesce di Murano e facce da cazzo dei Parioli, che cercano di far finta di essere di Murano.
La tavolata è al completo: mancavamo solo noi. Presentazioni, convenevoli, parole di circostanza, e ovviamente, gli occhi sono tutti puntati su Cristiana. Risatine, segni di disgusto, apprezzamenti pesanti. Viene servito un prosecco accompagnato da alcune tartine, le distanze si riducono e iniziano le operazioni di incollaggio: discorsi inutili, su temi inutili fatti da persone inutili.
– Uè, Luchino, quando lo cambiamo quel catorcetto di macchina? Se vuoi, ti vendo la mia,,, io ho ordinato il nuovo modello.
Luchino ‘sto cazzo, penso. Chiama Luchino quella bagascia della tua compagna, se hai le palle. La mia Panda si inchiappetta il tuo Suv di merda quando vuole, ho il motore Fire, io. Con dieci euro di benzina faccio Roma- Magliano Sabina andata e ritorno. Ma non ti do la soddisfazione di proporti uno scambio, sono un signore e rispondo con più eleganza.
– Mi piacerebbe, Fabio, mi piacerebbe sul serio, ma la tua non auto non ha il portabagagli e io ne ho un bisogno vitale: trasporto spesso materassi sfoderabili a molle indipendenti.
– Materassi…?
– Lascia perdere, Fabio. Stasera Luca ha bevuto troppo prosecco… Spero che riesca ad arrivare lucido al dolce…
È incredibile come sia cambiato tutto. Qualche anno fa, la disputa Panda – SUV era con Alberto e Cristiana. Ricordate la vacanza sulla neve? Ricordate l’ultimo addio allo sportello? Ok, non ricordate un cazzo. Vabbè, facciamo finta che abbiate detto sì. In quell’occasione, ebbi modo di argomentare le distanze che si erano create tra noi: davamo un valore ai soldi troppo diverso. Adesso mi ritrovo a dover stringere alleanze con Cristiana, per poter sopravvivere alla serata. Purtroppo, però, non si possono mai prevedere le direzioni che prenderanno le conversazioni: da semplici questioni automobilfalliche si può passare tranquillamente alle coltellate, senza accorgersene. Per esempio, basta dire:
– Maddai, la Panda è una macchina da poveracci. Bisogna anche darsi un tono… Nemmeno gli zingari la usano più… L’abito fa il monaco, Luchino… capisci il mio ragionamento?
Ragionamento? Cioè, fammi capire, pensi veramente di aver sviluppato un ragionamento? Sicuro che non si tratti di un pensiero che potrebbe fare anche l’unghia incarnita di un galletto amburghese? Fattelo venire qualche dubbio, ogni tanto. Ti sei mai chiesto, per esempio, cosa accadrebbe se al posto del cervello avessi un casatiello? Te lo dico io: non accadrebbe niente. Produrresti gli stessi pensieri ad minchiam of levrier, cioè a cazzo di cane. Stai calmo, Luca, stai calmo. Conta fino a dieci, anzi, risolvi a mente la radice quadrata di settemilioniquatteocentocinquantottomilaventisette. Poi, ripeti un paio di canti a caso della divina commedia e ripassa a memoria la dimostrazione delle successioni di Cauchy. Infine, di’ una preghiera propiziatoria al creatore di tutti gli uomini, Galileo Galilei. Soltanto lui può fornirti un sistema inerziale da cui far partire un vaffanculo, che arrivi al destinatario con moto rettilineo uniforme e velocità costante. Mi ripropongo di farlo, ma vengo inaspettatamente interrotto. No, Cristiana non ha preso il vaffanculo al balzo per rispondere al posto mio. Men che mai l’ha fatto Daniela, che avrebbe dovuto mostrare un po’ di gratitudine per quella povera auto, l’unica ci ha regalato momenti di felicità irripetibili e non ha mai perso un colpo. Come il sottoscritto, aggiungo io. Su, Daniela, di’ qualcosa, su, non è difficile. Ti ricordi quella volta in cui ci scappava di fare l’amore e ci siamo fermati nel primo parcheggio che abbiamo trovato? Ti ricordi quanto eravamo felici? Faceva un caldo della Madonna, eravamo sudati, stretti come la testata e il monoblocco del motore fire, ci muovevamo pianissimo e tu eri bella come il sole di luglio. Indossavi un vestito nero e avevi negli occhi una luce che avrebbe fatto sfigurare persino i led della spia della riserva. Stavamo là, in un posto desolato, tra i rifiuti e la puzza degli scarichi, davanti a un fabbricato abbandonato, con le auto che ci passavano vicino e la paura di essere beccati da un momento all’altro. Eppure, nonostante tutto, il paradiso era in quella Panda, in uno spiazzo accanto all’autostrada Roma-Fiumicino. Via Riccardo Morandi, per l’esattezza. Il fratello di Gianni, quello conosciuto più per le opere di ingegneria e meno per la passione segreta per le canzoni. Gianni cantava “c’è un grande prato verde”, ricordate? E l’avevamo cercato, quel giorno, il prato verde in cui imboscarci… cioè, impratarci… ma niente. Abbiamo girato tutta la campagna intorno all’aeroporto, come cani da tartufo. Delusione. Il grande prato verde non esiste. Se esiste, o ci sono i cani pastore, o ci sono le case dei contadini o è pieno di rovi che ti bucano il culo appena ti siedi. Il bastardo di Monghidoro ha mentito. Ma per fortuna suo fratello Riccardo ha pensato anche a quelli come noi, quelli che, in un pomeriggio afoso d’estate, vogliono amarsi e non hanno tempo per tornare a casa. Non c’è il prato verde? Pazienza. “C’è un gran parcheggio grigio”, brano meno celebre ma sicuramente più realistico, dal momento che il parcheggio esiste e porta il nome del suo autore. Che coppia, Riccardo e Gianni Morandi. Il primo costruiva autostrade e il secondo scriveva canzoni per fare pubblicità alle opere del fratello, al suono di “Andavo a 100 all’ora…”. Insomma, in quel parcheggio deserto ci siamo amati, tra i tuoi sììììì e i miei silenzi. Bocche incollate e sudore. Ea talmente bello vedere il piacere disegnato sul tuo viso, che non riuscivo a dire niente, cercavo solo di trattenere quel momento più a lungo possibile. Perché sapevo che saremmo diventati diversi da quelli là e volevo avere qualcosa da ricordare quando sarebbe accaduto. In una sera qualsiasi, a cena con degli estranei, che di quella Panda non ne sanno un cazzo.
Ho tirato fuori questo momento poetico e felice della mia vita per due ragioni. La prima è per dimostrare scientificamente, qualora ce ne fosse bisogno, cosa di cui dubito, che non sono un coglione, almeno non interamente. So riconoscere la bellezza anch’io, cosa credete? La seconda è per dimostrare scientificamente, qualora ce ne fosse bisogno, cosa di cui dubito, che sono un coglione intero e non il mezzo coglione delle righe precedenti. Invece di attaccare quel deficiente alla giugulare come un mastino napoletano, cosa che avrei fatto senza problemi, se solo mi fossi trovato nelle condizioni per farlo, me ne esco con la frase che fa imbestialire Daniela perché è il mio modo per perculare un interlocutore che mi parli di cose di cui non me ne frega una cippa.
– Certo, certo. È chiaro…
Frase che può assumere forme diverse, ma egualmente efficaci. Basta mescolare l’ordine degli addendi e il risultato non cambia.
Certo, è chiaro è chiaro.
Certo, è chiaro, certo.
È chiaro, certo, è chiaro.
La duplicazione di “certo” ed “è chiaro” è essenziale per rafforzare il concetto. È come dire “Certo, non me ne frega un cazzo, un cazzo!” oppure “È chiaro, sei un coglione, un coglione!”. Duplica l’offesa e il disinteresse. Potreste obiettare che nella forma “certo, coglione, certo” o “è chiaro, non me ne frega un cazzo, è chiaro” la duplicazione dell’offesa non c’è. È vero, potrebbe sembrare così, ma la soddisfazione di dare apertamente del coglione a qualcuno fingendo di assecondarlo non ha prezzo. Sotto un innocuo e gratificane “è chiaro” si nasconde un coglione, dietro a “certo” si nasconde “fottiti!, tu i tuoi ragionamenti da minchione”. Se state pensando che uso le metafore meglio di Raymond Chandler, siete autorizzati a farlo. Vi autorizzo anche a usare le suddette metafore per scopi personali e non commerciali.
Insomma, questa storia del “Certo, certo. È chiaro” è uno dei tanti linguaggi in codice che Daniela conosce bene. Mi guarda compassionevole e distante, nemmeno incazzata, come per sottolineare la mia incapacità di mostrare le palle e scatenare una rissa. Una volta mi avrebbe guardato innamorata, pensando “sei un cazzo di genio”. Pensate che io sia un vigliacco? Scusate se mi permetto, ma, come al solito, non avete capito un cazzo. Mentre quel testicolo striminzito parlava di auto e 4×4, io sono stato attaccato violentemente da una nemica subdola che combatto da anni. No, non mi riferisco a Daniela, e nemmeno alla mia ex moglie. Mi riferisco a quella bagascia infame, che si palesa nei momenti meno opportuni. Di solito esordisce con delicatezza, mostrandosi quasi distaccata e accondiscendente. Mi dà una specie di sensazione di freddo in pancia anche se fuori ci sono 40 gradi e ho appena bevuto tè bollente. Conosco benissimo il significato di quella sensazione, ma ogni volta faccio finta di niente e cerco di ignorarla. Faccio il vago. Dissimulo. Dico “sarà lei o non sarà lei?”. Nella mia mente intono qualche canzone per distrarmi, brani tipo “Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più? E come stai? Domanda inutile, stai come me e mi scappa…”. Oppure, “No non può essere leeeeeei… “. Insomma, c’è una canzone per tutte le situazioni della vita e in questo caso Battisti ci prende alla grande. Minuti sprecati per far credere all’ascoltatore che Non è Francesca e alla fine è proprio Francesca. La stessa situazione in cui mi sono trovato io: minuti sprecati per autoconvincermi che non fosse “costipazione ultraliquida improvvisa” e alla fine non solo era quella, si era trasformata nella più celebre delle sue sfumature, quella che più elegantemente viene chiamata cacarella e a cui vengono associate spesso altre parole delicate ed eloquenti tipo fischio, asfissia, braghe, aritrmia, sudarella.
Capirete bene che mentre quel coglione parlava di auto io ero troppo impegnato in altri ragionamenti e non potevo argomentare qualcosa di conflittuale. Avevo un conflitto interno da risolvere. Prove di indifferenza. Ma, si sa, l’indifferenza è il peggior disprezzo, e alla cacarella non piace essere ignorata. Cioè, tu puoi anche ignorarla, ma lei non ignorerà mai te. Strano modo di dimostrarti il suo affetto e la sua amicizia.
Mentre penso “no, non può essere leeeei”, sento nello stomaco il classico rimescolio, che dura qualche secondo, e alla fine la sciabolata. Quel dolore che ti squarcia lo stomaco. La stessa sensazione che avrebbe un’orata se solo potesse dire cosa prova quando la squartano in due per toglierle le interiora. Ecco, in questo caso l’orata sono io e la sciabolata mi toglie il fiato, strappandomi anche le branchie. Respiro a stento. Non so cosa fare. Avrei voglia di scappare e invece questi coglioni continuano a parlare di puttanata galattiche. Quando il nemico attacca bisogna studiare le contromosse, ma in questa guerra c’è solo un vincitore e quel vincitore non sono io: è la tazza del cesso su cui posare nel più breve tempo possibile le mie chiappe traditrici. Che faccio? Provo a resistere e arrivare alla fine della cena? Ci provo? Ok, l’avete voluto voi. Ma per resistere devo pur occupare il tempo. E lo faccio come mi riesce meglio, impiegandolo in due cose assolutamente inutili. Visto che non ricordavate le vacanze sulla neve, sicuramente non ricorderete nemmeno il mio sorriso da fontana luminosa, quello che sfoggiai quando un tabaccaio con la testa da prepuzio mi vendette un generatore di palle di fuoco incendiarie al posto di una fontana luminosa da mettere sulla torta di compleanno di Alberto. Insomma, parlo di quella volta in cui il mio regalo gli incendiò la casa, creò il caos, e io, mentre i lapilli incandescenti mi bucavano il cranio, continuavo a rassicurare gli ospiti con il mio sorriso forzato, ribattezzato “sorriso da fontana luminosa”. Situazione diversa, ma stessa impostazione. Dentro muoio, ma ai commensali sfoggio il mio sorriso da fontana luminosa. La prima cosa inutile è andata. Inutile perché alla gente del tuo dolore non gliene frega mai niente. Puoi soffrire ridendo o soffrire piangendo: gli altri non riusciranno mai a comprendere fino in fondo quello che senti realmente. Quindi, col mio bel sorriso da fontana luminosa stampato in faccia, che non permette nessuna considerazione sui miei dolori, passo alla seconda cosa inutile. Mi chiedo “Cosa mi avrà fatto male?”. Lo vedi che sei un deficiente, Luca? Ti stai torcendo dai dolori e pensi sia più importante risalire alla causa del malessere che trovare un cesso disposto a essere umiliato dalle tue terga? È importante sapere se è colpa delle tartine o del panino con cozze, melanzane, peperoni, fettina panata e caciocavallo che hai mangiato a pranzo? No, non è importante, solo che questo pensiero si palesa in ogni essere umano, in quel minuto di pausa in cui sembra che sia tutto un falso allarme. Il sudore freddo si attenua, il senso di sgomento passa e si intravede una possibilità di salvezza. Di solito, quella sensazione dura poco, un paio di minuti al massimo. Poi, arriva il colpo di scimitarra, che riporta tutto alla realtà. Non è un falso allarme, hai bisogno di un cesso. Subito.
Cosa fai, quindi?
Ti alzi, mantenendo il suddetto sorriso, e ti dirigi verso la toilette.
Mi scappa di lavarmi le mani, dici ai commensali, facendo ricorso all’ultimo briciolo di ironia che hai in corpo. Cammini, in travaglio, verso il bagno e trovi la sorpresa.
Guasto.
Nemmeno occupato, guasto. Rotto. Fuori uso.
Guastooooo?
Cosa cazzo state dicendo?
Volete farmi credere che in questo posto di merda, dove il coperto costa dieci euro a persona, non c’è un bagno funzionante? Giuro che, appena esco da questo incubo, scrivo una recensione negativa che farà passare la voglia a tutti i colitici del pianeta di venire a mangiare qua.
Ho capito, può salvarmi solo lei.
Panda.
1100 Hobby.
Con motore Fire.
Lei da sola non basta, però, mi serve anche quell’insalatiera di cristallo piena di frutta che ho visto all’ingresso. In meno di mezzo secondo, e in queste situazioni gli attimi possono essere fatali, elaboro il mio piano diabolico.
– Mi sa che ho dimenticato il cellulare in macchina. Vado a recuperarlo… aspetto un messaggio di un cliente importantissimo.
– Vacci dopo, Luchino, abbiamo ordinato la grigliata di pesce.
– Fabio… Fatti. I cazzi. Tuoi.
Temo di averlo detto con il tono e lo sguardo della bambina dell’Esorcista, perché quel demente replica mestamente.
– Ok, Luchino, ma stai calmo… Era solo per dirti che tra poco arriva la grigliata di pesce.
Sai dove puoi mettertela la grigliata di pesce? Vuoi che ti faccia un disegno o lo intuisci da solo? Con la spigola non dovresti avere problemi, semmai potresti avere delle incertezze con le rotelle di calamari… Potrei stupirti, se ti dicessi gli usi che puoi farne. Per fortuna, all’ingresso non c’è nessuno, posso agire indisturbato. Non mi pongo nemmeno il problema della pena relativa al furto con destrezza di un’insalatiera. Un anno? No, vostro onore, la frutta l’ho lasciata dov’era. Va bene, allora facciamo tre mesi e dieci cene forzate con gli amici di Daniela. Ok, come non detto, vada per l’annetto di vacanza a Regina Coeli. Esco dal ristorante come Furia cavallo del west e galoppo verso la Panda, ma a metà strada sento contemporaneamente l’ultima doglia e la voce di Piero che dice “Luchino, sbrigati, la grigliata è in tavola”. Ancora Luchino… Luchino ‘sto cazzo, ripenso un’altra volta. Lo so, sono monotono, ma non sopporto di essere chiamato così. Se ti avvicini alla Panda, giuro che ti spacco il parabrezza a testate. Con la tua, di testa. Apro lo sportello e in meno di due minuti quella che sembrava una tragedia annunciata si trasforma in un momento di enorme gratificazione. Giubilo. Sento gli angeli cantare Alleluia.
Ah! Come sto bene.
Mi sento un uomo nuovo.
Rigenerato.
Fischietto come un fringuellino. Fiù fiù fiù.
Finestrini aperti, cicale e l’odore della notte.
Cioè, non solo della notte, ma questo non conta ai fini del racconto.
Aria, aria fresca.
Panda.
1100 Hobby.
Motore Fire.
Amore.
Fedele compagna.
Solo tu mi conosci veramente.
Solo a te ho mostrato i miei lati nascosti.
Solo tu mi togli dagli impicci come nessun’altra.
Per un attimo, valuto attentamente cosa fare dell’insalatiera, promossa in un millisecondo a un ruolo ben più importante e impegnativo di quello che aveva sul bancone. Ho diverse possibilità: rimetterla al suo posto?, depositarla sul cofano della BMW di Piero?, creare un’edicola votiva in un angolo di casa?, trasformarla in un pratico portachiavi da usare alla bisogna? Alla fine, però, prendo una decisione drastica e dolorosa: l’abbandono lungo la strada senza guinzaglio. Mi vergogno troppo di essere umano. Qualche anima buona si prenderà cura di lei.
Rientro nel ristorante, con l’aria trionfante, simulando il passo sicuro di un garibaldino. Mi è venuta quasi fame, a dire il vero.
– Ce l’hai fatta? L’hai fabbricato questo cellulare?
– Fabio, vai a farti fottere tu e la tua Porsche. Col cazzo che la cambio la mia Panda!