Non starò a spiegarvi il motivo per il quale mi ritrovo immobile, da venti giorni, in questo letto di ospedale: può capitare a chiunque di avere un piccolo incidente in bicicletta. È meno probabile che l’incidente accada a un ciclista incauto, distratto dalle chiappe tondeggianti di una passante. È ancor più improbabile che la distrazione dovuta alle suddette chiappe abbia come conseguenza immediata un urto anelastico contro un palo della luce, con conseguente volo da libellula e atterraggio a pelle di leone sull’asfalto. Di culo, con frattura scomposta del bacino, dei due acetaboli e di quello che una volta veniva chiamato osso sacro. Dico “una volta”, perché, dopo essermelo, fratturato ho tirato giù talmente tante bestemmie da farlo diventare un osso profano e profanato. Non ricordo bene la dinamica dell’incidente, ricordo soltanto che in un attimo sono passato dalla visione del paradiso alle tenebre dell’inferno. Insomma, mi hanno trasportato d’urgenza all’ospedale e mi hanno proibito di fare qualsiasi movimento. Proibizione superflua, dal momento che a farmi restare immobile ha pensato fin da subito il dolore, quel bel dolore acuto che si è impossessato di me per farmi assumere, a ogni micro movimento, le sembianze della bambina dell’esorcista, al solo scopo di darmi la possibilità di sperimentare tutte le possibili tonalità armoniche raggiungibili dalla mia voce attraverso grida, imprecazioni e bestemmie in macedone antico. A parte questo piccolo disagio, dopo le prime settimane in cui la Madonna e i santi si sono palesati sulle pareti bianche del reparto “cazzoni infasciati” dell’ospedale Madre Santissima Illuminata dei Guardachiappe incalliti, la degenza è piacevole. Sono accudito da infermiere bellissime, che provvedono anche a pulire e rinfrescare accuratamente le mie parti intime: pratica che sarebbe piacevolissima, se le suddette parti non si fossero finte morte e non dessero l’impressione di essersi trasformate in un ammasso di ciccia esanime. Cosa dire, poi, dei pasti faraonici che vengono serviti a pranzo e a cena? Minestrine a volontà, petti di pollo cotti a vapore, rigorosamente senza olio e sale, insalata scondita e mela cotta. Il massimo della goduria capita quando, al posto della mela, a qualche paziente tocca la pera: in quel caso, scatta la caccia a chi nasconde le stecche di cioccolata negli armadietti. Trattandosi di un reparto ortopedico, chi riesce ad avere un minimo di mobilità viene considerato prezioso come il centravanti della Juventus: in pochi possono permettersi di andare in giro per le stanze a rubare negli armadietti le scorte alimentari che i parenti introducono incautamente, senza sapere a cosa può arrivare un povero Cristo ricoverato in regime alimentare carcerario. Un pezzo di cioccolata può arrivare a costare anche 80 fialette di antidolorifico… E ovviamente c’è chi ne approfitta e mette in piedi un vero e proprio traffico illecito.
– Quanto stanno i Ferrero Rocher, oggi?
– Dipende se stai in colica o no…
A parte questi piccoli disagi, la vera ricchezza dei ricoveri in ospedale è la varietà umana con cui si deve convivere, forzatamente, condividendo storie di vita, speranze e sofferenze. Benedetto Crocifisso è stato il mio compagno di stanza per parecchio tempo, nella clinica di lunga degenza in cui sono stato lasciato marcire in attesa della terapia riabilitativa. Avete capito bene: il nome è tutto un programma, oltra a essere la sintesi della sua vita. La ricchezza del suo curriculum e del suo lessico si è palesata subito, al momento delle presentazioni.
– Sò ‘n pregiudicato e me stanno tutti sur cazzo.
Sento odor di intellettuale, ho pensato istantaneamente. E in effetti tutti i torti non li avevo. Sarà che nella vita non ho nessuna certezza, ma ogni volta che mi confronto con mondi e punti di vista diversi dai miei finisce che entro in crisi d’identità fino a non avere più un mio punto di vista. Ma iniziamo dal motivo per cui l’insigne Crocifisso, uno dei pochi falsi invalidi ad aver trasformato le dichiarazioni false e mendaci rese all’INPS in verità, è finito nel letto accanto al mio. Un banale problema all’anca, che doveva essere trattato da un chirurgo di fama internazionale accalappiato non so come, si è trasformato in un dramma. I chirurghi di fama internazionale, si sa, sono noti per la generosità con cui esercitano la propria professione nelle cliniche private. Quindi, quando il professor Borrelli ha appreso che il dottor Crocifisso era un poveraccio, ha ceduto alle lusinghe di una giovane praticante del suo staff. Così, oltre alla pratica sessuale, praticata peraltro con scrupolo e precisione, la giovinastra ha giocato, senza scrupolo e men che meno precisione, all’allegro chirurgo con quel disgraziato di Benedetto. Il risultato è stato eccellente: infezione diffusa a entrambe le gambe e rischio di amputazione.
– Je devo rompe er culo a quer fijo de ‘na mignotta!
Pur non essendo pratico di metafore, ho capito che questa storia il Crocifisso non l’ha presa bene. Passava giornate intere a costruire la vendetta che avrebbe consumato appena ne avrebbe avuto la possibilità. Si sentiva una specie di Conte di Montecristo, ma estremamente più figo, in continua lotta contro i soprusi e le ingiustizie che secondo lui aveva subito nella vita. Il problema è che, anca a parte, aveva una visione molto discutibile del concetto di ingiustizia e soprattutto della rivalsa nei confronti degli ingiusti. La sua sete di vendetta è cominciata in tenera età, quando ha maturato una personalissima visione della vita sintetizzata da un’altra perla di saggezza:
– Co ‘a gente se gioca affà ‘ncularella: bisogna èsse bravi a schivà le ‘nculate e a ‘inchiappettasse er prossimo senza pietà.
Ora, a parte la ricchezza lessicale, questa visione non vi sembra molto simile a quel famoso detto “Ama il prossimo tuo come te stesso” citato da Frate Indovino in corrispondenza del 25 giugno, la festa internazionale degli onanisti? Okay, non è proprio uguale uguale, ma il senso è più o meno quello. Certo, a 15 anni, quando era ricchissimo e viveva nell’agiatezza, non la pensava in questo modo. Ma, si sa, le strade che si prendono nel corso della vita sono condizionate non dalla quotidianità ma da pochi accadimenti fondamentali. C’è chi ha culo e becca gli accadimenti giusti che portano verso la scelta delle strade migliori, e chi invece è costretto a fare i conti con gli abissi e le meschinità umane e, invece di incamminarsi per la strada, resta fermo a difendersi e a prendere le contromisure agli uomini e agli eventi. Come ha fatto la famiglia Crocifisso, che, da proprietaria di immobili di ogni tipo e titolare di una catena di prestigiosi negozi di scarpe, è andata a finire in una casa popolare di Cinecittà. Com’è potuto accadere? La risposta è semplice: quando qualcuno pensa di essere il più furbo di tutti, sottovaluta gli avversari e va a finire che prima o poi incontra un altro più furbo che se lo “‘nchiappetta senza pietà”… tanto per usare citazioni dotte. Insomma, il padre di Benedetto aveva accumulato una fortuna, evadendo le tasse per anni e investendo in immobili. Tutto è filato liscio fin quando la finanza non gli ha messo gli occhi addosso.
– Cor cazzo che je pago le tasse! Li sordi so mia e ce faccio quello che me pare.
Disse una sera, a cena, insegnando al figlio, con poche parole, il senso civico e il rispetto per il prossimo. Così, in quattro e quattr’otto, mise in vendita tutti gli immobili e accantonò un cifretta niente male, che trasferì abilmente in una banca Svizzera. Avrebbe potuto tranquillamente accontentarsi della rendita del conto bancario e vivere sereno, ma perché accontentarsi quando si può avere di più? E il dipiù gli venne offerto dall’avvocato che lo aveva guidato nel trasferimento illecito di denaro: investimenti in affari loschi che avrebbero garantito una rendita del 20%. Il furbo coglione, quindi, delegò all’avvocato la gestione del patrimonio, che venne investito nell’acquisto di un villaggio turistico in Africa. Intestato all’avvocato, ovviamente, che scappò col malloppo da un giorno all’altro, senza lasciargli nemmeno la paghetta per comprare un pacchetto di figurine Panini, nel quale, per come si erano messe le cose, avrebbe trovato sicuramente il doppione di Cuccureddu. Quel permaloso del padre di Benedetto, subodorando il padulo radente che stava abusando delle sue terga, armò un casino e partì per l’Africa per riprendersi tutto. La conversazione tra i due durò pochissimo, anche perché l’avvocato era una bravissima persona che sapeva come trattare il prossimo.
– Per ora ti ho tolto i soldi. Se non te ne vai, ti tolgo anche la vita.
Amen.
Il padre di Benedetto tornò a casa con la coda tra le gambe e la vita che gli restava da spendere nella miseria più completa.
– Hai capito ‘sto pezzo de merda? Cià ‘nculato 10 mijardi…
– Ho capito, ma pure tuo padre, oltre a essere un coglione, mica è stato uno stinco di santo. Ha evaso le tasse ed è stato derubato: la famosa legge del contrappasso…
– No, no, mi padre era un brav’omo: perché avrebbe dovuto pagà ‘e tasse se lo stato non j’ha dato mai gnente in cambio?
– Per far curare gratis quelli che, come te, non hanno soldi, per esempio?
Niente da fare, da queste conversazioni non se ne esce. Benedetto era convintissimo che il padre fosse un benefattore a cui spettava una sorta di giustizia divina. E lui si sentiva il giustiziere prescelto di questa e di altre centinaia di cause come questa. Passava ore a studiare il modo per ottenere il massimo da ogni situazione, facendo il minimo sforzo. Per esempio, il giorno in cui è stato ricoverato, ha chiesto subito un colloquio col nutrizionista, per avere un regime alimentare diverso dagli altri. Un suo amico gli aveva detto che il cibo là era pessimo e lui si è inventato una minchiata sulla necessità di essere nutrito adeguatamente per riprendere le forze e combattere l’infezione. A supporto di questa richiesta, aveva snocciolato diverse teorie supportate da cartelle cliniche e analisi fatte in precedenza. Inutile dire che molte analisi erano false e le aveva rubate agli sventurati compagni di letto che mi avevano preceduto. Fatto sta che la mattina, al posto del tè senza zucchero con due fette biscottate, a lui veniva servita una colazione in stile Montalbano, che divorava avidamente senza offrire nemmeno un cannoletto siciliano. Benedetto era solo, non aveva parenti, ma in compenso usava i miei congiunti come se fossero suoi.
– Ahò, se rivenghi qua nun te presentà senza pizza e mortazza, eh?
Con questa frase, un po’ scherzosa e un po’ minacciosa, accumulava quintalate di pizza bianca e mortadella con cui faceva merende faraoniche a dispetto del mio yogurt magro senza grassi, che mi sorbivo puntualmente e diligentemente senza fiatare. A questo punto, vi starete chiedendo: “Ma questo Cristo come campa?”.
Prima di tutto ha una consistente pensione di invalidità: percepisce da anni una somma di tutto rispetto. Quando dico da anni, significa da molto prima che si manifestasse il problema che lo tiene inchiodato a letto. Era invalido? Assolutamente no, ma conosceva Cesare Scorticoni, un impiegato dell’INPS.
– Segnate ‘sto numero de telefono: 338.54…
– Cosa ci dovrei fare?
– È de ‘n’amico mio, te pò servì… Quello riesce a fa pijà la pensione d’invalidità pure a Gesù Cristo risorto.
– Ma io non voglio la pensione, voglio uscire da qui.
– Co quello che ciai, ‘a pensione la becchi de sicuro. E te danno pure l’accompagno…
Ma vi pare normale? L’invalidità a me… anche se sull’accompagno un pensierino ce lo farei. Dipende dall’accompagnatrice, ovviamente. Io, comunque, il numero di telefono l’ho memorizzato… non è per me, l’ho fatto solo per qualche amico che potrebbe averne bisogno: ‘n se sa mai.
– Che lavoro facevi, prima di ammalarti?
Gli ho chiesto un giorno, ingenuamente.
– Modestamente, nun ho mai lavorato un giorno in vita mia.
Avevate dubbi? Benedetto Crocifisso ha speso la vita per cercare il modo di fare soldi senza lavorare e alla fine ha lavorato più di un minatore vietnamita.
– De finti lavori n’ho fatti tanti, ma quello che m’è riuscito mejio è er capotreno.
– Eh?
– Er finto capotreno…
– Ah, ecco…
– Avevo trovato er modo de stampà li bijetti farsi. Salivo sur treno e quanno beccavo ‘no straniero senza bijetto, je ne mollavo uno falso, a metà prezzo, senza faje pagà ‘a multa…
Si ferma un attimo a fissare il vuoto, come se dovesse tirar fuori chissà quale aforisma, e poi riprende il discorso.
– Sai qual è ‘a cosa importante, se vòi fregà ‘o Stato?‘
– No, non mi sono mai posto il problema…
– Nun èsse mai uno de loro.
– Beh, per fingerti capotreno, dovevi per forza essere come uno di loro.
– ‘A divisa. Er segreto è ‘a divisa.
– Cioè?
– A differenza tra “èsse” uno de loro e “sembrà” uno de loro è ‘a divisa. Se ciai ‘a divisa co sopra scritto “Ferrovie dello Stato” te fanno ‘n culo come lo sterzo de ‘n’autobus. È come se ciavessi ‘n proprietario… Se,come me, ciai un completo de ‘a Navigare, che sembra, ma non è, uguale a quello der capotreno, sei ‘n’omo libero. Uno che indossa ‘na divisa nun è mai libero veramente.
– Ma che minchia dici? Tu vendevi biglietti falsi: si chiama truffa!
– Nun è esatto. Li turisti cor bijetto mio viaggiavano lo stesso, solo a ‘n prezzo più basso. Se chiama giustizia sociale…
– È truffa ai danni dello Stato.
– Perché pagà 18 euro pe annà cor treno all’aeroporto nun è truffa ai danni der cittadino?
Come dargli torto? Chi decide cosa è giusto e cosa non lo è? Forse sarò io troppo influenzabile, ma il suo punto di vista mi è sembrato tremendamente equilibrato e lucido. Io, come la maggioranza degli uomini, sono troppo abituato a rispettare regole e a prendere ordini da uno dei tanti capotreni appartenenti alla famosa piramide del potere, che esegue gli ordini in nome di un regolamento, che è stato scritto da qualcuno che ha ricevuto ordini da un superiore, che a sua volta ha ricevuto ordini da un altro superiore, che ha ricevuto ordini da qualcuno, che a sua volta agisce in nome di dio. Certo. Ecco perché le maggioranze mi stanno sul cazzo, perché, trovandosi dalla parte sbagliata, non possono mai essere lucide e avere ragione. Dove c’è maggioranza c’è fregatura; farne parte significa rendersi volontariamente schiavi.
Certo, si potrebbe obiettare che le Ferrovie dello Stato hanno dei costi da sostenere e il Crocifisso no, ma questo è un dettaglio.
– Comunque, fare il capotreno, vero o falso che sia, è un lavoro.
– No, fà er capotreno vero è ‘n lavoro, fà er capotreno falso è ‘na missione.
Ecco, è esattamente quello che sostenevo prima che intervenisse Benedetto: a me l’appartenenza ha sempre spaventato. I “noi” e i “loro” sono pericolosissimi. Se proprio si deve fare una distinzione, la farei tra quelli che per essere devono appartenere e quelli che riescono a essere senza l’appartenere a qualcuno o a qualcosa.
– Ma chi è che può permettersi di non indossare divise? Tutti ne hanno una: preti, poliziotti, ministri, portieri, impiegati, calciatori, medici… Ognuno ha la sua.
– Appunto! Loro sò schiavi, io no. Quelli come me, che nun cianno ‘a pretesa de fa parte der sistema e de indossà ‘na divisa, sò liberi. E se sarvano sempre. Pensa, ciavevo pure ‘n fischietto, fregato a ‘n bagnino, che usavo quanno invece de stà sur treno restavo alla stazione. Se vedevo ‘un turista incerto, je fischiavo, je chiedevo se ciaveva er bijetto e se nun ce l’aveva je ne rifilavo uno farso. Sai quanti me ne so ‘’nchiappettati, co sto trucchetto?
– E perché hai smesso?
– M’hanno fatto smette. Un giorno m’ha beccato ‘a polizia e m’hanno dato 4 anni de gabbio. Pensa che se ciavevo ‘a divisa vera sarebbero stati almeno 9…
Ecco, giustizia sociale è fatta. Non vi racconto l’esperienza da detenuto del Crocifisso, sarebbe troppo anche per voi…
– Er carcere è ‘n posto come ‘n’artro: ce stanno i boni e i cattivi…
Scusate, ha preso di nuovo la parola e mi tocca lasciarlo finire.
– Per esempio ho conosciuto er capo dei Casamonica.
– Ah, lui è buono?
– ‘Na gran brava persona, ‘n gran signore. Educato, salutava sempre. Oh, se dovessi finì in carcere, ricordate che devi sempre salutà, pe evità guai. Li cattivi se scannano tra de loro, ma se té saluti tutti educatamente te lasciano stà. Saluta e fatte li cazzi tua: questo è er segreto pe sopravvive… pure fori dar carcere.
– Minchia!, che consiglio prezioso: lo terrò presente insieme al finale de Le città invisibili… Certo che, però, quattro anni sono lunghi… come hai fatto a resistere?
– I primi tempi facevo finta de èsse matto. Strilavo in piena notte, davo le capocciate sulla porta fino a spaccamme er cranio, me menavo da solo… pe quarche mese ha funzionato. Er guaio è che dopo un po’ ‘a polizia nun cià più creduto e ‘na vorta m’hanno pistato come l’uva.
– Decisione saggia…
– Pensa che ho tentato pure ‘n finto suicidio.
– Ma va’?
– M’avevano portato in infermeria insieme a ‘n paralitico. Me so legato ‘na corda ar collo, so salito su ‘n banchetto e ho fatto finta de ‘mpiccamme. Però, porca de quella troia, quanno le cose devono annà male nun ce so cazzi: so scivolato sur banchetto e stavo pe morì veramente.
– E come ti sei salvato?
– M’ha sarvato er paralitico. S’è buttato per tera dalla sedia a rotelle e m’ha messo ‘no sgabello sotto li piedi. Solo che ero svenuto… ero diventato tutto viola… Pe fortuna se n’è accorto e ha chiamato l’infermieri.
– Sei vivo per miracolo…
– Me so fatto sei mesi d’infermeria, grazie a quer giochetto. Servito e riverito!
– Capirai, ci stavi per stirare le cuoia.
– Eh, ma quanno m’hanno rimesso in cella ho trovato ‘n’antro trucchetto.
– Cioè?
– Ciavevo ‘na piccola ernia ‘nguinale che m’ero ‘mparato a fa uscì a comando. Me buttavo per tera e cominciavo a strillà come ‘n matto dar dolore. Così me portavano in infermeria e stavo là un par de mesi. Servito e riverito!
– E non se ne sono accorti che ci marciavi?
– Mica ce marciavo, l’ernia ce l’avevo sur serio… Solo che a ‘n certo punto se sò rotti er cazzo e m’hanno operato.
– Che culo!
– Ma, de 4 anni, in cella me ne sarò fatti si e no 2.
– So a cosa state pensando: quest’uomo è un cazzo di genio!
– Beh, almeno ti avranno fatto passare la voglia di truffare il prossimo.
– Manco pe gnente. Eppoi io nun truffo nessuno: faccio affari.
– Sì, affari…
– Quanno esci dar carcere, è come resuscità. Esci dar portone, vedi ‘a luce der sole e te sembra strano. Prova a chiede a chiunque sia stato ar gabbio, te diranno tutti ‘a stessa cosa: “Quanno sò uscito dar portone, ho chiuso l’occhi, er sole m’ha accecato”.
– A occhio non mi sembra una cosa brutta.
– È ‘na sensazione che nun se pò descrive: sembra de vedè er monno pe ‘a prima vorta.
– Vabbè, dopo questa sensazione di rinascita, ti sei messo a lavorare onestamente, giusto?
– No, sò annato a trovà ‘n’amico mio, che ciaveva un negozio de coppe e medajie. E là ciò avuto l’idea geniale.
– La madre di tutte le inculate, suppongo…
– Se uno riesce a conià ‘e medajie, riesce pure a fà ‘e monete da 1 e 2 euro, giusto?
– Giusto!
– E ‘nfatti im poco tempo avemo fatto ‘n sacco de sòrdi. Ciavevamo una marea de clienti. Un euro lo mettevamo 40 centesimi e 2 euro 80 centesimi: me sembra un prezzo onesto.
– Onestissimo. Però…?
– Però l’amico mio ha voluto fà er gargarozzone: ‘a gente usciva dar negozio co le buste piene de monete. Alla fine l’hanno beccato e se lo sò bevuto…
– Ecco.
– Io invece me sò sarvato. Questa come quella vorta che avemo stampato, co ‘n’antro amico mio tipografo, li bijietti da 10, 50, 100 e 500 euro.
– Maddai, come La banda degli onesti…
– Nun te dico che stress: ogni mattina me facevo er giro de li tabaccai pe comprà ‘n pacchetto de sigarette coi 10 euro farsi. Me piavo er resto e le sigarette le rivendevo a metà prezzo: era diventato ‘n lavoro…
– Pensa che stress alzarsi tutte le mattine per spendere soldi. Non lo auguro a nessuno…
– Er contrabbando de sigarette è reato, pe quello me sò stressato. Allo Stato se je tocchi li sordi sò cazzi. Se io ammazzo quarcheduno nun jene frega ‘n cazzo, ma se je metto le mano nelle saccocce me se bevono…
– E “te se sò bevuto”?
– M’ha detto culo. Hanno beccato prima er tipografo, che come ‘n cojone spacciava li 500 euro. Poi hanno beccato quello che spacciava i 100 euro, che ha fatto ‘nculà pure quello che spacciava i 50.
– E tu?
– Quanno l’hanno messi dentro, se so accorti che fino a tre cojoni che se mettono insieme pe fà affari nun è associazione a delinquere. Sopra i 3 cojoni scatta l’associazione e ‘a pena se triplica…
– Ah…
– Quindi hanno fatto finta de nun conosceme. E io me sò sarvato…
– Ma non sei stanco di vivere così, rischiando, sempre sul filo del rasoio? Io non ci riuscirei…
– È quello che dico io: tu nun sei stanco de vive così, come ‘n sordatino, schiavo de tutti? Io nun ce riuscirei: regole, tasse, dichiarazioni dei redditi… Te controllano tutti… È libertà questa, eh? È libertà?
– Almeno così non rischio il carcere…
– Nun rischi er carcere? Ma che cazzo dici? In galera ce stai tutti i giorni, possibile che nun te ne accorgi? Le non regole funzionano mejo delle regole, fidate!
– …
– Comunque, prima de finì inchiodato dentro a ‘sto letto, facevo ‘n lavoro onesto.
– Oh, finalmente! Che tipo di lavoro?
– Er tassista abusivo.
– E te pareva…
– Oh, facevo le cose in regola, che te credi? Annavo a Fiumicino e m’attaccavo ar collo ‘n cartello co sopra scritto: “Costo treno = 18 €, costo biglietto autobus= 1,50 €, Totale, 19,50€. Io con la stessa cifra vi accompagno in albergo.”
– Uh, chissà com’erano contenti i tassisti veri…
– ‘Sti cojoni! Rubano 40 euro a persona… chi è ladro, io o loro?
– Tu! Non paghi le tasse, per forza puoi permetterti di chiedere la metà.
– E loro pensi che le pagano? Ah ah ah…
– Vabbè, e adesso che non puoi muoverti, cosa fai?
– Intanto ciò la pensione d’invalidità… a proposito: hai memorizzato er numero de telefono che t’ho dato?
– Sì, sì…
– Ottimo! ? ‘N se sa mai…
– Ma io faccio il pubblicitario, mica il tassista abusivo. E non ho bisogno di pensioni false.
– Ingenuo. Er vitalizio dei politici nun è ‘na pensione falsa? Se ce n’hanno bisogno loro, ce n’hai bisogno pure te…
– …
– Io ho deciso: me ritiro dall’affari, ho lavorato troppo. Sto a cercà ‘n posto dove riposamme, finarmente. ‘Na casa de riposo de quelle bone. Je lascio la pensione, nun penso più a niente e te saluto.
– Non ci credo: dai un taglio alle fregature?
– Sì, vojo morì così: servito e riverito.