Il Natale serve a ricordare a chi è solo che è solo, a chi non ha niente che non ha niente e a chi ha una famiglia di merda che ha una famiglia di merda. Questa citazione, che a prima vista potrebbe sembrare di Proust o di Neruda, in realtà è attribuita a un anonimo genio del web. Un cazzo di genio, al cui confronto sfigurerei anche io. In un’unica frase è riuscito a concentrare il dono della sintesi, le riflessioni filosofiche profonde sulla solitudine cosmica e attenti studi sociologici e comportamentali. Ma analizziamo meglio il saggio aforisma e cominciamo col dire che non necessariamente quelle tre condizioni sono isolate e indipendenti. C’è chi è solo perché ha una famiglia di merda, chi è povero perché ha una famiglia di merda e chi è solo, povero e ha una famiglia di merda. Escludendo chi è solo, povero e senza famiglia, direi che la “famiglia di merda” è la condizione necessaria e sufficiente per ricordarsi che a Natale è meglio starsene per i cazzi propri invece di prestarsi al rito del cenone, del pranzone e della litigata con cui chiudere in bellezza l’anno appena trascorso. Avete capito bene, mi riferisco proprio a lei, quella litigata che inizia in modo subdolo, con qualche battutina, quando si iniziano a sbucciare i mandarini prima di giocare a tombola, e termina la sera del 25, quando le famiglie decidono di non rivolgersi più la parola fino al prossimo Natale.
Di solito, le cose vanno così. C’è sempre qualcuno che, intorno al 20 dicembre, dimentica la guerra dell’anno precedente, guerra in cui il nonno comunista ha spaccato una bottiglia di vino Cacchione di Nettuno in testa al consuocero fascista, e telefona al parente che gli sta meno sul cazzo. La domanda di rito è: “ Che fate a Natale?”. La risposta è contenuta nell’introduzione di questo racconto, che poi è una rivisitazione moderna dell’incipit del libro Anna Karenina: “Tutte le famiglie sono di merda, ma a Natale lo sono un po’ di più”. Non vorrei sembrare dissacrante, ma è risaputo che il Natale è la festa più ridicola e ipocrita che ci sia. Se Gesù è nato il 25 dicembre, io sono San Giuseppe. Secondo voi, è un caso che i Saturnali, le famose feste religiose romane dedicate al dio saturno, si celebravano dal 17 al 23 dicembre? Secondo me no. Che poi, In quell’occasione, si banchettava, si celebrava l’uguaglianza e la fratellanza, gli schiavi diventavano uomini liberi e ci si scambiavano dei regali proprio come a Natale. Ah, dimenticavo, si facevano anche delle fantastiche orge. Diciamo che, nella sostanza, le due feste sono più o meno uguali, soltanto che il Natale è un po’ meno serio dei Saturnali. Si banchetta e ci si scambiano delle strenne, è vero, ma non si fanno orge e questo, già da solo, sarebbe un buon motivo per cancellare la festa dal calendario. D’altronde, Gesù, se avesse potuto scegliere, sarebbe nato sicuramente il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia e del trionfo della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza tra gli uomini. Invece no, per dare continuità alle feste pagane, si sono inventati questa storia del 25 dicembre, con tanto di presepe e celebrazione liturgica di mezzanotte. Generazioni di bambini educate a mettere il bambinello nel presepe a mezzanotte precisa, non un minuto prima o un minuto dopo, perché altrimenti porta jella. Così, invece dell’eguaglianza e della fratellanza, si festeggia l’ipocrisia di una religione menzoniera e scaramantica. Vabbè, non mi sembra il caso di farmi scomunicare dal Vaticano, anche se credo che sarebbe stato meglio dar seguito al rito pagano delle orge, non fosse altro perché in questo modo le famiglie avrebbero avuto dei buoni motivi per non scannarsi durante il cenone. Oddio, c’è da dire che scambiare una moglie giovane e strafiga con la moglie sessantenne dello zio, cessa, chiattona, pelosa e con la fiatella, sarebbe ugualmente motivo di scontri, ma almeno il morto sul campo avrebbe un senso. Come dire, la coltellata a freddo avrebbe il suo fascino… Invece, a differenza dei Saturnali, il Natale è una festa in cui l’uomo potrebbe essere libero e invece diventa schiavo. Schiavo dei regali, della spese, degli “auguri anche a te e famiglia”, del cenone e di quel “che fate a Natale?”, che in poco tempo crea una movimento massonico per ricucire i rapporti rovinati l’anno prima, trama e inciucia fino al punto di convincere gli altri a sedersi di nuovo intorno a quella stramaledetta tavola imbandita. Da dove volete che inizi, dunque? Dalla descrizione della spesa o da come mi ero lasciato coi parenti un anno fa? Inizio dalla fine: da quei bei vaffanculi incartati regalati lo scorso anno, che, pur non avendo sortito l’effetto sorpresa, mi hanno dato una grossa soddisfazione. Prima di tutto, ho fatto fuori una zia squilibrata, grazie a un lavoro meticoloso durato anni. Avete presente quelle dementi che pensano di essere le uniche madri presenti sulla faccia della terra e che i loro figli siano belli, geniali, simpatici e col fisico di Angelina Jolie? Ecco, più volte ho manifestato il mio disappunto, rispetto al comportamento di quella chiattona della figlia sedicenne di zia Franca, che aveva il culo più grosso di uno pneumatico degli autobus. Alla fine, dopo anni di rimostranze fatte con discrezione, ho ritenuto opportuno sottolineare che la lardella accumulata sulle sue chiappe non fosse dovuta a una disfunzione ormonale, storia che veniva tirata in ballo spesso, ma al fatto che la figlia si strafogasse ogni anno tutta la frittura preparata per il cenone, compresi gli avanzi dei Natali precedenti. Voi non ci crederete, ma se l’è presa. Ha giurato su San Mc Donald, il santo protettore della cellulite, che non avrebbe più preso parte a un pranzo in cui fossi stato presente io. Notizia talmente drammatica da farmi scoppiare in un pianto commosso, che al posto dei singhiozzi era intervallato da un pratico “esticazzi”. Me ne sono fatto una ragione. Peccato, quest’anno zia Franca non ci sarà. Riusciremo mai a farne a meno?
Il parente che non sono riuscito a eliminare, invece, è zio Maic. Badate bene, non Mike, ma Maic. L’ho soprannominato così, per quella sua naturale propensione a usare la lingua italiana in modo spericolato. Nel suo dialetto, un misto tra pugliese, abruzzese e napoletano, la lettera a non ha ragione di esistere e deve necessariamente essere sostituita dalla e. Il troncamento dell’ultima lettera è essenziale per poter comunicare con lui e comporre una frase di senso compiuto: pranzo diventa prenz, mamma diventa memm, stocazzo diventa stochezz… Insomma, avete capito: sostenere un dialogo con lui richiede una base culturale che non tutti possono permettersi. D’altronde, zio Maic è famoso per il suo approccio filosofico alla vita e per le citazioni colte che dispensa generosamente ai comuni mortali. La sua citazione più celebre, che ho avuto modo di approfondire in altre occasioni, è questa: “Luche, lesc stere le denne, quelle mengien, ti fenn spendr tutt li sord e tu ti ritrov col cule per terr e nen ti rielz più!”. Che tradotto siginfica “Luca, lascia stare le donne, quelle mangiano, ti fanno spendere tutti i soldi e tu ti ritrovi col culo per terra e non ti rialzi più”. Sì, lo so, non ha tutti i torti… Come non ha tutti i torti quando afferma: “Luche, se seremm tutt ricch non foss meglie?”. Ovvero, Luca, se saremmo tutti ricchi non fosse meglio? Avete notato anche voi l’utilizzo sapiente della consecutio temporum? Se state pensando che le citazioni di zio Maic siano rivolte esclusivamente ai soldi, vi dico subito che siete in malafede: perché dubitare della generosità di un uomo che chiude le tasche dei pantaloni con le spille da balia, per evitare che durante le feste qualcuno ci infili inavvertitamente una mano e sottragga il prezioso tesoretto che porta in dono? Il tesoretto, per l’esattezza, è sempre lo stesso da quando lo conosco: una somma di denaro appena sufficiente per comprare due cremini. La valuta utilizzata è degli anni ‘20 e la congrua somma viene elargita con un rito più scenografico e sontuoso della messa di mezzanotte. Rito accompagnato dal terzo consiglio, quello più saggio: “Mi reccmend, nen spendrl tutt, mettl da pert”.
Sì, lo so, la comprensione del testo si complica… A volte, alcune lettere vengono eliminate sulla base di una qualche regola che ancora fatico a comprendere. Comunque, il senso della frase è “Mi raccomando, non spenderli tutti, mettili da parte”. Certo, zio Maic, lo farei volentieri, se non avessi più di quarant’anni e se quella cifra mi consentisse di acquistare almeno due pacchetti di gomme da masticare e un rotolo di liquirizia…
Eppure, nonostante la sua evidente generosità, Zio Maic non è uno scapolone. È sposato con zia Crocifissa. Giuro, si chiama così… e non è casuale. Porta una croce con sopra scritto MAIC al posto di INRI. Nel suo caso, il titulus crucis non è Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, è un più pratico MAquelgiornonunmepotevofàICazzimiei? Si tratta di un’espressione pasoliniana usata spesso per sottolineare la combinazione di eventi che portano a incontri indesiderati e che condannano a rapporti infelici da cui ci si sarebbe potuti sottrarre semplicemente standosene per conto proprio.
Zia Crocifissa è la mia preferita. Un donnone d’altri tempi di una generosità uguale e contraria alla tirchieria di zio Maic. Lui risparmia e lei spende. Fingendo di risparmiare, ovviamente. Lui è “tre pinze e una tenaglia”, lei ha le mani bucate come uno scolapasta. Il cenone di Natale non avrebbe senso, se non ci fosse zia Crocifissa, che inizia a cucinare a ottobre e finisce a febbraio. I fumi provenienti dalla sua cucina sono più tossici delle ciminiere di Porto Marghera. La friggitrice e l’olio con cui frigge hanno gli stessi chilometri della FIAT 128 di zio Maic. Si rifiuta di fare il tagliando a entrambe, il generosone. Se non le riesce la pericolosissima manovra di sostituire l’olio prima delle festività, ovviamente di nascosto dal marito, si corre un rischio altissimo: mangiare dei fiori di zucca che hanno il sapore dei totani, delle patate, delle cipolle, delle triglie e di tutti i defunti del mondo animale e vegetale che sono transitati da là. Lei è sempre stata il mio idolo, fin da quando ero bambino. I furti con destrezza che praticava per sottrarre i soldi dalle tasche di zio Maic e regalarli a me erano degni del miglior Totò nel film I soliti ignoti. Insomma, Maic e Crocifissa sono due personaggi che vale la pena invitare, non fosse altro per conoscere le nuove tendenze degli Ipodiscount, quelli che vendono i prodotti tossici fatti con i peggiori ingredienti presenti sul mercato. Dove volete che faccia la spesa, zio Maic? Mica penserete che contribuisca in termini qualitativi, vero? In compenso, sulla quantità ci siamo… ogni anno si presenta con decine di prodotti che nessuno ha mai sentito nominare..
Il panettone Bau Lì, per esempio, ovvero la rivisitazione cinese del suo omonimo italiano, solo con un colorito più fashion tendente all’arancione, che viene venduto alla considerevole cifra di 49 centesimi al pezzo. Peccato per il packaging, che non riporta la dicitura “Nuoce gravemente alla salute”, e per quel logo raffigurante un pastore tedesco che si lecca i baffi, esplicita rappresentazione del consumatore ideale. Quando si apre la confezioni, si sente un odore di trementina terribile, che porterebbe erroneamente a pensare a un potente veleno per le derattizzazioni. Sciocchini, è per le deumanizzazioni, mica per eliminare i topi. Bau Lì, elimina zii, cugini, nipoti e qualsiasi parente al primo morso.
Poi c’è il torrone Spirlari. Il nome del produttore dovrebbe già dire tutto, ma forse avrebbe bisogno di essere accompagnato da uno slogan efficace tipo “Spirlari, il torrone del pirla”. La confezione giallo colica basta da sola per disincentivare dall’acquisto, ma l’immagine sgranata e sfocata del torrone è una vera opera d’arte da utilizzare come dissuasore per i piccioni. Non so se avete mai avuto l’occasione e la fortuna di assaggiarlo… la cioccolata ha il classico sapore del copertone bruciato, ma questo sarebbe il male minore. La vera chicca da intenditore è rappresentata da quelle prelibate pallette di naftalina che vengono spacciate spudoratamente per nocciole.
Diciamo che, per quanto riguarda la spesa, zio Maic non è il riferimento giusto come non lo è il supermercato Conat, luogo che induce a vomitare già dal nome. Alla spesa pensa mia cugina Adele insieme al marito Franco. I fotomodelli della famiglia: entrambi hanno la forma fisica dei coglioni di mulo, quei salumi oblunghi che si vendono a coppia come i coglioni classici e durante le feste vanno per la maggiore. So a cosa state pensando: il 24 è la vigilia di Natale e non si mangia carne, men che mai coglioni di mulo, che corrispondono a un doppio peccato capitale: gola e lussuria. Okay, parliamone. Supponiamo che io non abbia fatto tutto quel discorso sui Saturnali e sulle orge e voglia rispettare il precetto cristiano dell’astensione, cosa che peraltro mi riesce bene in quasi tutti i campi, soprattutto in quello sessuale. Supponiamo che creda in Dio, negli angeli e in Satana. Ecco, la vigilia di Natale è il giorno in cui Satana si palesa, sotto forma di soppressata, per far violare il più meschino dei precetti cristiani e riempire l’umanità di inutili sensi di colpa. La sequenza è questa: sei sovrappensiero, è l’ora di pranzo e cerchi di digiunare in vista del cenone, pensi “mangio giusto qualcosina per fermare la fame”, apri il frigorifero, ti distrai un attimo, addenti una fettina di salamella e non fai in tempo a deglutire e a benedire il creatore per aver inventato il maiale che ti ritrovi a maledire entrambi e a pensare “Porca di quella troia, ho mandato a puttane l’astensione”. E adesso che mi succederà? Il mio futuro sarà inevitabilmente compromesso? Patirò le pene dell’inferno e sarò costretto a mangiare salamella a quintali per tutti i giorni della mia vita? Ragioniamo al ribasso e cerchiamo di essere razionali e ottimisti. La mia lucidità mi porta a pensare che la condanna non può essere per l’eternità. In fin dei conti, si tratta di una misera fettina di salamella, che non ho neanche avuto il tempo di assaporare fino in fondo. Se avessi leccato i coglioni di mulo, sarebbe stato peggio… Pur facendo ricorso a tutto l’ottimismo che ho dentro, credo che come minimo mi tocchino i canonici 7 anni di guai, che aggiunti ai 40 passati fanno 47 anni di guai. Non ricordo bene se nelle Sacre Fritture c’è scritto che i 7 anni di guai si sommano o si moltiplicano. Se si moltiplicano, sono fottuto: 280 anni di guai, che si tradurranno inevitabilmente in 280 Natali di merda. No, un attimo, forse sono salvo: i 7 anni di guai li porta lo specchio rotto, io invece ho solo rotto il digiuno. Non è colpa mia, vostro onore. Quella zoccola tentatrice di salamella mi ha guardato languidamente appena ho aperto il frigorifero. Non mi ha nemmeno sedotto, come potrebbe?, se indossa quella calza color carne come una mignotta di 80 anni. Che si fa in questi casi? Dico una preghiera? Un Atto di dolore, ecco cosa ci vuole. Mi devo pentire come nessun cristiano si è mai pentito prima. Lassù devo apparire come un uomo distrutto e disperato, pentito per essere caduto nella peggiore delle tentazioni. Quella carnale che più carnale non si può. Un rapporto gastroduodenale con una fetta di salamella. L’Atto di dolore non basta, è evidente. Ci vuole qualcosa di forte, che rappresenti la mia contrizione.
Ecco, ho trovato la preghiera adeguata:
uocchio, maluocchio e funecelle all’uocchio
aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglia,
corne e bicorne, cape’e alice e cape d’aglio
diavulillo diavulillo, jesce a dint’o pertusillo
sciò sciò ciucciuvè
jatevenne, sciò sciò!!!
Mi sento già meglio. Al sicuro. Non ricordo esattamente in quale passo dei Vangeli sia riportata questa preghiera, forse nel Vangelo secondo Eduardo de Filippo, nella parabola intitolata “Non è vero, ma ci credo”. Sì, dev’essere proprio così. Comunque, adesso che ho violato l’astinenza, non posso stare con le mani in mano. Devo fare qualcosa. Sono in preda a un attacco di invidia assurdo nei confronti di quelli che hanno la coscienza a posto e non si trovano nella mia peccaminosa condizione. Io ho il marchio dell’infamia tatuato addosso e loro hanno l’anima candida e pulita. Posso restare il solo peccatore dell’intera famiglia? E quei bocconcini di prosciutto e mozzarella a cosa servono, allora, se non a portare tutti nel baratro? Devo indurli in tentazione, è ovvio. D’altronde, se non ci fossero quelli come me, che inducono gli altri in tentazione, a cosa servirebbe il Padre Nostro?
Approfittando di un attimo di stanchezza di zia Crocifissa, prendo il comando della friggitrice, come se fossi Capitan Findus.
– Chi vuole dei bocconcini di mozzarella fritta caldi caldi?
Dico, con la voce di Cicciolina che tenta di sedurre un prete novizio. E chi potrebbe rifiutarli, alle 6 di pomeriggio, quando si manifesta il languore pre cenone a causa del digiuno fatto a pranzo?
– Me c’è enche il presciutte?
Dice zio Maic, dopo averne mangiati almeno una decina.
– Sì, perché?
– Cheme prch? Ogge è le vigilie… non si mengie cherne!
– Oh, cazzo! Me ne sono completamente dimenticato…
Fanculo, così il viaggio all’inferno non lo faccio da solo. Certo, quando Minosse si troverà a dover decidere in quale girone spedire zio Maic, avrà qualche problema. Dove lo manderà? Tra gli avari, tra i golosi o tra gli intellettuali anarchici? Bah, problemi suoi…
A parte la mia avventatezza ai fornelli, il cenone di Natale è l’occasione per ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, la differenza tra uomini e donne. Le donne fanno tremila cose contemporaneamente e gli uomini non fanno un cazzo. Le vedi cariche come traslocatori, che portano buste strapiene da cui spunta di tutto: dal broccolo ai tergicristalli della FIAT 128 da regalare a uno zio qualunque. Gli uomini camminano al loro fianco rassegnati e scocciati. Ieri, mentre girovagavo per le strade del centro a ubriacarmi di nostalgia, ho assistito a una scena che mi ha dato un briciolo di speranza. Ero su via Nazionale, nel punto in cui la pendenza in salita è simile a una pista nera. Una signora, della stazza di Ave Ninchi, piena di regali, buste, bustine, pacchi e pacchetti, dice al marito, che camminava frettolosamente davanti a lei libero dalle buste come un fringuelletto, “Ahó, va’ piano che sò piena de pacchi e gnà faccio. Te sei scordato che sò cardiopatica?”. Lui si ferma, si gira, la guarda e dice lapidario: “Pe spenne li sòrdi nun sei cardiopatica, però!”. Socrate non avrebbe avuto il coraggio di rivolgersi in questo modo a Santippe e, semmai lo avesse avuto, non sarebbe stato così saggio nella formulazione della risposta. A supporto dei poveri uomini, c’è da dire che, nonostante gli acquisti sfrenati e il menù definito fin da ferragosto, qualche ingrediente manca sempre. E le donne, che pensano quasi a tutto, se ne ricordano in un momento ben preciso: alle 17,57 del pomeriggio del 24, quando i negozi stanno per chiudere e in salotto i maschietti hanno avviato dei fantastici campionati di playstation in attesa che sia pronta la cena. Di solito, la più intrepida e spericolata irrompe inaspettatamente nella sala e se ne esce con la domanda:
– Chi è, tra voi, che esce e va a comprare il lievito di birra per fare la pastella?
Il lievito di birra? Minchia, quanti anni sono che a Natale si friggono le verdure? Da che ricordo, la prima a dare inizio a questa tradizione è stata la Madonna. Friggeva nella grotta, dalle 4 del pomeriggio. Tutto puzzava di fritto. Il bue, l’asinello, san Giuseppe, i pastori… Betlemme era come una padella a cielo aperto: fritto ovunque. Perfino il bambinello, che in alcuni presepi è incollato alla culla, segno evidente e prova scientifica che alla mezzanotte del 24 era già nato da sette otto mesi, puzzava di fritto. Eppure, nonostante questa tradizione millenaria, le dieci donne della casa dimenticano sempre l’ingrediente principale e si permettono di interrompere il miglior campionato di formula 1 della storia. È normale che alla domanda non segua nessuna risposta…
– Siete sordi? Ho detto: “Chi è, tra voi, che esce e va a comprare il lievito di birra per fare la pastella?”
A questo punto, invece di intonare un coro da stadio, gli uomini si guardano tra loro, scambiandosi con lo sguardo la risposta più ovvia a una domanda così spericolata. “Stocazzo” aleggia sospeso in aria. Se ne percepisce la presenza, ma nessuno osa arrivare a tanto.
Per non far scoppiare la rissa prima del dovuto, e rovinare così la tradizione delle coltellate a tavola, esco io. Apro la porta e vengo investito da una nube tossica oleosa. Tutto puzza di fritto. Le scale puzzano di fritto, le strade puzzano di fritto, le ascelle della cicciona che incontro in ascensore puzzano di fritto, i profumi di Fendi puzzano di fritto, perfino i tubi di scappamento delle auto puzzano di fritto e costringono i pedoni a rimpiangere quelle belle boccate di biossido di zolfo che si inspirano a pieni polmoni nelle ore di punta. Entro nel supermercato, che ovviamente puzza di fritto, e lo trovo inaspettatamente pieno: o c’è una riunione del comitato di quartiere oppure decine, ma che dico decine, centinaia di coglioni come me sono là per lo stesso motivo.
Lievito.
Di.
Birra.
Per.
Pastella.
E ovviamente l’ultimo cubetto disponibile se lo sono giocato a duello la signora Buttafava e suo cognato. Figuriamoci, la Buttafava è unta tutti i giorni che Cristo ha fatto, figuriamoci la sera della vigilia. Chi le fa una carezza, rischia di finire a toccargli il culo, non a causa di strane deviazioni sessuali, peraltro ingiustificate, ma per via dello strato di sugna che porta sulle guance. Le tocchi la guancia e la mano scivola come una saponetta sulle chiappe. Non mi resta che ricorrere al più abietto dei trucchetti: comprare i cubetti di dado Star, sperando che passino inosservati, toglierli dalla confezione e spacciarli per lievitini. Mi avvio verso casa in preda ai sensi di colpa. Queste feste mi mettono addosso una tristezza indescrivibile e una specie di rimescolio intestinale tipico delle interrogazioni scolastiche. Non proprio le farfalle nello stomaco, diciamo più la sensazione di aver assunto una supposta effervescente, quella che andrebbe servita a fine pasto. Tipo Eva Qu. Dio, che mi sono ricordato: le supposte effervescenti. Ricordate lo spot pubblicitario degli anni ‘90? Si vedeva una donna visibilmente intoppata, non fosse altro per quel vestito marroncino (sarà un caso?) che indossava, e una specie di angelo vestito di bianco. Angelo… sarebbe più appropriato dire una strafiga mora, che al posto dell’Annunciazione rilasciava bollicine effervescenti nell’atmosfera e si presentava dicendo “Mi chiamo Qu, Eva Qu, perché mi affidano le missioni più difficili”: praticamente era una specie di James Bond del cacarone, soltanto molto ma molto più bella di Sean Connery. Chiaramente, Eva Qu era sinonimo di Eva Quazione, ma capisco che far presentare in questo modo una donna di siffatta bellezza, benché con una faccia da maiala dichiarata, non sarebbe stato elegante. Immaginate lo spot? Mi chiamo Quazione, Eva Quazione, perché mi affidano le missioni più difficili. È vero che noi uomini, quando siamo davanti a una donna, perdiamo il lume della ragione e saremmo disposti anche a perdonare un errore anagrafico di questo tipo, ma il fotogramma successivo non lasciava spazio a nessun dubbio. Si vedeva un culo disegnato (lo giuro, potete verificare, cercando su internet) ed Eva Qu, “la supposta effervescente che risveglia l’intestino”, che abusava delle sventurate chiappe con “la delicatezza delle bollicine”. Il payoff, poi, era tutto un programma.”Eva Qu, effervescente, pratica e senza controindicazioni”. Capisco che i miei lettori non siano pubblicitari smaliziati, ma credo che l’inganno di questa pubblicità sia evidente. Ammetto che l’associazione donna-supposta è quanto di più geniale possa partorire la mente di un creativo, ma con lo slogan proprio non ci siamo. Che una donna, per un uomo, sia assimilabile a un suppostone delle dimensioni di un missile a lunga gittata è un’evidenza scientifica. Che sia effervescente ci può anche stare, ma che sia pratica e, soprattutto, senza controindicazioni, è un’affermazione talmente spericolata e bugiarda da competere con la scena della finta pazzia che ho fatto durante i tre giorni delle visite di leva, per evitare il servizio militare. Le controindicazioni in una donna ci sono eccome. Servirebbe il bugiardino, per capirle tutte. Dovrebbero fare delle campagne informative, per mettere in guardia la popolazione maschile. Roba tipo “Nuoce gravemente alla salute”, “Può causare infarto e perdita dei sensi, dissanguamento finanziario e scompenso cardiaco”, “Si contraddice facilmente, assumerla in piccole dosi e non rivolgerle la parola durante il ciclo”. Insomma, la stangona come testimonial di una supposta effervescente che stimola la diarrea non era appropriata, secondo me. Se avessero preso, che so, una cicciona butterata con le calze color carne sbrindellate che si chiude nel cesso e si lascia andare ai fuochi d’artificio della festa di San Gennaro, sarebbe stato tutto più credibile. Se poi, dopo il rumore dei tric e trac al posto del tappetino musicale, fosse uscita dal bagno con aria soddisfatta e avesse detto “È stata dura, ma ce l’ho fatta”, sarebbe stata perfetta. Okay, con l’immagine di Eva Qu ho guadagnato sicuramente degli attestati di stima: posso rientrare a casa tranquillo, pensando che tutto sommato le supposte Eva Qu potrebbero dare un senso al cenone. La casa, nel frattempo, si è riempita di parenti. Tutte persone che fino a dieci minuti prima si odiavano per qualcosa accaduto l’anno prima, che non ricordavano, ma che doveva essere sicuramente grave e importante. Che bel clima del cazzo. Nonostante i termosifoni roventi, si percepisce il freddo delle distanze. Io sono il più distante di tutti e mi sento terribilmente solo, anche se sono in mezzo a decine di persone. Se c’è un giorno in cui vorrei morire, quel giorno è oggi. Il giorno in cui è tutto finto e ipocrita, anche la vita. Finta allegria, finta bontà, finti legami, finto amore, finti propositi, finte preghiere e finto lievito di birra, che, in realtà, è uno schifosissimo dado Star.
Le pietanze si susseguono senza pietà. Zia Crocifissa si è fatta prendere un po’ la mano e ha fritto, non solo tutta la carne che ha trovato in frigorifero, anche i mandarini, le noci, i torroni e una copia di Pastorale Americana che gli è capitata inavvertitamente tra le mani. Ormai l’astensione è un ricordo per tutti.
Gli unici puri, che hanno qualcosa in cui credere, sono i bambini. Loro sì che aspettano il solo personaggio veramente esistente, che in qualche modo arriverà a mezzanotte. In ogni famiglia c’è un Babbo Natale che si presta alla recita. Nella nostra di solito lo fa zio Maic, che viene puntualmente beccato appena dice “È errevet Bebbe Netele”. Avete appena conosciuto l’unica famiglia al mondo in cui i bambini, ormai da diverse generazioni, sono fermamente convinti che Babbo Natale sia per metà abruzzese e per metà pugliese. Che poi proprio sbagliato non è, visto che Santa Claus deriva da Sinterklaas, che in olandese significa San Nicola. Solo che San Nicola non aveva le tasche dei pantaloni chiuse con le spille da balia e non diceva “Porca puttena” come Lino Banfi. O forse aveva entrambe le cose, ma nessuno lo sapeva… Fatto sta che ogni anno c’è qualche ragazzino imprudente e scaltro che osa dire “Tu non sei Babbo Natale, sei zio Maic!”. Ora, dico io, ti hanno beccato? Fai finta di niente, esci dalla stanza con noscialanz e lascia intorno a te un alone di mistero. Macché, niente da fare, si sente in dovere di rispondere.
– Cheme nen sene Bebbe Netele? Nen me vede? Ci è le berbe bienche, le penze e le reghele…
Così, una situazione che poteva essere risolta con un saggio silenzio viene aggravata in maniera irreversibile. Che poi è la stessa cosa che accade a me, quando cerco invano di giustificarmi con qualcuno e di dare spiegazioni. È vero che, non indossando la divisa da Babbo Natale, sono meno credibile e le scuse sono meno efficaci, ma io, al contrario di zio Maic, cerco di essere onesto. Insomma, quando è l’ora di Babbo Natale, ci tocca assistere per forza alla scena dell’apertura della spilla da balia e alla conseguente equa distribuzione della povertà. Il nostro è un Babbo Natale realista, che insegna fin da piccoli un principio sociale fondamentale: poiché distribuire equamente la ricchezza è impossibile, da migliaia di anni si distribuisce equamente la povertà. Però, tu sei Babbo Natale, cazzo!, non puoi permetterti di essere tirchio, altrimenti diventi un ossimoro vivente. Non ti viene in mente di aver sbagliato mestiere? Hai pensato a darti allo strozzinaggio? Là si che avresti successo…
Per onestà, c’è da dire che la colpa della povertà non è tutta del Babbo Natale nostrano, anche i parenti fanno la loro parte. Tanto per cominciare, il vecchio luogo comune del “basta il pensiero” non è vero: il pensiero non basta manco per il cazzo. Quando arriva il momento di scambiarsi i regali, la prima cosa a cui si pensa è “Quanto avrà speso?”. La seconda cosa è “Quanto ho speso io per il suo regalo?”. La terza è “Quanto c’ho rimesso?”. Non fate i santarellini, tanto lo so che siete tutti coinvolti. L’unico a uscire vivo da questo busillis è Zio Maic, il distributore automatico di fregature. A Natale dà il meglio di sé e mette a frutto la sua passione per gli studi economici, che lo ha portato a elaborare una teoria molto complessa su come scambiarsi regali senza perdere soldi. Prima di tutto, bisogna conservare la serie storica dei regali ricevuti dai diversi parenti, altrimenti non è possibile fare una valutazione corretta delle azioni da intraprendere. I meno esperti con la tecnologia possono annotarli su un’agenda, ma io mi sento di consigliare caldamente un pratico foglio Excel, che all’occorrenza permette di calcolare anche la media e l’andamento nel tempo della spesa. Poi, è fondamentale adottare un sistema di unità di misura a cui far riferimento. Il più diffuso, anche a livello internazionale, è la ciabatta De Fonseca a quadrettoni imbottita di pelo sintetico e con la suola in gomma giallognola. Qualsiasi regalo deve essere rapportato a lei. Questo perché la ciabatta De Fonseca è il “pensiero” più scambiato durante le feste. Quando non si sa cosa cazzo regalare, si prendono un paio di ciabatte imbottite dallo stand solitario di un supermercato e passa la paura. Ne ho una collezione personale, di quelle ciabatte di merda. Quando conosco una donna, la invito a vedere la mia collezione di ciabatte. Me le regalano a rotazione: ogni anno un parente diverso. E io, per non fare la figura del cafone, sono anche costretto a dire “Wow, che belle! Non me l’aspettavo…grazie!” .
Lo so, con le metafore vado forte. La traduzione esatta del mio pensiero è: “Me cojoni, un altro paio di quelle ciabatte che fanno cagare anche gli stitici più ostinati! Cos’altro potevo aspettarmi, da uno come te? Sono anni che ti attesti su una spesa media di 5 euro e 22 centesimi. Ti sei laureato alla Maic University, secondo me…”
Capisco che quel “wow” detto a coglionella possa dar luogo a qualche interpretazione errata, ma è mai possibile che la controparte non se ne renda conto e risponda compiaciuta.
Sapevo che ti sarebbero piaciute, sono contento. Non devi ringraziarmi, è solo un pensiero.
Un pensiero che avrebbe potuto avere anche un escherichia coli, dico io. Non è il caso di rispondere, tanto ci sarà modo di litigare più tardi.
Tanto per concludere il discorso, diciamo che per regolarsi esattamente su cosa regalare, è necessario ragionare in termini di ciabatte De Fonseca ricevute nel corso degli anni. Certo, poi è necessario fare delle previsioni, un minimo di calcolo sul dare/avere e qualche saggia considerazione sul futuro. Roba tipo, A mio cugino che lavora alla posta gli faccio un regalo leggermente più costoso, così si sente in obbligo e mi fa saltare la fila. Cose disinteressate, insomma.
Altro aspetto da non sottovalutare è il rapporto spesa/figura. Se è vero che spendendo 5 euro per un paio di ciabatte De Fonseca ci si espone a una figura di merda pressoché certa, è altrettanto vero che con la stessa cifra si può acquistare una candela o, peggio, uno di quei saponi fuffosi da mignotta che vanno tanto di moda adesso. In questo caso, si confondono le idee all’avversario, ma bisogna essere coraggiosi ed esporsi al rischio di sottoporsi alla prova sapone. Una volta ci sono cascato anch’io e vi assicuro che non è stato per niente piacevole: mi è capitato uno di quei commessi che il giorno prima faceva la drag queen alla Mucca assassina, il noto locale gay. Mi ha guardato languidamente, con gli occhi a cuoricino tipo il cagnolino Spank, e ha cominciato a spalmarmi il sapone sulle mani con una voluttuosità da pornostar. Nonostante il mio imbarazzo, oltre al timore che entrasse nel negozio qualcuno e mi beccasse in flagranza di checcagine, la baldracca ha continuato a insaponarmi, per poi passare al risciacquo. Metterà la mano sotto al rubinetto, ho pensato. Ottimista che altro non sono… Ha usato una tecnica tutta sua, prelevando l’acqua goccia a goccia con la mano e disinsaponandomi come se mi accarezzasse l’inguine al ritmo di Je t’aime. Insomma, fare i regali di Natale non è uno svago, è un vero e proprio lavoro, che non viene per niente apprezzato. Anche perché, il parente che regala la ciabatta pelosa è lo stesso che regala alla moglie il telefono cellulare da milioni di euro, quello che fa anche la permanente e i colpi di sole ai peli del culo. E questo mi fa incazzare più di tutto. L’equità sociale dove la mettiamo? Vogliamo fare una distribuzione equa delle strenne natalizie e io farò una equa distribuzione delle supposte effervescenti? Niente da fare, ogni anno c’è qualcuno che si espone a questo triste siparietto. Che poi, potenza dell’ipocrisia, chi riceve le ciabatte deve fingersi contento e, nella maggior parte dei casi, chi riceve il telefono costoso quanto un attico con vista su Via Frattina ha da ridire. Fa il sostenuto. Avrei preferito il modello Plus, dice. E me cojoni, risponderei io, per il modello plus non sarebbe bastata nemmeno la liquidazione. L’unico a essere coerente con sé stesso è zio Maic: regala 5 euro anche alla moglie e lo fa con la stessa solennità con cui lo fa con gli altri. Certo, non è facile raggiungere i livelli del Natale 1998, quando le regalò un rubinetto per la cucina in sostituzione del vecchio, che era durato appena 27 anni 7 mesi e quattro giorni. In quell’occasione, spese la cifra stratosferica di 50 mila lire: un vero e proprio investimento, che non ha ancora ammortizzato e che rinfaccia alla moglie ogni santo Natale che il padre di Cristo ha fatto.
Vabbè, ammetto di aver commesso qualche peccatuccio anch’io, nel corso degli anni: alcuni regali costosi li ho fatti, ma almeno ho avuto la decenza di non consegnarli platealmente in pubblico. D’altronde, non sarebbe stato facilissimo consegnare un piatto doccia 120×80 cm alla mia ex moglie, dopo che aveva rotto il vecchio…
Sarò io che sono strano, ma in queste dinamiche non ci vedo nulla di sacro. Ammesso e non concesso che la sera della Vigilia voglia starmene in silenzio ad adorare il mio dio, non ne avrei la possibilità: sottrarsi al rito dei regali è impossibile. Come è impossibile sottrarsi al rito dei giochi natalizi. Se è vero che dopo un giro di tombola i coglioni di un uomo normale restano incollati alla sedia, quando si passa alle carte si dà il là per la lite, che terrà le famigliole distanti per il resto dell’anno. Ditemi voi se in un clima pericoloso come può essere un raduno simile, si può giocare a giochi dai nomi che istigano all’incazzatura.
– Ci facciamo un paio di giri a Bestia?
Bestia, per chi non lo sapesse, è una specie di briscola d’azzardo con cui si rischia di perdere la tredicesima. I partecipanti s’incazzano come bestie, per l’appunto. Proporre di giocare a Bestia è come dire “Forza Lazio” nella curva sud, quella dei romanisti. Eppure, tutti gli anni c’è qualcuno che ci casca; zio Maic in primis, che pensa di essere un grande giocatore. Di solito, è il primo che comincia a perdere cifre astronomiche, e, quando accade, lo si capisce dal colore delle sue orecchie: inizialmente sono di un pallido rosa color culo di neonato e, piano piano, assumono tutte le gradazioni di rosso fino a diventare infuocate come due bistecche di contro vitellone. La sequenza ormai è chiara come un in film visto e rivisto: il meno fortunato è costretto a calare un asso, quello che vale 11 punti. A questo punto, interviene, con un sorriso incerto, chi possiede il Re di briscola. Poi, zio Maic, con un sorriso mefistofelico da gatto che mangia il topo, cala il tre di briscola.
– E quest me le piglie ie…
Già si vede incoronato imperatore della serata, quando la mano autorevole di Peppe, il cugino che gli è sempre stato sul cazzo, cala l’asso.
– E no, Maic, quest me le piglie ie.
Dice Peppe, prendendo le carte in tavola e prendendo pure per il culo Maic. Il quale Maic, non avendo fatto nemmeno un punto, “va in bestia” sia nel senso del gioco che nel vero senso della parola. Il piatto da 50 euro è una cifra che non può sostenere: l’equivalente di un rubinetto Grohe ottonato. Rischia il collasso e il fallimento. Strilla, sbraita, comincia ad accampare scuse, dice che siamo una famiglia di disonesti e che abbiamo barato, che lo derubiamo tutti gli anni, che questo è l’ultimo anno che passa il Natale insieme a noi… e poi tira fuori la frase che, lo sa con certezza scientifica, metterà tutti contro tutti come Montecchi e Capuleti, distrarrà la folla, confonderà le idee e annullerà il suo debito di gioco.
Le colp è di quel negre del chezz, che guerd le chert e fe le spie.
Ovvero, La colpa è di quel negro del cazzo, che guarda le carte fa la spia. Il Negro del cazzo sarebbe il fidanzato di Annunziata, la figlia di Peppe. La pelle olivastra e le origini siciliane sono più che sufficienti per fare di lui un “negre del chezz”. Maic ce l’ha con tutti i meridionali, che emigrano per rubargli il lavoro. E si sa che un meridionale aspira a vendere i bottoni e le mutande alle tardone che girano per il mercato dove lui ha il banco. Potrebbe, che so, fare l’ingegnere alla Fincantieri, come Carmelo, ma il richiamo delle mutande è più forte di qualsiasi altro mestiere. Fortunatamente, Carmelo, che è una persona intelligente, non raccoglie le provocazioni. A raccoglierle ci pensa Aida, la moglie di Peppe, che non sopporta né i razzisti né Maic.
– Razzista di merda…
Adesso sì che ci divertiamo. Il conflitto è quello che tiene vive le feste di Natale, altro che il bambinello. A questo punto, infatti, tra Aida e Maic si scatenano delle risse verbali che non potete immaginare. Le giaculatorie creative che tirano fuori potrebbero tranquillamente ricevere il primo premio alla Sagra della Bestemmia di Borgo Grappa. Bestemmiano in rima, coinvolgendo alternativamente Dio, la Madonna, Gesù Cristo e tutti gli invitati alla cena del Signore. Per fortuna, conoscendo le bestie, ho acquistato un bambinello con la faccia sconvolta e gli occhi sbarrati come un’emoticon di Whatsapp. Sembra che dica “ E che cazzo, manco sono nato e già mi date del porco! Concedetemi almeno qualche anno di tempo per sperimentare i peccati terreni, no?”. Niente, il livello di incazzatura sale talmente velocemente che nemmeno Cristo riesce a mettere pace. Si insultano sugli argomenti più disparati, spaziando dalla politica alle dubbie virtù di Annunziata. Non c’è un argomento sul quale la pensino allo stesso modo. Lui è leghista, lei è comunista. Lui è cristiano bigotto, lei è atea mgnotta. L’unico aspetto che li accomuna è la tirchieria: uno regala 5 euro, l’altra quelle ciabatte De Fonseca di merda. Nella discussione, che aumenta in crescendo come l’Allegro con brio di Beethoven, ciascuno cerca delle alleanze tra i parenti, per supportare le proprie tesi. La faida è servita. Si tirano fuori rancori e fatti avvenuti decenni prima, frasi mai digerite, affronti mai superati. Io, che modestamente mi trovo in mezzo, cerco di aizzare l’uno contro l’altro: specialità in cui sono un vero professionista. Lo faccio con un rigore scientifico che nemmeno Tina Cipollari in Uomini e Donne si sognerebbe. Sono il tronista della litigata. Quando le cose sembrano calmarsi, butto là l’aneddoto incendiario che fa ardere di nuovo il sacro fuoco della rissa. La partita a Bestia si trasforma nel derby Rottweiler contro Dobermann. Per farli smettere, andrebbero immersi nella vasca dei piranhas dopo essere stati unti con lo strutto. La sala da pranzo è diventata una specie di arena infuocata dai termosifoni, dalle parole roventi e, soprattutto, dalle orecchie di Maic, che irradiano calore più di un termocamino. A questo punto, dopo nemmeno un’ora dalla nascita, il bambinello comincia già a sentire puzza di fregatura: la terra è un posto di merda, pieno di gente litigiosa, dove è stato mandato per scontare chissà quale peccato. So benissimo cosa gli passa per la testa, durante il cenone:
- Tra tutte quelle cazzo di ciabatte De Fonseca, ce ne sarà anche un paio per me, ne sono certo. Per carità, sono bellissime, ma io, per camminare sulle acque, ho in dotazione delle pratiche scarpette da scoglio.
- Siamo proprio sicuri che devo farmi crocifiggere per salvare ‘sta gente qua?
- Sono nato da un’ora e apprendo che mio padre è un porco, mia madre una porca e comincio ad avere il dubbio che questo non sia un presepe ma il set di un film porno.
- Che minchia di lingua si parla in questa casa? Io quello con le orecchie color bistecca di vitellone e le spille da balia sulle tasche dei pantaloni non lo capisco… Una cosa la so, però: da grande voglio essere come lui e andare in giro per il mondo a diffondere il verbo. Quel “Lescie stere le denne…”, anche se non so cosa voglia dire, mi sembra un consiglio saggio…
Insomma, in meno di un’ora, il bambinello di casa Strano ha il bagaglio culturale e l’esperienza di vita di Matusalemme, Renzo Montagnani e dei 40 ladroni messi insieme. E casa Strano è proprio così, piena di diversità e di solitudini. C’è chi argomenta, chi urla, chi, nella foga, per sostenere la propria tesi, straparla e sputacchia sui pezzi di torrone Spirlari che nessuno ha avuto il coraggio intestinale di assaggiare. C’è chi sgranocchia noci e chi sbuccia mandarini. C’è chi, pur di non sentire le liti, si è messo a rassettare la cucina e chi chatta con l’amante perché la moglie è diventata come la decorazione natalizia di un albero di Natale in plastica. Ci sono i bambini, che giocano, già annoiati dai regali appena ricevuti e i nonni che “Ai miei tempi questi giochi me li sognavo, si giocava a Nizza, Nisconnarella e Tre-tre-giù-giù”. Ci sono i padri e le madri, contenti di stare essere riusciti a riunire tutti almeno per un giorno, che fanno finta di non vedere quanto la famiglia si sia sfasciata . Alla fine, le discussioni si smorzano e ognuno resta solo con la noia. Si accende la televisione e si va a colpo sicuro, senza nemmeno consultare la guida televisiva: sulle reti Mediaset trasmettono Il piccolo Lord, Sette spose per sette fratelli e lo speciale di Barbara d’Urso. Sulle reti RAI Mary Poppins e la serie dedicata alle storie d’amore indiane. Ci fosse un cazzo di anno in cui, per sbaglio, si concedano una trasgressione: non dico di trasmettere Le calde notti di Moana, ma almeno, che so, La liceale seduce i villeggianti. Niente, da quarant’anni la programmazione è sempre la stessa. Cosa fare, allora, se non tornare a pensare alla mediocrità quotidiana? Matrimoni falliti, problemi sul lavoro, insoddisfazioni, incomprensioni, paura di invecchiare e voglia di rinascere di nuovo, come quel bambinello, e ricominciare da zero. Magari da un’altra parte, in un’altra famiglia, diversa e uguale a tutte le altre. Li guardo da fuori, i miei parenti, e per un attimo mi sembrano tutti belli: genitori, figli, nonni, nipoti, zie, zii, giovani, vecchi, calmi, incazzati, sorridenti e malinconici. Ognuno porta con sé un mondo fantastico e unico, che, nel bene e nel male, è costretto a condividere con gli altri. Mi affaccio alla finestre e mi chiedo cosa sono diventato io. Ho i capelli bianchi. In questa casa, da bambino, ho visto passare babbo Natale diverse volte. Ho visto nuvole di fumo sul tavolo da gioco e ho passato nottate a veder giocare gli adulti. Ho vissuto giornate grigie, stravaccato sul divano, annoiato, in attesa di un messaggio di auguri che non è mai arrivato. Avrei un sacco di domande da fare a quel ragazzino appena nato. Era proprio necessario tutto quel dolore che ho vissuto? Avrei potuto farne a meno ed essere ugualmente quello che sono? E le delusioni? Quelle belle delusioni, che non deludono mai perché ci sono sempre e non mi hanno mai lasciato solo, non potevi risparmiarmele? Sorridi, eh? Per forza, sei appena nato. Che ne sai tu di com’è l’umanità. Che ne sai di cosa sono capaci quelli là fuori? Ti batterai per la libertà degli altri e a te la toglieranno. Lotterai per far capire alla gente che per vivere serve solo l’amore e ti ritroverai, per duemila anni, a nascere in mezzo a una, mille, milioni di famiglie in cui ci si scambiano soltanto regali che non servono a un cazzo. Andrai a dire in giro che siamo tutti uguali, proprio tu che ti proclami figlio di dio, e quando finalmente ti sentirai umano, prenderai il posto di Barabba sulla croce. Ma sarai un umano speciale, uno che perdonerà e avrà pietà di tutti, persino chi lo uccide. E allora poco importa se sei il figlio di dio o no. Poco importa se sei risorto o se gli apostoli si sono inventati tutto. Poco importa se a messa ci vanno quelli che non hanno capito un cazzo dei tuoi insegnamenti. Proverò anch’io ad avere pietà di chi mi ha fatto e mi farà del male, pure se non sono il figlio di dio e ho uno zio come Maic, che andrebbe crocifisso insieme a Barabba. Ci proverò, ma l’anno prossimo: adesso stanno ricominciando a giocare a Bestia e non voglio perdermi lo spettacolo.