Sono Luca Strano, ma se fossi in voi non mi fiderei molto dell’uso spericolato che faccio del verbo essere. Oggi come oggi, dire “sono” è un’affermazione azzardata, che genera false aspettative. Sarei un disonesto se mi presentassi con la presunzione di essere qualcuno che si possa descrivere esattamente come si fa con la ricetta dell’impepata di cozze. Ricomincio dalla presentazione, allora. Sono strano senza S maiuscola, questo posso dirlo. Parecchio strano. Sono impreparato alla vita, alle prove a cui mi mette continuamente di fronte, e sono inadeguato a tutto: all’amore, alla paura, alla gente, alla sofferenza, ai problemi, alle soluzioni e alle scelte. Sbaglio in continuazione, se mi trovo in una situazione difficile o inaspettata reagisco come farebbe qualcun altro che non sono io e mi viene spontaneo chiedermi “Chi cazzo sono realmente?”. Per questo ho le idee confuse. Ho creduto di essere, serio, fedele, timido e onesto e sono stato costretto dalla vita a diventare cialtrone, a tradire per sopravvivere all’infelicità, a essere estroverso per sopravvivere al lavoro e a rubare per non essere derubato. Prometto che, in futuro, sarò Luca Strano, un uomo tutto d’un pezzo. Per ora dovete accontentarvi del professionista dell’errore descritto nella sinossi, una specie di spezzatino umano con tanto di patate a tocchetti. Vi farete un’idea sbagliata di me, che sarete costretti a cambiare Strada facendo, come direbbe Baglioni, senza l’aiuto del famoso “gancio in mezzo al cielo”. Che metafora geniale… invece di dire “nella vita sbaglierai e non potrai fare altro che attaccarti al cazzo”, Baglioni se n’è uscito con “strada facendo troverai un gancio in mezzo al cielo”… lo stesso identico concetto espresso in modo diverso.
Non sapendo da dove iniziare, per farvi capire esattamente le dimensioni del coglione con cui avrete a che fare, comincio col darvi la tipica informazione che non serve a una beneamata minchia: faccio il pubblicitario. Non basta? Già, avete ragione, la domanda più inutile che si possa fare a una persona, per conoscerla, è “Che lavoro fai?”. Chiedetemi che libri leggo, che musica ascolto, che idee politiche ho, ma non che lavoro faccio. In effetti, citando Claudio Baglioni, non mi sono presentato benissimo. Avrei potuto esordire, che so, con Guccini, De Andrè, Gaber, al limite anche Bertoli… ma non sarebbe stata la stessa cosa. Vuoi mettere il parallelismo tra il “gancio in mezzo al cielo” e “attaccati al cazzo”? Aggiungo un altro particolare, dunque. La mia agenzia pubblicitaria si chiama sComunica. Con la s minuscola e la C maiuscola. Tranquilli, tranquilli, non sono ateo, sono credente a modo mio. Per esempio, non bestemmio mai a sproposito: ci deve essere sempre una buona ragione. Peccato che gli eventi me ne forniscano sempre più di una, di ragione. Vabbè, qualche giaculatoria a volte serve e non fa male a nessuno, men che meno a un ipotetico dio o a qualche santo. Alla fine, per entrare nel regno dei cieli, basta avere pietà di tutti, anche di sé stessi. Il problema non è il regno dei cieli, ma il regno della terra: qua son cazzi, non là. Lo ammetto, un po’ ateo lo sono, ma poco poco. La sComunica si chiama così ovvi motivi. Per fortuna se dovessi ricevere un padulo d’incenso dal Vaticano non sarei solo: dispenserei l’inculata anche al mio socio, Alberto, che poi è pure il mio migliore amico. Ci conosciamo da una vita. Riesce a perdonare le cazzate che faccio come non sarebbe in grado di fare nemmeno Santa Maria del Soccorso, quella che si invoca inutilmente quando sei nella merda, invece di prendere le pagine gialle e chiamare una ditta di idraulica e spurghi. Non che lui sia immune, dalle cazzate, ma è sicuramente più razionale ed equilibrato di me. Io sono complicato come un risotto alla pescatora, lui è razionale ed equilibrato come le fette biscottate del Mulino Bianco. C’è da dire, però, che non mi ha mai lasciato solo, nemmeno quando sono sceso all’inferno senza preavviso. Quando è finito il mio matrimonio, per esempio. Sì, ho una ex moglie e se avessi avuto la lungimiranza di prevedere l’alta probabilità di fallimento dei sentimenti, avrei sicuramente fatto una raccolta di firme per abolire definitivamente l’amore e il matrimonio. Vabbè, non voglio cincischiare ulteriormente, potrei descrivervi il mio carattere nei minimi dettagli, ma non sarebbe efficace come le storie che ho da raccontare. Comincio da oggi e dal compleanno di Alberto: 40 anni. L’età più bella, quella della maturità e delle opportunità da cogliere consapevolmente. Non solo, i quarant’anni rappresentano anche l’età dei colpi di testa (di cazzo), ma questo lo descriverò meglio in seguito…
Gli ho organizzato una festa a sorpresa che si ricorderà per tutta la vita. Ho anche ingaggiato un gruppo musicale, una cover band, che suona musica rock anni ‘50, la sua preferita. È fissato con Jerry Lee Lewis ed Elvis: siamo diversi anche nei gusti musicali. Ah, Alberto ha una moglie, Anna, una vera scassacazzi da manuale. Anna, la professionista del lamento. Anna, l’eterna insoddisfatta. Anna, l’eterna criticona. Anna, la donna più paranoica che io abbia conosciuto. Anna, la maniaca del pulito, quella che si sente addirittura superiore alla nonnetta immortale che pubblicizza la candeggina Ace. Avete presente quelle pazze scatenate che entrano in crisi se vedono un capello sul pavimento e che disinfettano continuamente ogni angolo della casa? Ecco, Anna è così. Una moglie che definire “dito al culo” è farle un complimento. Non so nemmeno come sia riuscito a convincerla a farmi dare le chiavi di casa, per fare i preparativi. Cioè, lo so: in cucina sono un dio, questo è risaputo. Quella zoccola di Anna ha avuto anche la sfacciataggine di pretendere un menù di suo gradimento: risotto alla crema di scampi, tagliata di tonno alle erbe, spiedini di mazzancolle e calamari, Sacher. Spero che abbiate compreso il tono amichevole della zoccola… cioè, del mio modo di rivolgermi ad Anna.
– Mi raccomando: non lasciare il lavandino bagnato, perché divento una bestia…
Nient’altro? Vuoi pure una fetta di culo vicino all’osso o preferisci un gancio in mezzo al cielo a cui attaccarti in caso di necessità?
– E stai attento ai mobili, ai tappeti e a qualsiasi complemento di arredo ti trovi a maneggiare. Anzi, se ti limiti a restare in cucina, non fai un soldo di danno…
– Cos’è, casa Alcatraz?
– Non fare il cretino, lo sai che sono gelosa della mia casa…
No, tu non sei gelosa della tua casa, sei una malata di mente che andrebbe curata con un trattamento sanitario obbligatorio da uno sfasciacarrozze. Soprassiedo, va’, che è meglio. Giuro che mi viene voglia di organizzare un festino con venti spogliarelliste brasiliane, solo per demolire quella stracazzo di casa a ritmo di samba. A conoscerle, venti spogliarelliste brasiliane…
Per fortuna, quella psicolabile di Anna non ce l’avrò tra le palle: aveva un appuntamento col parrucchiere.
– Stasera voglio essere bellissima!
Ha detto, prima di darmi le chiavi di casa.
Lo sarai, lo sarai, ho pensato, ma prima devi passare in chiesa a chiedere una grazia ai santissimi Sili e Cone, protettori dei chirurghi plastici. E visto che ci sei dì anche un rosario per tutte le siliconate che conosci:
Alba Parietti, prega per noi
Daniela Santanchè, prega per noi
Valeria Marini, prega per noi
Dunque, facciamo il punto della situazione: la spesa l’ho fatta, il regalo ce l’ho…
A proposito di regali, se avrete la pazienza e la voglia di leggere le mie storie, vi imbatterete spesso nella frase “io sono quello che fa i regali a chi non sa cosa farsene” o qualcosa del genere. È un’autocitazione, che deriva da un fatto che mi è accaduto e da una mia ferma convinzione: ciò che accade nei primi anni della vita di un bambino influenza enormemente il comportamento e gli eventi dell’adulto di domani. La mia sindrome del regalo non richiesto la devo a un ragazzino, ma farei meglio a dire a un figlio di puttana, che mi ha rovinato l’infanzia. Si chiamava Andrea, ma tutti lo chiamavano Andreino per via della sua altezza paragonabile a quella di una scatoletta di tonno. All’epoca non sapevo che quella storia del cuore vicino al buco del culo, nelle persone basse, a volte può avere un riscontro pratico palpabile. Questa merda umana era una specie di boss e gestiva il commercio clandestino di tappi e biglie, il calendario degli sport estivi in cortile e altre menate di questo tipo.
Essere il migliore amico del boss era un privilegio. Tutti, chi più chi meno, aspiravano a ricoprire questa carica. Lo sapeva, l’infame, e si vendeva per un pacchetto di figurine Panini. Il compleanno di Andreino è stato per anni una specie di evento. Lo festeggiava in casa con un gruppo ristretto di fedelissimi: ogni anno diversi, ovviamente. Non c’è nulla di più infedele dei fedelissimi, nella vita. Quell’anno, uno dei fedelissimi ero io. Io e il mio cuore puro, che mantengo tuttora, nonostante la vita e le persone cerchino continuamente di contaminarlo. Non dormivo la notte, al pensiero del regalo da fare a quel guappo ‘e cartone e della festicciola a cui avrei partecipato.
Già da ragazzino avevo la fissazione di fare regali unici, studiavo per non sbagliare. Che coglione, direte, e avete ragione. Purtroppo il vizio di fare un regalo che faccia pensare “Come cazzo fa a conoscermi così bene?” ce l’ho ancora, nonostante le fregature accumulate negli anni. A regalare un anello di brillanti sono tutti capaci, a regalare due biglietti per un concerto che si tiene a ottocento chilometri di distanza, facendo andata e ritorno in giornata, su una macchina sgangherata, è più difficile.
Mi piace sorprendere, ecco. E non è vero che i regali bisogna saperli fare, i regali bisogna saperli ricevere. Chi riceve un regalo dovrebbe seguire una specie di galateo o almeno fare tutte quelle espressioni del viso che il mittente della sorpresa ha immaginato.
Sembro uno sfigato lasciato dalla moglie (e in parte lo sono), invece l’altro giorno mi sono ritrovato in una profumeria senza un motivo. Anzi, un motivo c’era: Daniela. L’ultimo amore, quello che, forse, non si scorda mai. Credo in lei. Ne sono innamorato come può esserlo un uomo di 40 anni.
Profondamente, quindi.
Senza illusioni.
Consapevolmente.
Pensavo di non esserne più capace. Non ci credevo più, insomma. Invece mi sono ritrovato a immaginare i suoi gusti e a giocare con l’olfatto.
– Non ha proprio idea di quale profumo usi la sua compagna?
– No. L’ho appena abbracciata, però. Ce l’ho addosso, il suo profumo.
La commessa me li ha fatti provare tutti: dolce, aspro, leggero, pesante, fruttato, estivo, invernale, agli agrumi di Sicilia, ai frutti di bosco del Trentino…avrà pensato che stessi cercando la supercazzola dei profumi. Invece, cercavo il “suo” profumo. e alla fine l’ho trovato. Sono tornato a casa, contento come un pagliaccio e profumato come una bagascia d’alto bordo, immaginando le espressioni del suo viso. Fa quel sorriso soffocato a metà dall’imbarazzo che ha solo lei. Le farei dei regali solo per vederla sorridere così.
E’ solo mio, quel sorriso. E il suo modo di camminare.
Sì, ne sono innamorato, ma questo ve l’avevo già detto, e non voglio che pensiate di avere di fronte un romanticone tutto cuoricini e coccole, quindi ritorno a parlare di quella grandissima testa di cazzo di Andreino.
La festa iniziava alle 17 e io avevo impacchettato i regali in tante piccole scatole cinesi. Mi avvio verso casa sua e lo vedo venirmi incontro, insieme ad altri bambini. Si avvicina, esibendo un sorrisetto perfido ai lati della bocca. Capisco tutto, in un attimo: avevano festeggiato senza di me. E il regalo? Quel regalo costruito giorno dopo giorno? Che ci faccio? Me lo tengo? Me lo sbatto? Lo butto?
Glielo do lo stesso, senza dire niente.
Corro.
Piango.
Stringo i pugni.
La prima vera delusione.
Ho conosciuto la cattiveria negli occhi spietati di un bambino. Se fossi Buzzati, direi negli “spietati occhi”, per dare più forza al concetto, ma mi trattengo perché non ho lo spessore nemmeno della cugina di secondo grado, del buon Dino. Ho imparato a leggerli negli occhi, i sentimenti delle persone. L’ho imparato quel giorno. Mi perseguita, la sindrome di Andreino: regalare qualcosa di prezioso a chi non sa cosa farsene. Avere l’anima in festa quando la festa è finita. È accaduto talmente tante volte che ho perso il conto. E mi ha fatto sempre molto male, soprattutto quando ho regalato me stesso e ho donato amore a chi non sapeva come riceverlo.
Comincio a pensare che l’altruismo sia una colpa, ma non me ne frega una beneamata minchia: altruista sono e altruista rimango.
Ma torniamo ad Alberto. Dicevo che il regalo ce l’ho, la sacher pure… Le candeline!, cazzo, ecco cosa mancava. Devo cercare un tabaccaio per comprarle. Per il momento, mi godo i colori autunnali di Villa Borghese: sono stupendi. Mi fermo un attimo: proprio là, su quella panchina, il 10 ottobre di venti anni fa, io e Valeria ci stavamo baciando come due adolescenti. Avevamo davanti tutte le possibilità… se avessimo saputo che le avremmo sprecate tutte, forse ci saremmo comportati diversamente e ci saremmo salvati. Esserci al momento giusto, evitare rancori stupidi, smussare gli angoli per evitare di litigare per cose assolutamente inutili e, soprattutto, prolungare quello stato di felicità il più a lungo possibile: questo avremmo dovuto fare. Mi siedo un attimo su quella stessa panchina: a volte mi piace farmi cullare dai ricordi e dalla malinconia. Faccio finta di essere ancora quello là, il ragazzo di una volta. Per un attimo, al pensiero di tutte le cose belle che abbiamo vissuto insieme, vengo assalito dall’ansia. Poi, ripenso agli ultimi tempi, a quanto fosse diventato difficile dirsi anche buongiorno, e mi calmo. Penso che non l’amo più e che sto bene insieme a Daniela. Sono contemporaneamente triste e felice. È così, quando si costruisce qualcosa sulle macerie. Sopra c’è un bel palazzo, ma sotto restano cumuli di calcinacci. Mi sento come una ginestra che fiorisce in mezzo all’asfalto, senza passato e futuro. Fermarsi a riflettere è pericoloso, ci sono ferite che riprendono a sanguinare proprio quando sei sicuro che siano diventate cicatrici. La verità è che mi rifugio spesso nel passato perché così non corro rischi. Il presente e il futuro sono troppo pericolosi. Purtroppo, non bisogna mai fermarsi a riflettere perché un barboncino potrebbe approfittarne e pisciarti addosso.
– Signora, i cani si tengono al guinzaglio, porca di quella troia!
– Stia tranquillo, non morde…
– No, non morde, me ne sono accorto: piscia addosso della gente che se ne sta per i fatti propri a riflettere.
Capito perché si dice “fare le cose a cazzo di cane”? Me lo sento, quella stronza della padrona è sicuramente la donna che ha ispirato a Califano la canzone Piercarlino. Più precisamente, mi riferisco al pezzo in cui dice:
Quanno je scappa è sempre mattinata,
L’avesse mai ‘na vorta anticipata.
Spacca er minuto, ar primo chiaro ‘n cielo,
Pare che c’ha la sveja sotto ar culo.
Chi se lo scorda er compleanno tuo
“Comprami un cagnolino amore mio!
Gli starò dietro, ha la parola mia”!
Sei stata dietro a li mortacci tua.
Ecco, la stessa cosa che penso io: sei stata dietro a li mortacci tua. Non potevi tenertela vicino, quella vescica urinaria a quattro zampe? Scusate il francesismo, ma quando ci vuole ci vuole… Va’ a spiegarlo, stasera, questo odore di selvatico che mi porto addosso! Vado a comprare le candeline, è meglio…
– Due candeline, grazie. Un quattro e uno zero.
– ‘E candeline nun se usano più, è robba cartagginese. Je do ‘na bella fontana luminosa, vedrà che farà ‘n figurone, quanno l’accennerà!
Ammetto la mia ignoranza: fino a oggi non sapevo cosa fosse una fontana luminosa. Trattasi di una specie di candelina infiammabile dalla quale fuoriesce una pioggerellina colorata. Si sistema sopra alla torta, si accende e crea un’atmosfera allegra e festosa. Tutti battono le mani e intonano “tanti auguri a te, tanti auguri a te”. E io non posso non pensare a Gaber, in questi momenti, e a quello che non si fa per far finta di essere sani.
– Non sanno se ridere o piangere e batton le mani… Far finta di essere sani…
Canticchio, nonostante il pensiero del teatrino della vita mi abbia messo un po’ di tristezza addosso, che si è aggiunta alla riflessione interrotta dal quel cazzo di cane. A volte, mi sembra tutto inutile e mi sento inutile anch’io. Ci vorrebbe un cane che mi pisci addosso ogni volta che inizio a fare riflessioni cupe… a parte la puzza, smetterei di deprimermi, ma in poco tempo mi verrebbe l’artrite reumatoide .
A proposito, in casa di Alberto si sente un profumo chimico soffocante, che, mischiato con la puzza di piscio di cane, mi fa pensare all’abitacolo di una macchina in cui si mette l’Arbre Magique dopo aver pestato una merda. Sì, lo so, è un’immagine un po’ forte, ma in quanto a eleganza non me lo mette al culo nessuno.
Devo ammettere che Anna ha avuto buon gusto ad arredare casa: non c’è niente che sia fuori posto. Il divano in pelle fatto a mano, il mobile e la libreria in piuma di mogano, i quadri d’autore, il tappeto persiano: è tutto armonioso e ben disposto. Bravo Alberto, hai scelto proprio una donna di classe!, peccato che sia una trifolapalle da competizione.
Ah, che bella la ricchezza della lingua italiana.
Trifolare: Cuocere a fuoco vivace, con olio, aglio e prezzemolo, una vivanda tagliata a fettine sottili.
Palle: Testicoli.
Trifolapalle: Colei che cuoce a fuoco vivace, con olio, aglio e prezzemolo, le palle di un uomo tagliate a fettine sottili.
Anna è una campionessa olimpionica di questa specialità. Come trifola e affetta lei, non trifola e affetta nessuna donna al mondo. Fammi stare attento a quello che faccio, piuttosto: non ho nessuna intenzione di diventare l’oggetto del trifolamento serale. A occhio e croce, mi sembra sia tutto a posto: vino in fresco, tartine, antipasti, patatine, olive… lo vorrei anch’io un amico come me.
Suonano alla porta, chi sarà?
‘Stocazzo, risponderete voi, che avete la mente maligna. C’è poco da fare ironia. Non potete deridermi così, se prima non specificate il tono del pensiero. Avete posto più enfasi su “sto” o “cazzo”? Non è il momento di dare lezioni, ma la stessa parola può significare stupore o presa per il culo. Ok, nel vostro caso era una presa per il culo, come per dire “ chi vuoi che sia, ‘stocazzo?”.
– Luca? Come stai? Ma che ci fai qua? Anna dov’è?
‘Stocazzo!, dico io, stavolta, con l’enfasi su “sto” e l’intonazione stupefatta di chi si trova davanti al secondo e terzo posto olimpionico delle trifolapalle, Lucia e Martina, due amiche di Anna. Tre domande in una, per impicciarsi con “nonscialanz”. Vabbè, non so come si scrive e non ho voglia di cercare su internet. Torniamo alle due bagasce: se non puoi battere il nemico, confondilo…
– Lucia, Martina, siete uno schianto. Entrate e mangiate qualcosa, Anna e Alberto arriveranno tra poco…
Come no, proprio uno schianto, nel senso che preferirei schiantarmi al suolo con il bangigiaming piuttosto che darvi udienza. Siliconate di merda. Vi è rimasta solo la pianta dei piedi, al naturale.
– Valeria l’hai più sentita? Peccato che vi siete lasciati… eravate una bella coppia.
Peccato ‘stocazzo, tanto per rimanere in tema e rafforzare il mio disappunto: quella stronza mi ha rovinato la vita, non la voglio più vedere né sentire. Come potete osservare, il lato malinconico di qualche ora fa è stato prontamente sostituito da quello razionale. Per fortuna, suonano di nuovo alla porta e non faccio in tempo a rispondere alle due Barbie di Tor di quinto.
– Scusate, suonano di nuovo.
Mi avvicino alla porta e dico “Chi è?”.
Vi proibisco di pensare a qualsiasi parola inizi per “‘sto”.
– ‘Stocazzo – risponde Alberto, da fuori.
Ma allora è un vizio! Vi siete messi d’accordo? Questo racconto comincia a non piacermi: è pieno di gente volgare e maleducata.
– Non sei originale, socio, è roba vecchia. Lo diceva sempre anche mio nonna a mia nonna e la tradizione si è tramandata a mio padre e mia madre…
– Non mi dire niente che mi girano i coglioni a elica di overcraft: le feste di compleanno non le sopporto…
– Lo dici a me? Ti rendi conto che amici avete, tu e Anna? A parte il sottoscritto, s’intende…
– Lo dici a me? Io non ho amici, a parte il soprascritto. Le baldracche rifatte, gli avvocaticchi, le checche impazzite, i dirigenti de ‘sta minchia sono tutti amici di Anna.
Suonano nuovamente.
– Chi è – dice Alberto.
Lo guardo, per ricambiare la cortesia di poco prima. Non c’è nemmeno bisogno di proferir parola, basta il pensiero.
– Sono Anna, apri, amore…
E ti pareva che lei non doveva rovinare la poesia di questo momento? Impegnati Anna, puoi fare di meglio…
– Luca!, non mi piace per niente come hai apparecchiato. Ti avevo detto di usare le posate del servizio e di non spostare tassativamente nessun oggetto. Mi spieghi perché quella pianta è finita vicino al termosifone? E quell’unto sul piano cottura? Avrei dovuto supervisionare, lo sapevo
Ecco, ti ho detto che puoi fare di meglio e mi hai preso in parola. Allora, cominciamo col dire che nemmeno hai salutato e sei entrata in casa muovendoti all’impazzata come quei robottini a pile elettriche che andavano di moda negli anni ‘80. Cominciamo col dire che qualsiasi cortesia ti faccia una persona deve essere ricambiata almeno con un grazie. Cominciamo col dire che sono mesi che mi trifoli i coglioni con questa stracazzo di festa di Alberto. E ora passo alle premesse. Premesso che sei stata tu a volermi dare a tutti i costi questa incombenza. Premesso che non sai cucinare nemmeno un panino con olio e sale. Premesso che se non avessi spostato la pianta non ci sarebbe stato spazio per tutti. Premesso tutto ciò, vaffanculo.
– Anna, non esagerare come al solito…
Grazie, Alberto, bel modo di dire “non trifolare le palle altrui, accontentati delle mie”. Anche perché, nonostante la scarsa qualità degli invitati, sta andando tutto per il verso giusto.
Cioè, “stava” andando tutto per il verso giusto…
Adesso arriva il momento più idiota di una festa di compleanno, quello in cui bisogna appartarsi in gran segreto, per mettere le candeline sulla torta, fingendo che la torta non ci sia. Ditemi voi se esiste un rito più demente di questo. Si è mai vista una festa senza torta? No, non si è mai vista. Allora spiegatemi perché deve esserci tutto questo mistero… Il festeggiato non può avvicinarsi al frigorifero. Se disgraziatamente lo fa, è un dramma.
– Ecco, ha visto la torta. Sorpresa rovinata!
Ma siete completamente decerebrati? Quale sorpresa si rovinerebbe, dicendo “vado a mettere le candeline sulla torta”? Secondo voi, se uno entra in una pescheria deve fingere stupore mentre guarda l’occhio delle triglie, o può anche rilassarsi e pensare che sia normale? Sentiamo, cosa dovrebbe fare?, guardare il pescivendolo ed esclamare “Ohhhh, cosa ci fa questo strano animale dentro a una pescheria?”. Non vi viene il dubbio che nella testa del pescivendolo possa passare un pensiero simile a “ Ma ‘sto cojone c’è venuto da solo o ce l’hanno mandato?”. Ora, spiegatemi il motivo per cui si debba far passare il festeggiato per il coglione di cui sopra. Mettetevelo dentro quel cervello da criceti sottosviluppati che avete: non esiste al mondo una festa di compleanno in cui il festeggiato non si aspetti una torta. Chiaro?
Niente, devo prestarmi a questo gioco da imbecille. Anna mi fa un segno, mi alzo e andiamo in cucina. Esco la torta dal frigo. E non fate i pignoli: lo so benissimo che non si può scrivere “esco la torta dal frigo”. Per chi mi avete preso? Sarò un po’ incazzato per questi giochetti che sono costretto a sopportare o no? Posso prendermi qualche libertà linguistica, ogni tanto, o devo rendere conto ai lettori?
– Cos’è ‘sta roba?
– Come “cos’è ‘sta roba?”… non dirmi che non lo sai: è una fontana luminosa. Fa una pioggia colorata che mette allegria, crea un’atmosfera diversa dalle solite candeline e fa risaltare la pettinatura delle belle donne come te.
Quante stronzate sparo, pur di giustificare le mie bischerate… Si spengono le luci. Altra minchiata galattica. Cosa dovrebbe fare un festeggiato quando si spengono le luci? Un’espressione sorpresa? Dire “Ohhhhh non me l’aspettavo”. Taccio, che è meglio. Approfitto di questi secondi per mandare un messaggio al complesso rock che ho ingaggiato: quella si che è una sorpresa, non questa scenetta di merda.
“Tra un minuto, potete suonare il pezzo di apertura”.
Ho la torta in mano, cammino nel buio come una quaglia, mentre Anna accende lo stoppino., che si consuma velocemente come in un cartone animato di WIlly il coyote.
– Tanti auguri a te, tanti au…
Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu.
Oddio! Da dove proviene questo fischio agghiacciante? Sarà l’attacco del gruppo rock? No, proviene da questa fottuta fontana luminosa. Adesso che faccio? Prima di tutto, sto calmo, mica posso mettermi allo stesso livello di questi coglioni, che scappano nella stanza da letto come formiche impazzite. Anzi, faccio un sorriso tranquillo e sornione e li rassicuro. Ho le palle, io.
– Ma dove scappate? È una fontana luminosa ed è sicurissima. Possibile che non ne abbiate mai vista una? Ora farà una semplice e innocua pioggerella colorata…
Innocua ‘stocazzo, tanto per non perdere la tonalità aulica del racconto. Non faccio in tempo a finire la frase che si sente un botto in stile “bomba di San Gennaro” e parte una palla infuocata che si schianta sul soffitto. La pioggia in effetti l’ha fatta, ma è incandescente, e mi cade addosso in tutto il suo infuocato splendore. Dio, che dolore, i lapilli mi entrano nel cranio e mi perforano il cuoio capelluto.
Sono tutti in preda al panico, ma io non cambio di un millimetro la mia impostazione rassicurante. Fermezza, nervi saldi e un altro sorriso finto, lo stesso che, nella vita, mi sono ritrovato spesso a mostrare agli altri, per nascondere il mio dolore e i miei pensieri. Quello che da oggi in poi chiamerò “Il sorriso da fontana luminosa”. Dentro muori, ma non dai la soddisfazione di farlo capire. Lo so, non si può morire dentro e sorridere così.
Ecco, ci mancava la botta nostalgica, in questo momento. Ripenso a Valeria e all’ultima volta che ci siamo visti. Avrei avuto voglia di baciarla, era bellissima e stava già insieme a un altro. Non mi aveva detto nulla, ma io già lo sapevo. Nella testa mi risuonavano le parole di Gianni Bella.
E aveva ragione Gianni: stavo morendo dentro e sorridevo. Se penso a quante volte sono stato costretto a morire dentro, e a sorridere, mi viene da piangere. A sorridere così, col mio sorriso da fontana luminosa, mentre il mondo mi crollava sotto ai piedi. Avrei potuto farcela, se non avessi amato. Avrei potuto farcela, se avessi incontrato le persone giuste. Avrei potuto farcela. E forse ce l’ho fatta, se sto qui a raccontarvi le mie storie e a strapparvi qualche sorriso. Mi scendono le lacrime, non so se per i lapilli o per il male che mi ha fatto Valeria. Due sofferenze diverse, che fanno piangere nello stesso modo. Ma io sono quello che sorride al dolore e fa finta che non esista.
– Avete visto che bella pioggia colorata? Venite qua e mangiamo la torta…
Dico, contento di aver superato il dramma. Macché superato… i drammi non vengono mai da soli. Altra sequenza mortale: fischio, botto e palla di fuoco. Verde, stavolta.
Per fortuna, il gruppo musicale ha iniziato a suonare. Peccato che il pezzo sia Great balls of fire, la canzone di Jerry Lee Lewis, quella preferita da Alberto. Ti piace Jerry, caro Alberto? Ti piacciono le great balls of fire? Adesso attaccati al gancio in mezzo al cielo di Baglioni. Non sembra una festa di compleanno, sembra una rivolta studentesca del ‘68.
Si sente il suono indiavolato della tastiera e il cantante che grida Goodness gracious, great balls of fire.
Che tradotto può assumere diversi significati, in base a come viene interpretato Goodness gracious: Santo cielo, Bontà divina, Per grazia di dio.
Caso 1) Santo Cielo, grandi palle di fuoco. No, Santo Cielo non è l’espressione adatta per questa situazione. Semmai ci starebbero meglio un paio di bestemmioni, ma capisco che non è il caso di perdere il controllo e far scomunicare me e l’autore dal Vaticano.
Caso 2) Bontà divina, grandi palle di fuoco. Bontà? Pensa tu se dio fosse stato cattivo… Cosa avrebbe fatto? Avrebbe lanciato un asteroide a tutta velocità sul palazzo e sterminato i condomini? Ecco da dove deriva la mia diffidenza nei confronti di chi dice “dio è buono”. Ancor più diffidenza la provo nei confronti di chi dice “dio ti guarda”. Se mi sta guardando, in questo momento, perché non si fa una manciata di cazzi suoi e volge lo sguardo altrove?
Caso 3) Per grazia di dio, grandi palle di fuoco. Grazia di dio, questa mi piace. Quindi, le grazie di dio sarebbero queste. Pensate a quanto sono antico: non solo non sapevo che le fontane luminose avessero preso il posto delle candeline, ma ero convinto che le grazie di dio avessero uno stampo più classico, tipo il cieco che acquista improvvisamente la vista o lo storpio che riprende a camminare normalmente. Invece no, tra le grazie che dio può fare, ci sono anche le palle di fuoco. Che culo! Mi è capitata la migliore, quella più richiesta. Chi non vorrebbe una grazia di dio simile? Per chi avesse rapporti con gli intermediari di dio, faccio presente che a me sarebbe bastata una Grazia di dio con le fattezze di una fotomodella: non capisco queste manie divine di strafare sempre.
Ma poi, come funziona, esattamente? Una grazia corrisponde a una palla? No perché se è così io sto già alla seconda… Dio, non si poteva, che so, come seconda grazia, farmi vincere qualche milioncino? Niente da fare, devo gestire bene questa dose di fortuna ed evitare un’altra doccia infuocata. Col cazzo che direziono la torta verso il soffitto., stavolta Miro al lampadario di Murano, è meglio. Ora si comincia a ragionare: la palla di fuoco colpisce il lampadario e disintegra quegli odiosi pendoli lavorati a mano, poi, rotola sul mobile in piuma di mogano, ricade sul divano, sul tappeto, incendia tutto e… gooooooooooooal! Sono o non sono meglio di Nando Martellini, per la precisione con cui faccio le radiocronache? L’assedio alla Bastiglia, in confronto al casino che ho armato, è la merenda dei bambini dell’asilo. Se non fosse per la colonna sonora azzeccatissima, e per il fatto che in tutto questo c’è lo zampino delle grazie di dio, ci sarebbe da preoccuparsi, a vedere la faccia imbufalita di Anna. Guarda com’è incazzata, mentre cerca di domare l’incendio…
Non voglio finire fuori tema, cioè, fuori racconto: stavamo parlando di grazie, giusto? E quante sono le grazie famose?
Una? Nooooo!
Due?Nooooo!
Sono tre, lo sapete benissimo. Infatti, la terza grazia non tarda a palesarsi. Fischio, botto e great ball of fire. Non posso sparare sugli invitati, anche se ne avrei una gran voglia. Mi tocca mirare verso il corridoio. Lo faccio con disinvoltura, mantenendo il mio bel sorriso da fontana luminosa. Azzarderei anche un bel “Tranquilli, non può succedere nulla”, dando seguito al consiglio dei saggi di negare sempre l’evidenza, ma non mi sembra il caso. Ammetto che qualche piccolo inconveniente questa fontana luminosa lo sta creando. La terza palla di fuoco è azzurra: un omaggio ai laziali che sono in sala. Dopo tutto il giallorosso dell’incendio, bisogna anche accontentare la tifoseria avversaria. Non avevo mentito, quando ho detto che le fontane luminose rendono l’atmosfera diversa. Il panico può considerarsi allegria? No, forse no, è più simile all’euforia… quindi, direi che le fontane luminose trasmettono euforia. E non potete immaginare a quale livello sia arrivata l’euforia, quando la terza grazia è passata a un soffio dai capelli di Anna, li ha incendiati e si è schiantata sul letto dove, per definizione, si ripongono le giacche degli ospiti. Il panic… ehm… l’euforia è finita fuori controllo e qualcuno ha fatto un gesto folle: chiamare i Vigili del Fuoco. Ma vi pare? Per qualche fuocherello nella sala da pranzo e nella stanza da letto è il caso di scomodare le autorità? Basta, non ne posso più di questo pessimismo e dei regali non graditi. Cosa c’entro, io, se quel figlio di mignotta del tabaccaio ha sostenuto a più riprese che le fontane luminose sono sicurissime? Cosa avrei dovuto fare? Non avrei dovuto fidarmi? Avrei dovuto rifiutare le grazie, quando è risaputo che le grazie del Signore non si rifiutano mai? Avrei dovuto mirare meglio? Avrei dovuto farmi i cazzi miei che, alla fine, è sempre la soluzione a ogni problema? Avrei dovuto farcela, questa è la verità. Avrei dovuto farcela.