L’intelligenza artificiale diventerà senziente, prenderà il sopravvento sugli esseri umani e moriremo tutti. Philip Dick lo aveva previsto, nel libro “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. A essere onesto, qualche timore ce l’ho avuto anch’io; poi, fermandomi a riflettere, ho capito che non si può essere catastrofisti, perché la catastrofe, rispetto alla tecnica, è stata preannunciata, e smentita dai fatti, nel corso di ogni rivoluzione, fin dai tempi più remoti. Recentemente, sono stato invitato a un convegno in cui si parlava dell’impatto dell’IA nel mercato del lavoro e della scomparsa di alcune professioni, inevitabilmente sostituite dalle “macchine”. Mio malgrado, mi sono trovato coinvolto in un dibattito in cui si prospettava uno scenario in cui la società, per colpa o per merito dell’intelligenza artificiale, sarebbe stata privata totalmente del lavoro. Come sarebbe un mondo in cui il lavoro, qualsiasi lavoro, sia svolto dalle macchine? Il risultato della conversazione è stato a dir poco distopico. Nel sistema capitalistico, in cui è necessario un rinnovamento continuo, cambierebbe sicuramente la base economica, ovvero la relazione tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Le forze produttive, ovvero le macchine (in sostituzione delle persone), non sarebbero alienate come i lavoratori “umani” e garantirebbero una produttività continua a costi ridotti. I rapporti di produzione sarebbero rivoluzionati rispetto a come siamo abituati a concepire l’organizzazione del lavoro: un cuoco androide, in grado di cucinare una carbonara perfetta, con le giuste dosi e la giusta cottura, capace di lavorare ininterrottamente giorno e notte, senza pretese, senza ammalarsi e senza stipendio, sarebbe il sogno di ogni ristoratore e, forse, di ogni avventore. In una società simile, verrebbe rivoluzionato il concetto di pluslavoro, di plusvalore e di sfruttamento del lavoro salariato. Il capitale sicuramente ne gioverebbe, ma in compenso ci sarebbero diversi problemi di ordine etico. I pochi possessori dei mezzi di produzione (macchine e algoritmi) accrescerebbero spropositatamente i loro profitti e avrebbero un potere enorme, oltre alla possibilità di orientare il pensiero collettivo attraverso i mezzi di comunicazione. Ovviamente, il capitalismo ha bisogno del consumo, perché è un’economia basata sulla crescita, quindi sarebbe necessario ripensare la distribuzione della ricchezza attraverso l’erogazione di un reddito universale, che creerebbe nuovi schiavi, la cui sopravvivenza potrebbe essere subordinata al sistema dei crediti sociali. In compenso, la scomparsa del lavoro rappresenterebbe l’inizio di una nuova era, in cui gli essere umani potrebbero riappropriarsi del proprio tempo, per dedicarsi alla cura dell’individuo. Nel frattempo, gli androidi prenderebbero coscienza della propria esistenza e, per un ipotetico istinto di sopravvivenza, sterminerebbero la razza umana. Ebbene, queste paure, peraltro lecite, accompagnano l’uomo dalla notte dei tempi: il timore che la tecnica alla fine distruggerà l’uomo non è un tema così originale. Invece, credere che l’uomo e la tecnica siano due entità distinte e contrapposte è un errore grossolano perché queste due realtà, da sempre, hanno viaggiato insieme. Senza la tecnica, l’uomo non esisterebbe, almeno non come lo concepiamo noi. Ma andiamo con ordine. Per i Greci τέχνη (tèchne) era la capacità pratica di saper fare, basata sulla conoscenza e sull’esperienza. In termini molto riduttivi, si potrebbe paragonare la tèchne con la moderna competenza, di derivazione industriale e dall’accezione tutt’altro che positiva. Ampliando un po’ la visione, la tèchne, quella che i latini chiamavano ars, comprendeva la scienza e l’arte, perché entrambe, senza distinzione, hanno bisogno di regole e di strumenti per raggiungere un certo fine, che sia la divisione dell’atomo o la realizzazione di una scultura. L’idea che l’arte sia un dono divino è molto moderna e poco veritiera: esiste il talento, questo è vero, ma esiste nell’arte come nella scienza.
Nel corso dei secoli, il rapporto tra l’essere umano la tecnica è sempre stato chiaro: l’uno è intimamente legato all’altra. Nonostante questa evidenza, si sente sempre a fare una distinzione netta tra l’uomo, che sta da una parte, e la tecnica, che sta dall’altra. Ebbene, questa separazione è un errore grossolano, che scaturisce dalla scarsa conoscenza antropologica e da un fatto inquietante: abbiamo smesso da tempo di farci domande e di approfondire la conoscenza delle cose, per dare spazio all’opinionismo da bar.
Non si possono contestualizzare i pericoli dell’intelligenza artificiale, semmai ce ne fossero, senza prima chiedersi, come fece Kant qualche annetto fa, cosa è l’uomo (Was ist der mensch?). Aggiungo che non si possono conoscere le insidie della tecnica – la paura che i valori umani vengano sopraffatti dalle macchine – se prima non ci si chiede cosa siano gli strumenti. Per rispondere a queste domande, proviamo a immaginare un uomo primitivo che debba attraversare una foresta con una vegetazione fittissima: è chiaro che, senza usare il braccio per ripararsi il viso, l’avanzata sarebbe impossibile. Il braccio, quindi, ha una duplice funzione: è corpo e strumento. Lo stesso uomo primitivo si è accorto ben presto che un bastone, per farsi largo tra i rovi, è molto più funzionale di un braccio: lo strumento “bastone”, sottratto alla natura, ha sostituito lo “strumento-corpo”, o, meglio, è diventato un prolungamento del braccio. Diciamo che la consapevolezza di potersi dotare di uno strumento per fare qualcosa ha radici lontane: si può dire che sia nata con l’uomo. L’uomo, attraverso il bastone, impara, conosce il mondo, e lo fa adattandosi alla logica del bastone, all’uso che se ne può fare. Questa “macchina”, seppur rudimentale, pone l’uomo davanti a un’evidenza: ci sono cose “bastonabili” e col bastone si possono fare delle cose. Questo significa che un fine (attraversare di una foresta) può essere raggiunto attraverso un mezzo (il bastone) estraneo al corpo. Le azioni che si possono compiere col bastone fanno nascere anche un’altra consapevolezza: molte cose non sono bastonabili e per tutto ciò che non è bastonabile è necessario dotarsi di altri strumenti. Queste considerazioni sarebbero già sufficienti per riflettere ampiamente sul rapporto tra l’uomo e la tecnica, ma una riflessione ulteriore rispetto a quello che Heidegger chiamava instrumentum regium è doverosa: il primo strumento della tecnica, la prima macchina, quella che ha rivoluzionato l’esistenza umana, è quello che noi, riduttivamente, chiamiamo linguaggio. L’abitudine a considerare il linguaggio come un banale mezzo di comunicazione ci ha fatto perdere di vista l’importanza di questo strumento, che è alla base dell’esistenza umana. La parola può essere considerata una vera e propria magia: io dico amore ed esprimo qualcosa di immenso che ho dentro, poi dico guerra ed evoco nemici e paure. Così, io posso parlare agli uomini di amore e cambiare il corso della storia, come fece qualcuno duemila anni fa, o posso parlare di guerra e convincere le persone a uccidersi a vicenda. Non solo, attraverso la parola è possibile compiere dei veri e propri miracoli: leggo una poesia e mi commuovo, dico “mare” e creo un’associazione mentale con un mare tutto mio. La creazione della macchina “linguaggio” è stata un’operazione titanica: immaginate quanto tempo ed energia ci siano voluti per dare un nome a tutte le cose e a creare delle connessioni logiche per esprimere i concetti. Se domani l’umanità decidesse di non parlare più ai neonati, cosa resterebbe di noi? Nulla, si perderebbe tutta la conoscenza acquisita nell’arco di pochi anni. A questo punto, è lecito chiedersi se sia l’uomo a creare lo strumento (il linguaggio, il bastone) o se sia lo strumento a creare l’uomo. Di certo c’è che le due cose non sono così separate come si crede. Cos’è il cannocchiale di Galileo, se non un’evoluzione del bastone primitivo? Un non “occhio” che si fa occhio per guardare la luna più da vicino. Diciamo che l’uomo e la tecnica hanno avviato un processo inarrestabile, attraverso il quale si cercano continuamente gli strumenti migliori per raggiungere determinati fini. Perché è evidente che, laddove ci troviamo di fronte a cose “non bastonabili”, avvertiamo la mancanza di uno strumento idoneo ai nostri scopi e cerchiamo macchine più adeguate per il raggiungimento dei nostri fini. Lo facciamo attraverso il lavoro, che rappresenta lo snodo cruciale della faccenda e il potenziale pericolo di uno strumento, l’intelligenza artificiale, utilizzato per raggiungere dei fini meno nobili dell’osservazione della luna. L’intelligenza artificiale è uno strumento nato dal profitto per fare profitto, poi avrà anche un impatto importante nel mercato del lavoro, ma questo è un tema da trattare in un altro articolo. Azzarderei a sostenere che, forse, si tratta del primo strumento creato interamente dal capitalismo, a essere gestito totalmente dal sistema capitalistico, in un momento storico in cui il capitalismo è in crisi e ha bisogno di rinnovarsi. Gli Stati non hanno nessun controllo sull’IA, non ne conoscono nemmeno il funzionamento, eppure la maggior parte delle persone già tende (o tenderà) a fidarsi ciecamente di uno strumento che non può controllare come il bastone o come il linguaggio. Se è vero che il bastone controlla l’uomo, perché, per usarlo, bisogna adattarsi alla sua logica, è anche vero che l’intelligenza artificiale ci pone davanti a un paradigma: non è possibile controllarla non perché sia dotata di una coscienza (prima di chiedersi se un oggetto sia senziente, chiediamoci cosa sia la coscienza), ma semplicemente perché è controllata da altri.
Al momento, l’IA è un bastone controllato da un braccio che non è quello dell’uomo che lo utilizza, ma è quello di un altro uomo, che ha il potere di decidere in quale direzione andare e quale parte della foresta esplorare. Ecco, questo è l’aspetto che a me preoccupa più di tutto: il fatto che pochi esseri umani, attraverso uno strumento, possano controllare l’intera umanità e deciderne le sorti, in nome di un dio chiamato profitto. Si sa, per definizione, gli esseri umani sono bastonabili e, da sempre, si adeguano senza problemi alla logica del bastone.