Ci sono giorni in cui i ricordi e la malinconia hanno la meglio sulla mia ostinata razionalità. Non so se dipenda da questioni genetiche, ovvero da un dna difettoso ereditato dai miei genitori, o dalle circostanze che si accaniscono contro di me. In effetti, mia madre è sempre stata una donna euforica e piena di vita, mentre mio padre un uomo triste e malinconico: il risultato non poteva che essere un figlio bipolare, che passa dall’allegria al pianto senza motivo. Basta un alito di vento o una scena già vissuta e il respiro comincia a mancarmi. In un attimo cambio umore e vengo sopraffatto da pensieri angoscianti, riflessioni, rimpianti, nostalgie, sensazioni di vuoto e chi più ne ha più ne metta. Quando accade, non riesco a stare chiuso in casa, devo uscire. Esco e cammino per ore. Oltrepasso il porto e arrivo fino alla darsena dei pescatori. La sorpasso e raggiungo il faro. Secondo me è stato messo là apposta. Mi aspetta. Sta lì per dirmi “Dove cazzo sei stato tutto questo tempo? Vieni da me solo quando stai male, eh? Ma io sto sempre qua. Ti aspetto. Non ti mando via. Dai, racconta, che t’è successo? Ti servono risposte o domande?”. Tutti i fari sono così. Per raggiungerli, devi camminare parecchio e quando sei arrivato hai di fronte solo il mare. E dietro la strada che hai percorso. I fari sono una metafora dell’esistenza. Quando un marinaio è in mezzo alla tempesta, cerca un porto in cui mettersi al sicuro. E dove c’è un porto c’è un faro. Chi non ha mai provato cosa significhi entrare in uno specchio d’acqua piatta, dopo aver navigato in mezzo a una burrasca, non può capire cosa si provi. Il sale addosso, i nervi tesi, la paura e improvvisamente la tregua. Ci vuole qualche giorno per riprendersi da quello stato. Poi, piano piano, la burrasca perde la sua forza emotiva e diventa una storia da raccontare agli amici. Esagerando, anche. Facendo finta che sia stato un gioco. Fingendosi coraggiosi e spavaldi. Sminuendo. E quasi sempre, dopo lo scampato pericolo, torna la voglia di ripartire. Quasi sempre. Il faro è sempre là, soltanto che quando parti non segnala il posto sicuro in cui andare, ma il posto sicuro che stai lasciando e quello ignoto verso il quale sei diretto. Guardi dietro e vedi la strada che hai fatto per raggiungerlo, guardi in avanti e vedi un mare immenso, pieno di opportunità. Di insidie. Di bellezza. Un mare che promette tutto e mantiene le promesse: quiete e tempesta. Tu lo sai. Lo sai e parti lo stesso. E ogni volta, quando non sai come metterti al sicuro, ti trovi a dire “perché cazzo non sono rimasto in porto?”. Oggi non so cosa sia successo. Ho pensato per un attimo a lei, a quello che ne è stato di noi, a come ci siamo persi senza fare niente per restare, e quel pensiero, come un gomitolo di lana che cade improvvisamente a terra, ha srotolato un chilometro di altri pensieri indesiderati, alcuni belli e alcuni orrendi. Amore sprecato. Buttato via. Non apprezzato. Non custodito. Perso. Pensieri che si incastrano tra loro sempre in modo differente, per suscitare ogni volta emozioni e sentimenti diversi. Oggi il cielo è anche nuvoloso. Promette compagnia alle lacrime di qualche sfigato depresso che non vuole piangere da solo. E che posso perdermi una buona compagnia? Che poi, a dire la verità, non sono né sfigato e né depresso. Direi più che altro malinconico. Le cose non vanno così male. Sono un po’ come quella barca a vela che sta rientrando lentamente in porto col motore acceso e le vele arrotolate. Procedo con cautela e tengo le vele chiuse per non prendere più nemmeno un soffio di vento. Così non rischio di rimanere come un coglione quando il vento sparisce. Il suono del motore diesel è monotono e rassicurante. Mi ricorda mio padre e il suo gozzo. E io bambino. Sento la stessa puzza dei fumi di scarico: scommetto che quella barca monta un Renault RC18D. Gran motore, quello. Non si fermava mai, nemmeno davanti al mare incazzato. Non come me, che mi sono fermato non so quante volte e sono stato sempre impreparato a tutto. Tipo adesso, che non so dove andare e sto fermo. Perché se mi muovo son cazzi. Ho un nodo in gola e non so nemmeno perché. Forse è colpa di Guccini e della sua Canzone delle domande consuete. Le playlists casuali hanno un potere straordinario: nella mischia, scelgono sempre il brano più indicato a descrivere il momento che stai vivendo.
Tu lo sai, io lo so, quanto vanno disperse
trascinate dai giorni come piena di fiume
tante cose sembrate e credute diverse
come un prato coperto a bitume.
Rimanere cosi’ annaspare nel niente
custodire i ricordi, carezzare le eta’
e’ uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente
del diritto alla felicità
Se ci sei, cosa sei? Cosa pensi e perché?
Non lo so, non lo sai; siamo qui o lontani?
Esser tutto, un momento, ma dentro di te.
Aver tutto, ma non il domani.
Non andare… vai. Non restare… stai.
Non parlare… parlami di te.
Faccio sempre così. Cammino, ascolto la musica fin quando non capita qualcosa che mi mette malinconia. Alla fine spengo la radio, mi incazzo con me stesso e mi dico che in certi posti bisogna stare in silenzio. Ma ormai il danno è fatto. Tanto vale ripensare alla canzone e riflettere un po’.
Sono impantanato tra un presente monotono e rassicurante, un passato deludente, che continua a influenzare le mie scelte e non la smette di violentare il mio desiderio di stare bene, e lei. Il soffio di vento. Quel tarlo che ha messo di nuovo tutto in discussione. Quella che vuole stare dentro a tutti i costi. Non importa come e nemmeno perché. Quella che si ostina a dire “issa queste cazzo di vele, che si parte insieme”. E io sto qua, fermo, senza sapere cosa fare. Come sempre. Senza sapere dove andare. Con la paura di sbagliare ancora. Prigioniero di una fine che non vuole finire e di un inizio che non so se e quando inizierà. Tristezza per ciò che è finito, perché lo so che non potrà essere più niente se non un ricordo dolce, ed emozione fuori controllo per qualcosa che sta nascendo, nonostante faccia di tutto per impedirlo. Sensazione di vita irrisolta e voglia di speranza soffocata dai rimpianti. Indeciso. In perenne equilibrio tra i voglio e i non voglio, tra i faccio e i non faccio.
Mi chiedo come ho fatto a ridurmi così, ad avere paura della bellezza.
Di due occhi disarmati più dei miei.
Non è giusto. Non è giusto.
Un lampo rosso. Un saluto.
Combinazioni a cui attribuisco dei significati completamente inventati. Coincidenze. Scommesse sceme tipo “se il faro si illumina quando quella barca passa vicino a quel pescatore faccio così, altrimenti faccio colà”. Tanto lo so che non faccio niente comunque. Mi fermo. Mi dico parole rassicuranti, rispondo alle mie domande, dopo aver valutato attentamente ogni singola possibilità. Risposte inutili a domande inutili. Dico qualcosa a voce alta, per rompere il silenzio. Il vento soffia forte e si porta via le parole sospese in aria, domande e risposte comprese. Respiro. Chiudo gli occhi. Ho così bisogno di una carezza, in questo momento. Ma non c’è nessuno. Come al solito. Lascio fare al vento e alla salsedine. Resto così, a occhi chiusi. E aspetto.
– Signore? Signore, si sente bene?
Un uomo sulla settantina mi si è avvicinato e non me ne sono nemmeno accorto.
Sì, sto bene, grazie.
Rispondo con tono cortese e distaccato, mentre penso “Questo è venuto a rompere il cazzo nel momento meno opportuno. Non ce l’ho scritto in faccia che voglio stare da solo?”.
Pausa.
Silenzio.
– Bello, vero?
– Sì, è molto bello.
Vengo qua spesso, specialmente col cattivo tempo. È una specie di droga…
Tra le infinite opportunità che potevano prospettarsi, si è verificata la peggiore: un vecchio nostalgico rompicoglioni che vuole avviare una conversazione sulle condizioni meteo marine e sulla faro dipendenza. Spero si tolga presto dalle palle e mi lasci da solo. Desiderio esaudito: si allontana di qualche metro, si siede su uno scoglio e inizia ad armeggiare col telefono. E ad ascoltare musica.
Un nonno tecnologico, penso.
Tendo l’orecchio per capire cosa stia ascoltando.
Lo faccio sempre. Desiderio irrefrenabile di non farmi gli affari miei.
Dimmi che musica ascolti e ti dirò chi sei.
Scinne cu ‘mme
nfonno o mare a truva’
chillo ca nun tenimmo acca’
vieni cu mme
e accumincia a capi’
comme e’ inutile sta’ a suffri’
guarda stu mare
ca ci infonne e paure
sta cercanne e ce mpara’
Murolo.
Roba retrò da nostalgici.
ah comme se fa’
a da’ turmiento all’anema
ca vo’ vula’
Mia Martini.
Lo vedo piangere coi singhiozzi. Senza ritegno. Come chi ha perso tutto e gli rimane solo un faro e una canzone. Lacrime che scendono da sole, senza nemmeno la compagnia di quella pioggia promessa qualche ora fa.
Mi sento una merda.
Io ho ancora tutte le opportunità, lui no.
Mi avvicino, timoroso.
Vinco la resistenza di interrompere la sua sofferenza.
Chi soffre vuole stare solo, penso.
– Andiamo via. Le offro un caffè. Con questo freddo, qualcosa di caldo ci vuole.