Puttana è stata la prima parola che Amina ha imparato appena arrivata in Italia. All’inizio pensava fosse un complimento. Forse perché il suono somigliava a putera, che in Sudan significa principessa. Ciao principessa, così l’aveva salutata suo padre, prima che partisse per sempre dal suo paese. Aveva venduto i suoi terreni, e avrebbe venduto anche i suoi organi, per dare alla figlia la vita che lui non aveva avuto. In Italia starai al sicuro, le diceva. Là non c’è la guerra, potrai trovare un lavoro e avere una vita normale. Aveva sentito parlare di un paese in cui c’era posto. Il paese degli ultimi. Un posto in cui vivere senza rinunciare alla propria cultura, anzi, vivendo grazie a quella. Gli abitanti, povera gente del Sud, anziani che ormai avevano perso le speranze, li accoglievano. Si sentivano più giovani. Migliori. Il paese era tornato a vivere, era diventato di nuovo bello. Un posto in cui restare, non da cui partire. In ogni vicolo si sentiva una musica diversa, lontana, suoni nuovi che non erano italiani, ma erano belli, vivi. Ricordavano il mare e il deserto. Le donne indossavano vestiti colorati, forse per nascondere gli orrori vissuti; una pennellata di felicità sulla porta di un armadio pieno di dolori. Perché quella era la loro nuova vita e nessuno poteva più sporcarla. Per le strade si ballava. E si rideva.
Senza barriere.
Senza confini.
Senza paura.
Tutti insieme.
Ognuno aiutava come poteva. C’era chi sistemava le case abbandonate dai migranti calabresi affinché potessero accogliere altri disperati, più disperati di quelli che erano partiti, e chi aveva imparato a fare il caciocavallo. Chi raccoglieva i rifiuti, facendosi aiutare da un mulo, perché i i mezzi di raccolta erano troppo grandi per passare in quei vicoli stretti, e chi accudiva gli anziani abbandonati dai figli, ma non dai migranti. C’erano uomini, giovani e vecchi, che giocavano a carte nei bar e bevevano vino, e donne che si confidavano segreti come bambine. C’erano storie d’amore e di morte, ricordi lontani e qualcuno da rimpiangere. Era lì che Amina voleva andare. Era quella l’Italia che immaginava. Dolce e accogliente. E lei, con i suoi sedici anni, aveva avuto una fiducia infinita nei racconti del padre. Nella valigia aveva messo la pagella, perché non si sa mai, può sempre servire per dimostrare chi sei e quanto puoi essere utile agli altri, il libro Piccole donne e qualche vestito. Tranne quello buono, che aveva indossato prima di partire per fare bella figura e per nascondere la sua povertà. La prima violenza, cruda, bestiale, l’aveva subita prima di imbarcarsi. Era stata violentata da tre animali che avevano già incassato i soldi del viaggio, ma volevano prendersi gli interessi senza chiedere il permesso. Era rimasta a terra sanguinante e se non si fosse alzata per raggiungere il barcone sarebbe rimasta là. Nessuno si era intromesso, nessuno l’aveva aiutata. Erano tutti troppo impauriti, ognuno col suo carico di dolore a cui pensare, e non volevano avere altri problemi. Che l’indifferenza al dolore e la paura degli altri fossero un problema, invece, l’avrebbero imparato nel peggiore dei modi: subendo lo stesso trattamento da parte degli italiani. Indifferenza al loro dolore e paura della diversità. Da anni, le falsità raccontate dal Ministro dell’interno e dell’odio avevano dato i loro frutti malati: le persone si erano lasciata riempire di paure e di menzogne con la stessa inerzia di un tacchino a cui viene tagliata la testa per farlo ripieno. Ormai erano convinte che la causa della loro povertà fossero i più poveri e non i più ricchi. E che la soluzione alla povertà fosse una questione di egoismo e non di condivisione.Brutta cosa, la politica. D’altronde, ogni notiziario era diventato un manifesto della paura, venivano sbandierate invasioni inesistenti, numeri inventati di sana pianta, pericoli di ogni genere, furti di soldi e di identità nazionali: cos’altro può fare una persona, in preda al terrore e incapace a guardare la realtà, se non odiare con tutto il marcio che ha dentro chi in realtà sta peggio? Il prezzo di quella politica scellerata, che aveva distrutto la parte migliore degli italiani, il ministro l’avrebbe pagato caro qualche tempo dopo. Perché c’è sempre un preciso momento, nella storia, in cui l’odio avvelena chi l’ha seminato. Amina in quel paese non c’è mai arrivata: è stata comprata, venduta, stuprata, umiliata, rivenduta e ricomprata. Tante, troppe volte. Puttana, le diceva la gente. Puttana, le urlavano e quei clienti violenti che a volte la picchiavano; belve assetate di quell’amore che non sarà mai amore. E lei, tra le lacrime, pensava al suo paese e a suo padre, che da bambina le diceva che l’amore avrebbe salvato gli uomini. E pensava a quell’ultimo saluto: ciao putera, ciao principessa.