Alla fine, ci sono caduto anch’io e mi sono scritto uno spettacolo teatrale su misura.
Sono stupido all’anca è uno spettacolo ironico e dissacrante, in cui, attraverso l’ironia, per l’ennesima volta, non si darà risposta alla domanda che si pongono gli esseri umani da quando hanno messo piede sulla terra: “Cosa è verità?”. E se non ci sono riusciti fino a oggi, un motivo ci sarà… A tenere il filo di questo treno di legno è lui, il filosofo dei filosofi: Nice… no, Nicce…, no, Nietzce (cominciamo bene!). Su, se mi concentro ce la posso fare… Nietzsche!, i baffi col filosofo intorno.
Accanto a Nietzsche, ci saranno Pirandello, Schopenhauer, Pilato, Guccini, Bulgakov, Gesù e De Andrè, che aggiungeranno alla storia maschere, metonimie, demoni, profeti, condanne, perdoni, caos e perfezione. Alla fine, la risposta alla domanda “Che cosa è verità?” non potrà che essere una, netta, definitiva e universale: “Boh!”.
Tutto ciò che chiamiamo reale è fatto di cose che non possono essere considerate reali. A giusta ragione, questa frase di Niels Bohr viene considerata la risposta moderna alla domanda che si pongono da millenni i filosofi e i fisici: cosa è reale? Gli anni che vanno dal ‘600 al ‘900 sono stati scientificamente fertili e fecondi. All’eterno dilemma su cosa sia reale e cosa non lo sia, hanno risposto Galileo, Newton, Spinoza, Gauss ,Hegel, Marx, Schopenhauer,Nietzsche, Einstein, Bohr, Planck, Heisenberg e Fermi… solo per citarne alcuni. Sta di fatto che la conclusione a cui è giunta la fisica quantistica è sintetizzata efficacemente in quella frase pronunciata da Bohr. Conclusione che continua ad avere sostenitori e detrattori, come è sempre accaduto per i paradigmi scientifici che si sono susseguiti nel corso dei secoli. Il calcolo differenziale e la statistica, in questo processo verso la conoscenza, hanno avuto un ruolo determinante, perché hanno permesso, tra le altre cose, di dare un senso all’infinito filosofico e all’indeterminazione atomica. Uno dei capisaldi della meccanica quantistica è proprio il principio di indeterminazione di Heisenberg, sintetizzato dalla relazione ∆x * ∆p ≈ h/2π, la quale, per i non addetti ai lavori, significa che la misura precisa della posizione, o della quantità di moto, di una particella implica un’indeterminazione nella misura dell’altra variabile in un intervallo, chiamato ampiezza di probabilità, definito per l’appunto dalla quantità h/2π. Questa relazione spiega in parte l’affermazione di Bohr. Mi piacerebbe divagare sulle questioni statistiche associate alla fisica e alla filosofia, ma non è l’obiettivo di questo articolo. Voglio invece soffermarmi sul futuro della statistica sociale ed economica e sulla pericolosità di una statistica che, nei tempi moderni, viene privata sempre di più della sua essenza, ovvero di quel legame stretto con il metodo scientifico.
Il metodo scientifico, frutto degli studi di quel genio anarchico e irriverente che portava il nome di Galileo Galilei, prevede alcuni punti fondamentali che vale la pena citare:
– l’osservazione del fenomeno;
– l’individuazione e la a misurazione delle variabili in gioco;
– la formulazione dell’ipotesi;
– la verifica dell’ipotesi tramite esperimento;
– la formulazione della legge;
– la riproducibilità dell’esperimento.
Anche un occhio poco esperto può intuire la completezza e l’assolutezza di un approccio di questo tipo nella descrizione dei fenomeni naturali. È importante soffermarsi un istante sulla parola “naturali”, perché lo stesso Galileo, nel Saggiatore, scrisse le seguenti (lapidarie) parole: “ il Libro della natura è scritto nella lingua della matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi e figure geometriche”. Poco importa se, in seguito, la geometria euclidea è stata affiancata da geometrie di altro tipo e se il calcolo differenziale ha permesso di concepire l’infinito e l’infinitesimo da un punto di vista matematico, ciò che conta è che il linguaggio della natura è rimasto sempre lo stesso: la matematica e la geometria. Nel momento in cui ho iniziato a occuparmi dei fenomeni sociali, ho cominciato a chiedermi quale fosse il linguaggio in cui sono scritte, che so, il mercato del lavoro, le dinamiche demografiche, gli andamenti occupazionali o le previsioni economiche. Da subito, ho avuto la sensazione che alla base della descrizione di questi fenomeni c’è sicuramente una componente matematica, ma c’è anche una forte componente empirica e una semplificazione selvaggia di numerosi aspetti associati ai diversi fenomeni analizzati. La conclusione a cui sono giunto è che forse perché è stato commesso un errore di fondo, affiancando la parola scienza alle parole lavoro, sociale, demografia ed economia. È possibile applicare il metodo scientifico ad ambiti che non siano lo studio dei fenomeni naturali? No. Qualsiasi riferimento al rigore scientifico, in ambiti diversi da quello “naturale”, dovrebbe essere evidenziato ogniqualvolta viene pubblicata un’analisi statistica, affinché non vengano confuse la completezza e l’assolutezza del metodo galileiano con il relativismo di altri metodi, molto meno assoluti e soggetti alle interpretazioni personali, alla scelta dei modelli applicati e alle chiavi di lettura del fenomeno. Per questo motivo, molte analisi statistiche (fortunatamente non tutte) diventano spesso “banalisi” statistiche, ovvero statistiche estremamente banali e pericolose, realizzate attraverso l’applicazione di modelli e standard preconfezionati, “mordi e fuggi, che non richiedono nessuno sforzo creativo, con cui mistificare il relativismo delle interpretazioni, spacciandolo per una scienza esatta e attribuendogli poteri descrittivi rigorosi che oggettivamente non possiedono, perché non rispettano i canoni del metodo scientifico. Le banalisi statistiche vengono prodotte in serie, meccanicamente, senza lo spirito critico e, soprattutto, senza la consapevolezza dell’utilità per la collettività. Questo non significa che le banalisi statistiche non abbiano alla base delle teorie solide, tutt’altro, significa che, frequentemente, vengono usate delle teorie solide per vendere il fondo di una bottiglia, spacciandolo per uno smeraldo purissimo. La gaussiana funziona per descrivere, che so, l’andamento dell’altezza degli italiani? Certo che funziona, ci mancherebbe altro! Funziona in questo e in tutti quei casi in cui si tratta di descrivere e analizzare la distribuzione di un set di dati. Un conto, però, è l’applicazione della gaussiana ai rilievi astronomici e ai relativi errori di misura, un altro conto è la sua applicazione alla conta dei conigli: lo strumento è lo stesso, ma cambia il contesto in cui viene applicato. Si potrebbe dire che un’analisi statistica seria si differenzia da una banalisi statistica in base al contesto in cui si applicano gli strumenti statistici. Il problema è che in molti contesti vale ciò che scriveva Huff, negli anni ’60, in un famoso saggio intitolato Mentire con le statistiche: Se torturi i dati abbastanza, alla fine confesseranno quello che vuoi,
Supponiamo, però, per assurdo, che non esistano degli invasati delle banalisi statistiche, ma soltanto degli onesti analisti che attribuiscano ai dati relativi a un certo ambito della conoscenza (diciamo pure meno nobile di altri) un semplice e normalissimo ruolo sociale, senza nessuna pretesa di rigore scientifico nel senso stretto del termine. Un rigore scientifico, diciamo così, amatriciano…
La scienza, da che mondo è mondo, si contrappone spesso al senso comune e alle percezioni degli esseri umani: nel momento in cui gli strumenti scientifici vengono usati per descrivere questioni associate a un insieme di variabili imprevedibili e aleatorie, quelle umane, che perdipiù vengono semplificate selvaggiamente, bisogna avere il coraggio di contestualizzare le statistiche in una dimensione diversa da quella assolutistica e incontrovertibile che attualmente gli viene attribuita. Le banalisi statstiche indagano principalmente due aspetti riguardanti gli ambiti sociali ed economici: le previsioni e lo stato delle cose a un tempo t-1 (generalmente all’anno precedente). Poiché il tempo misurato sulla terra è frutto di una convenzione, si potrebbe fare una divagazione filosofica di pagine e pagine sul relativismo e sull’assolutezza, ma andiamo oltre.
Da un decennio, si sono affermate le statistiche dei flussi in tempo reale, che, non a caso, vengono utilizzate efficacemente da chi usa il linguaggio del profitto e non della natura. Poiché le istituzioni non parlano lo stesso linguaggio del profitto, o almeno non apertamente, ma hanno la pretesa di insegnare come si fa a chi sa fare, abbiamo assistito negli anni a un’inutile corsa alle banalisi dei big data da parte dei soggetti più disparati, che hanno accumulato quantità importanti di dati, senza sapere cosa farci. Risultato? Il mondo ancora aspetta che, da qualche parte, in uno dei tanti convegni, si presenti una qualche scoperta sensazionale che superi quella marea di interventi scontati, scanditi dalle parole “nuovo petrolio”, “blockchain”, “machine learning”, etc.
La voglia di prevedere il futuro non è una grossa novità: un tempo si utilizzavano le viscere degli animali, oggi si usano le statistiche. Sembra paradossale, ma il risultato è esattamente lo stesso, perché la maggior parte delle volte è il caso a dettare la validità di una previsione e non la matematica. Per chi volesse togliersi lo sfizio di approfondire questo aspetto, consiglio di leggere un testo di Cicerone, De divinatione, da cui è tratto il passo seguente: “Dunque un indovino sarà più bravo di un navigatore nelle previsioni del tempo, o diagnosticherà una malattia con più perspicacia di un medico, o deciderà in anticipo il modo di condurre una guerra meglio di un comandante?Il medico prevede l’aggravarsi di una malattia seguendo il filo di un ragionamento; e allo stesso modo il comandante prevede un agguato, il navigatore le tempeste; eppure anch’essi, non di rado, si sbagliano, pur non formandosi alcuna opinione senza una ragione ben precisa; così come il contadino, quando vede un olivo in fiore, ritiene che vedrà anche i frutti, non senza ragione; e tuttavia qualche volta si sbaglia. E se si sbagliano coloro che nulla dicono senza aver fatto qualche ipotesi e qualche ragionamento probabile, che cosa dobbiamo pensare delle profezie di quelli che predicono il futuro in base alle viscere, agli uccelli, ai prodigi, agli oracoli, ai sogni?”
Si potrebbe obiettare che Cicerone non aveva gli strumenti matematici necessari per stimare le probabilità che un certo evento accadesse. Obiezione acuta, ma sbagliata.
Il Sole 24 Ore, supportato sempre dalle statistiche degli istituti internazionali di ricerca pubblici e privati, in un articolo della sezione Infodata del 15 gennaio 2022, dal titolo “Le previsioni (sbagliate) del 2021 e quelle per il 2022”, scrive: Nel 2020, quasi nessuno aveva previsto una pandemia, come avevamo rilevato qui discutendo di cigni neri e rinoceronti grigi. Nel 2021, chi avrebbe previsto il successo degli NFT? O solo che una nave portacontainer bloccasse il canale di Suez per giorni generando perdite milionarie su tutte le Borse mondiali? Come sappiamo bene la palla di cristallo in grado di prevedere il futuro non esiste. Al massimo possiamo stimare la probabilità che alcuni eventi possano accadere. Con un ampissimo margine di errore.
L’articolo termina con una considerazione che non lascia via di scampo: “La domanda vera è un’altra: perché ci avventuriamo in questo esercizio stilistico di inizio anno? Sappiamo che gli esseri umani temono l’incertezza, le previsioni servono anche a questo, a renderli più sicuri. E dopo quanto ci è accaduto in questi ultimi due anni siamo certi di essere davvero incerti anche di fronte ad eventi imprevisti ma prevedibili come nel caso di una pandemia.
Quindi, perché dovremmo prestare attenzione alle predizioni?”.
Già, perché dovremmo prestare attenzione alle predizioni? Lasciando le predizioni ai maghi e ai fanatici delle banalisi statistiche, potremmo dire che le statistiche socioeconomiche sono una specie di nottola di Minerva di hegeliana memoria e che si limitano a descrivere rigorosamente i fatti dopo il loro accadimento. Giusto, ma sbagliato. Giusto perché, con un margine molto ampio di errore (errore che peraltro non viene quasi mai messo in evidenza, a corredo dei dati diffusi), la statistica descrive un certo fenomeno a giochi fatti. Sbagliato perché la funzione giustificatrice della statistica, in una società che ha perso il senso della collettività, non serve assolutamente a nulla. Marx, sulla sua tomba, come epilogo di una vita vissuta all’insegna della rivoluzione, ha voluto che fosse scritto il seguente epitaffio: “I filosofi hanno interpretato il mondo; ora si tratta di trasformarlo”.Per tutta la vita aveva contestato fortemente il giustificazionismo, benché, da Platone in poi, proprio come la nottola di Minerva, la filosofia avesse una sua utilità ai fini della comprensione della realtà. Le banalisi statistiche non possono limitarsi al giustificazionismo, per due motivi differenti che analizzeremo attraverso il nemico più agguerriti del metodo scientifico: il senso comune.
Nel palazzo in cui sono cresciuto, negli anni ‘70, ogni famiglia aveva almeno un figlio. La società aveva ancora degli strascichi patriarcali, l’emancipazione femminile era agli inizi, la famiglia era “quasi” solo quella tradizionale e le coppie, benché scoppiate, restavano insieme tutta la vita. Si poteva definire un “palazzo” giovane, in cui l’aspettativa di vita media era di circa 70 anni e l’età era più o meno rappresentata da un grafico di questo tipo
Cosa è successo, in quel palazzo? Nel 2022, molti vecchi inquilini non ci sono più, alcuni sono deceduti, altri hanno cambiato residenza, i nuovi arrivati hanno un’età media intorno ai 40 anni e non hanno figli. In altre parole, il “palazzo” è invecchiato. Perché? Beh, di motivi ce ne sono molti e fanno parte di quell’insieme di variabili statistiche associate al genere umano che non sono sintetizzabili e semplificabili efficacemente come nella descrizione di un fenomeno naturale, che, paradossalmente, è molto più complesso, ma descritto con rigore dalla matematica. La società è diventata meno patriarcale, è stata inventata la pillola anticoncezionale, le donne hanno acquistato indipendenza e, a fatica, pezzi di uguaglianza, gli stili di vita sono cambiati, il neoliberismo ha esasperato l’individualismo e i consumi, è più facile viaggiare e più facile lasciarsi… fatto sta che si fanno meno figli. Poi, c’è da aggiungere che la medicina ha fatto progressi enormi e l’aspettativa di vita media è passata dai 70 anni agli 84 anni. Tutti eventi ipotizzabili ma non facilmente prevedibili nel lungo termine. In poche parole, l’età del mio condominio è rappresentata da un grafico che ha un andamento diverso dal precedente.
A questo punto, si può fare subito una considerazione: il mio condominio è un coacervo di luoghi comuni in cui possono proliferare le banalisi statistiche. Qualsiasi condomino, che non conosca la statistica, semplicemente osservando la dinamica demografica del condominio, potrebbe dire: “Il palazzo invecchia”. Goliardia a parte, viene da chiedersi: “A cosa serve conoscere l’età degli abitanti di un condominio?”. Oltre a fornire un argomento di conversazione alla comari, serve essenzialmente a due cose: a prevedere come saranno i futuri condomini e a migliorare il palazzo, per renderlo adeguato ai suoi abitanti.
Le previsioni, sempre loro, l’eterno gioco, l’eterna tentazione di immaginare cosa accadrà sulla base di cosa è accaduto. Si tratta di una tentazione forte, da cui è difficile liberarsi. Ebbene, qualcuno dovrà pur dirlo e a me tocca l’ingrato compito: sostenere che la popolazione è invecchiata non significa che la popolazione invecchierà, significa presumere, sulla base del buon senso, che, se non accadrà nulla di eccezionale, l’andamento resterà più o meno quello. Ma se non accade nulla, significa che la storia resta la stessa e che non ci sarà mai una pandemia particolarmente aggressiva, o una guerra mondiale, con un possibile esodo di giovani mamme con bambini al seguito, che magicamente potrebbero dare nuovamente senso alla piramide delle età degli anni ‘70.
Figuriamoci, una guerra mondiale, nel 2023… è poco plausibile…
Il mio timore è che la signora del piano terra, che peraltro cucina degli struffoli buonissimi, al pari di molti esperti, facendo ricorso al senso comune, si possa proporre su Tik Tok come esperta di banalisi statistiche. Certo, lei usa un linguaggio più diretto e meno ricco di infografiche, ma, quando sostiene che “Nel condominio ci sono tutti vecchi, è evidente che la popolazione italiana sia invecchiata, dice esattamente le stesse cose dette dagli esperti, che perdipiù non sanno nemmeno cucinare gli struffoli.
Ecco, questo modo di usare la statistica a me non piace per niente. La scienza è una cosa troppo seria e non merita di essere strumentalizzata dai cialtroni e dai maghi.
Ricordate?
– Osservazione del fenomeno;
– Individuazione e la a misurazione delle variabili in gioco;
– Formulazione dell’ipotesi;
– Verifica dell’ipotesi tramite esperimento;
– Formulazione della legge;
– Riproducibilità dell’esperimento.
I fenomeni sociali hanno una limitata “riproducibilità dell’esperimento” e, a differenza di un oggetto che cade al suolo, un insieme di variabili troppo imprevedibili con cui fare i conti. Per questo motivo, la maggior parte delle statistiche diffuse fa uso di modelli, più o meno funzionanti, che restituiscono dei risultati spesso interpretabili, spesso sbagliati e spesso dipendenti dal modello adottato. In questo contesto intellettualmente povero e limitato, non è difficile immaginare un futuro in cui, tra poco, le banalisi statistiche faranno a meno degli statistici.
Prima che impedissero l’accesso a ChatGPT, ho provato a testarne l’abilità statistica con qualche domanda, immaginando lo scenario dei prossimi vent’anni. Le risposte, benché ancora imprecise e rudimentali, sono comunque inquietanti e indicative.
Facendo ricorso all’intelligenza artificiale, è già possibile conoscere, seppur con un certo errore, alcuni dati demografici. Se è vero che siamo ancora lontani dagli standard dei report diffusi dagli istituti internazionali di statistica, è anche vero che l’AI sta muovendo i primi passi e che immaginare un sistema in grado di generare grafici ed elaborazioni anche molto complessi, che faccia ricorso alla totalità dei modelli conosciuti e che sappia scegliere il miglior modello in termini di precisione e di minimizzazione dell’errore, non è fantascienza. In altre parole, da qui ai prossimi anni, le banalisi statistiche saranno affidate sempre di più agli algoritmi. Questo aspetto, che potrebbe gettare nello sconforto molti addetti ai lavori, quelli che hanno bisogno delle pubblicazioni più di quanto le pubblicazioni abbiano bisogno di loro, è un bene per la comunità scientifica. Gli statistici, finalmente, torneranno a occuparsi di statistica e gli indovini a leggere il futuro nelle viscere degli agnelli sacrificali.
Fin qui, è rimasto fuori il secondo aspetto, quello che darebbe un senso a una statistica di questo tipo: l’adeguamento del palazzo alle caratteristiche dei condomini. Purtroppo, anche volendo riconoscere un’utilità alla funzione giustificatrice, il mio palazzo è rimasto esattamente quello degli anni ’70. Non ci sono i montascale e l’ascensore non è adeguato a ospitare persone con disabilità; in compenso, gli inquilini anziani sono costretti a comunicare con l’amministratore attraverso la posta elettronica e a fare le riunioni in videoconferenza. Insomma, tutte cose che ignorano l’invecchiamento del palazzo.
Certo, alla statistica non interessano le sorti degli struffoli e di un condominio di periferia: ragiona su scala globale. Ed è proprio su una scala globale che le cose peggiorano… Nel palazzo Italia, in cui bisogna fare i conti con un invecchiamento ben più grave di quello del mio condominio, le banalisi statistiche, benché discutibili e sofferenti di tutte le mancanze che abbiamo evidenziato, potrebbero avere una loro utilità, ma sono totalmente ignorate dai decisori politici. In un Paese palesemente invecchiato, gli anziani sono costretti ad avere lo SPID, a prenotare i servizi su internet, a comunicare tramite email, a subire tagli continui alla sanità e all’assistenza, ad avere un’auto nuova per poter fare la spesa, o una visita medica, nella ZTL, ad attendere tempi biblici per un accertamento medico e a elemosinare una badante fidata dal parroco del paese, a raccomandarsi ai figli, ai nipoti, o al vicino di casa, per rinnovare la carta d’identità. Questo ragionamento, seppur limitato a un ambito di conoscenza preciso, la demografia, può essere generalizzato a qualsiasi altro ambito dominato dalle banalisi statistiche. Il lavoro, per esempio, o l’economia: chi aveva previsto internet, i Bitcoin, la spesa digitale e un sistema in cui una pizza, per essere consegnata, impiega meno tempo ad arrivare a casa di un’autoambulanza? Lo so, è sconfortante pensare che uno strumento indispensabile per indagare sulla struttura della materia sia stato strumentalizzato per cause molto meno nobili. Ma se non servono a fare le previsioni e non servono per guidare le scelte dei decisori politici, a cosa servono, le banalisi statistiche? Servono per partecipare a dei convegni in cui si riuniscono i banalisti, massimi esperti di banalisi statistiche, per dirsi reciprocamente quanto sono bravi a fare le banalisi statistiche. Servono per scrivere pubblicazioni inutili in cui si cerca goffamente di dimostrare non solo cosa è reale in un mondo fatto da cose irreali ma anche come sarà la realtà del futuro, senza avere la minima idea di come sia la realtà del presente. I banalisti e la banalità del male.
Barbie, Big Jim. Trent’anni fa, la suddivisione era questa. Netta, definitiva: non era ammesso nessuno scambio di ruolo. Adesso, invece… uguale. Già da piccoli ci insegnano il principio base dell’esistenza: l’uomo e la donna sono condannati a essere diversi e a non incontrarsi mai. O, meglio, sono destinati a incontrarsi casualmente, quando il pallone, calciato dal maschio, piomba sulla casa di Barbie e la demolisce. Al limite, una bambina che gioca a calcio viene anche tollerata: si becca una frase tipo “sei un maschiaccio”, e passa la paura. Così, impariamo da subito l’importanza delle parole: “maschiaccio” può essere un complimento o un’offesa, dipende da come si dice e a chi si dice.
Tre anni, l’ho aspettato tre anni. “Dammi tempo, vedrai, sistemo tutto”. Io l’avevo capito che non avrebbe mai sistemato nulla, ma ero troppo innamorata. Ci speravo. Che cretina sono stata. A ripensarci, adesso, mi prenderei a schiaffi.
Io ancora bella, nonostante tutta la vita che mi è passata addosso come un carro armato. Io ancora viva, nonostante le delusioni che, ogni volta, hanno ucciso qualche pezzetto d’anima. Io volevo darmi una possibilità. Un’altra, l’ultima. Io sola al tavolino di quel bar, in un pomeriggio anonimo, e lui che mi guarda e mi sorride. Mi sembrava bellissimo e l’ho amato da subito, prima ancora che mi dicesse “Ciao, posso sedermi vicino a te?”.
Sìììììì! Mi parlava di lui, del matrimonio ormai finito, dei figli che ormai erano grandi, di quanto era insoddisfatto delle sue giornate vuote e di come avrebbe voluto cambiare la sua vita. Mi sono rifiutata di pensare che fosse la solita storia del borghese annoiato, quella storia che ho sentito dalle mie amiche decine di volte…
Vedo davanti a me un mare di opportunità…Trasgressione, alcol, donne, decine di donne. Glielo faccio vedere chi sono io…
Vai vai, vai pure. Com’è che hai scritto? La nostra storia è una minestra riscaldata e io ho bisogno di emozioni forti. Te le do io le emozioni forti. Ti faccio consumare dall’invidia.
Anzi, sai adesso che faccio? Chiamo subito Tiziana!
(Prende il telefono)
Tiziana… lei sì che era innamorata. Che donna, Tiziana. Fisicamente… no, fisicamente era meglio Laura. Tiziana che intelligenza! Mah, veramente era mezza scema. Però, il carattere… il carattere… che carattere di merda aveva Tiziana. Adesso mi ricordo perché ci siamo lasciati.
Cosa significa “avere le palle”? A dispetto dell’accezione apparentemente volgare, il significato di questa espressione è da ricercarsi nella storia della famiglia de’ Medici: c’è chi l’attribuisce al numero di palle dello stemma nobiliare e chi alle pillole con cui un medico, appartenente alla famiglia, curò Carlo Magno. Col tempo, questa espressione ha subito una nuova contestualizzazione: durante la prima guerra mondiale, i soldati più pericolosi erano quelli che giravano i proiettili al contrario, per causare più danni al nemico (da qui, e non dagli attributi maschili, deriva la condizione di chi “ha le palle girate”). Di certo c’è che questo modo di caratterizzare una persona non è per niente sessista e può essere utilizzato indistintamente per l’uomo, per la donna e più in generale per i lavoratori. Tra le tante leggende, io preferisco la versione in cui si fa riferimento alle pillole di Carlo Magno: mi piace pensare che “avere le palle” significhi saper prendersi cura di qualcuno o di qualcosa. Che a sua volta significa essere liberi, colti, coraggiosi, generosi, ribelli, folli, visionari e rivoluzionari, se occorre. Tutte caratteristiche assenti nella classe dirigente moderna e, soprattutto, nella classe dirigente della PA, che è bravissima a prendersi cura dei propri interessi e meno degli interessi altrui.Il cancro della pubblica amministrazione, checché se ne dica, non è per niente il lavoratore (o, almeno, non solo), è quell’esercito sterminato di dirigenti senza palle, strapagati dalla collettività per raggiungere dei fantomatici obiettivi istituzionali, che nella maggior parte dei casi corrispondono a un solo obiettivo personale: mantenere il potere e lo stipendio. Poiché la piramide dirigenziale funziona grazie a un sistema gerarchico clientelare, attribuire le responsabilità dei fallimenti è un compito arduo: per questo, chi sbaglia, nella PA, non paga mai. Per questo, è molto difficile risalire alla radice delle responsabilità e descrivere precipuamente il sistema di crediti e di debiti, di scambi di favori e di prebende, tipico di una concezione del lavoro (e non solo) molto italiana. Quando si compie uno scempio, di solito, ci sono i carnefici e i complici: nei bassifondi dei vertici, i carnefici agiscono alla luce del sole, senza vergogna, i complici sono pavidi, restano in silenzio, accettano passivamente, lasciano che le cose vadano in malora, senza opporsi, per non avere rogne. Come se l’indifferenza di fronte a un crimine sia una garanzia di innocenza sufficiente per autoassolversi e per essere assolti. In questo gioco perverso e malato di connivenze e di ginnastiche d’obbedienza, i lavoratori sono semplicemente una merce, uno strumento che serve alla dirigenza per rafforzare la propria posizione, per esercitare il potere e mantenerlo. Molto tempo fa, quando avevo ancora fiducia negli ideali marxiani, un docente che si occupava della formazione dirigenziale mi raccontò che, durante i corsi, ai dirigenti di ogni ordine e grado veniva inculcato nella testa un messaggio chiaro e inequivocabile: “I lavoratori servono esclusivamente a favorire la carriera dei superiori e a nient’altro. Siate abili, divideteli, create disuguaglianze e lasciate scannarli tra loro”.Mi sono rifiutato di credere a questa versione, fin quando non ho capito che aveva ragione, che Marx e Feuerbach avevano buttato via i migliori anni della loro vita e che i loro insegnamenti non erano serviti a niente. La PA, fortunatamente non tutta, ormai da anni, sta andando verso una deriva che rispecchia esattamente la situazione drammatica in cui versa il nostro Paese: la distruzione totale della collettività a favore dell’individualismo, il disfacimento dell’ interesse pubblico a favore di quello privato. Se dovessi scegliere un momento in cui tutto è cominciato, sceglierei gli anni ‘80, quando le USL (Unità Sanitarie Locali) sono diventate ASL (Aziende Sanitarie Locali): è bastato cambiare una vocale per cambiare la vocazione di un’intera nazione: quella A al posto della U significava che una delle cose pubbliche più preziose, la sanità, sarebbe andata verso una lenta e inesorabile privatizzazione. Che la parola unità avrebbe dovuto lasciare spazio alla parola azienda e che il diritto alle cure, prima o poi, sarebbe diventato subordinato al reddito. La parola dirigente, di conseguenza, è stata sostituita dalla parola manager e la distruzione è stata completata dalla Legge 59 del 15 marzo 1997 (meglio conosciuta come RIforma Bassanini) e successivamente dalla legge 133 del 6 agosto 2008 (la RIforma Brunetta). Queste due leggi, insieme alle rispettive leggi finanziarie, attraverso le quali è stato dato il colpo di grazia alla scuola e alla sanità, hanno trasformato il luogo di lavoro in un luogo di competizione e di sofferenza, laddove, per anni, era stato un posto di collaborazione e di discreto benessere. Con molti problemi, per carità, ma umanamente sostenibile. A un peggioramento della condizione lavorativa nell’eterna classe degli oppressi, è corrisposto un miglioramento della vita della classe degli oppressori, che possono godere di una serie di garanzie di impunibilità varie, autorizzate per legge. Paradossalmente, da quando si è iniziato a parlare di benessere sul lavoro, il malessere, l’insoddisfazione e l’allontanamento dei lavoratori (di solito i più preparati)l dal posto pubblico a favore di quello privato sono aumentati vertiginosamente.D’altronde, non si può migliorare il benessere lavorativo, applicando misure repressive e punitive nei confronti dei lavoratori e azzerando i diritti conquistati in anni e anni di lotte. È bene sempre ricordare che la Pubblica Amministrazione è fatta di persone: se non vengono rispettati gli esseri umani non può essere rispettata l’istituzione che si rappresenta. A ogni modo, è ormai chiaro che le azioni peggiori, perpetrate ai danni dei cittadini, debbano essere supportate da parole che significhino l’esatto contrario: si usa il termine “benessere” per creare malessere, “misura giusta” per compiere ingiustizie, “azione necessaria” quando nessuno ne sente la necessità, “missione di pace” per fornire armi e soldati ai paesi in guerra.La classe dirigente, abilissima a cambiare direzione in funzione di come soffia il vento delle convenienze, già inadeguata a gestire la cosa pubblica, si è trasformata da subito in un leviatano senza testa assolutamente incapace di contrastare la privatizzazione, le vessazioni, la distruzione dello status quo e lo sfascio dell’apparato statale. Come si può, dico io, utilizzare un modello organizzativo che abbia come fine il profitto, per gestire delle amministrazioni che dovrebbero avere come fine il benessere della comunità? Se a questa domanda è difficile dare una risposta, ancor più difficile è trovare una logica nell’impiego, nel settore pubblico, di manager che non sono chiamati a generare profitto e che, per questo, non rischiano mai nulla, perché giocano con i soldi degli altri (i cittadini).Nei casi peggiori, l’avvicendamento di manager spregiudicati, invasati dal delirio capitalistico del “make or buy”, ha prodotto la cessione di conoscenza, la vera ricchezza delle istituzioni, e vincolato l’erogazione dei servizi pubblici alla fornitura di servizi privati di dubbia qualità. Il risultato ottenuto è facilmente prevedibile: la distruzione totale degli equilibri produttivi, l’umiliazione dei lavoratori e, ovviamente, un premio: l’avanzamento di carriera. Perché, una cosa l’ho capita, maggiori sono i fallimenti della classe dirigente e maggiori sono gli avanzamenti di carriera: se mia nonna sapesse che ai giorni nostri viene promosso un incapace che ha fatto fallire la bottega e gettato sul lastrico la famiglia, desidererebbe morire una seconda volta.Poiché al grottesco non c’è mai fine, quegli stessi manager, che in un’azienda privata non avrebbero potuto ambire nemmeno al ruolo di fattorini, sono gli stessi che, passando di promozione in promozione, e fingendo abilmente una redenzione mai sincera, quando, a causa del loro operato, vengono realmente ceduti degli asset pubblici alle aziende private, indossano la divisa da Don Chisciotte e adottano iniziative contro le privatizzazioni: come se un macellaio manifestasse contro gli allevamenti di suini… poco credibile…Sia chiaro, non ho niente contro l’iniziativa privata: ben venga il modello imprenditoriale inventato da Olivetti, ben vengano gli imprenditori coscienziosi, che sappiano abbinare col giusto equilibrio il profitto, il benessere dei lavoratori e il miglioramento della vita collettiva. Purtroppo, quando il profitto prende il sopravvento, il resto perde di valore, anche la vita. Gli imprenditori illuminati che conosco, e ce ne sono, faticano a restare a galla e sono costretti a barcamenarsi per sopravvivere ai colossi e al modello Briatore o, peggio, Musk.Cambiare questa classe dirigente è un’impresa impossibile, perché un Paese ha la dirigenza che si merita e, oggi, le palle le hanno veramente in pochi. Si fa un gran parlare di competenze, ma la realtà è che la parola competenza viene utilizzata a sproposito per mascherare con originalità l’incompetenza e l’ignoranza. Eppure, l’Italia è un Paese in cui i dirigenti con le palle ci sono: basterebbe andare a cercare gli esiliati, quelli che “hanno un caratteraccio”, quelli che non si sono piegati ai ricatti e che vengono messi da parte perché antepongono la comunità in cui vivono agli interessi personali e ai giochi di potere. Quelli che, altra nota dolente, hanno la conoscenza, quella caratteristica di cui la Pubblica Amministrazione non ha bisogno, perché fa emergere la mediocrità diffusa e genera invidie e malcontenti. La cultura, nella PA, viene severamente punita ed emarginata, in quanto, oggi come ai tempi del fascismo, fa paura.Un po’ di tempo fa, sull’onda di chissà quale illuminazione, a qualcuno venne in mente di proporre una valutazione della dirigenza “dal basso”, perché, ci vuole poco a capirlo, un dirigente che valuta un altro dirigente non potrà mai essere obiettivo. Panico. Adesso che si fa? Si fanno rispondere al questionario i fedelissimi, gli yesman, gli zerbini, affinché le valutazioni risultino positive. Ebbene, i risultati, in molte amministrazioni, furono ugualmente disastrosi: nemmeno i fedelissimi se la sentirono di partecipare a questa operazione collettiva di distorsione della realtà. È stato un po’ come assistere a quelle elezioni in cui i candidati non vengono votati nemmeno dai genitori…È chiaro che le colpe enormi della dirigenza non assolvono quei lavoratori che utilizzano la PA come una mucca da mungere, ma questa è un’altra storia, che necessita di altre analisi e di altre argomentazioni. Se è facile, per molti politici e per gli imprenditori, sostenere l’inutilità dell’apparato pubblico, non è altrettanto facile immaginare uno Stato, che so, senza il MEF o senza Agenzia delle Entrate: senz’altro migliorabili, ma senza dubbio indispensabili. Il miglioramento, però, ha bisogno di una consapevolezza diversa e di una lenta ricostruzione di quel tessuto sociale distrutto da anni di politiche scriteriate.Raccontata così, sembrerebbe uno sfacelo, ma una speranza c’è: i giovani. Loro, fortunatamente, sono diversi, hanno capito da subito che “i boomer” sono il problema. A loro sono rivolte le speranze della “generazione X”, una generazione arresa che ha miseramente fallito. Siate coraggiosi, non abbiate paura di ribellarvi, dite no ai ricatti, alla schiavitù, alle gerarchie e al potere. Siate liberi. Riprendetevi il futuro, la dignità e il Paese che vi abbiamo tolto. Metteteci da parte. Indignatevi e, soprattutto, collaborate: la collaborazione è meravigliosa, è l’unica speranza di salvezza degli esseri umani. Da soli, per quanto possa essere grande la fama, il livello raggiunto o la poltrona occupata, non si va da nessuna parte.Vi chiediamo scusa. Scusa.
Quante facce ha l’amore? Tante quanti sono gli amori vissuti nella vita di ognuno di noi. Come una farfalla che si posa sulla testa è un viaggio emotivo che conduce con delicatezza gli spettatori alla scoperta del sentimento più vero e inafferrabile che ci sia: l’amore. Storie di incontri e di addii, di marinai e di nuvole, di fughe e di ritorni, che si susseguono senza sosta, nel tentativo di trovare un senso a quella forza inspiegabile che spinge gli esseri umani a legarsi indissolubilmente tra loro e a condizionare le reciproche esistenze. I protagonisti di questo viaggio sono l’uomo, la donna e l’incomunicabilità, il terzo incomodo che li perseguita da sempre senza pietà. Oggi più che mai, l’universo maschile e l’universo femminile sono destinati a non incontrarsi, a restare prigionieri dell’individualismo e della solitudine, a essere lontani pur restando vicini. E se è vero che l’amore è poesia e passione allo stato puro, è anche vero che le stanze delle passioni sono abitate da incomprensioni, da ripicche quotidiane, da prove di forza, da piccole grandi fobie e da ossessioni per il controllo, che diventano goffi tentativi di cambiare il prossimo, per amarlo come lo vorremmo e non come in realtà è. Tentare di dare un senso all’amore è una follia: accade tutto così, all’improvviso. Senza motivo. Quando meno te l’aspetti. Come una farfalla che si posa sulla testa.
A proposito della mia abiura, ha scritto La sera leone, la mattina coglione Galileo Galilei
”Si è permesso di giudicare i miei giudizi sintetici a priori e di criticare la mia Critica” Immanuel Kant
“Dice che ho un carattere di merda… invece lui…” Carl Friedrich Gauss
“Un fratello, per me è come un fratello: ci siamo ubriacati e abbiamo cantato insieme l’Internazionale e La locomotiva!” Karl Marx
Un servosterzo, secondo me, vive una vita di merda. Tutti sanno che esiste, tutti lo usano, nessuno sa dov’è e, soprattutto, quasi nessuno sa come funziona. Esattamente come per la fisica e per la filosofia. Il servosterzo è solitario (avete mai visto un’auto con due servosterzi?), fa il suo lavoro in silenzio, ma, se si guasta, l’auto si schianta in un attimo. Se io fossi un servosterzo, me ne fregherei altamente di cosa pensano gli altri sui servosterzi. Saprei benissimo che, senza di me, la vita delle persone sarebbe difficilissima. Eppure, nessuno ha mai scritto parole di elogio per i servosterzi. Niente, nemmeno un grazie. Di solito, non si scrivono parole di elogio nemmeno per la fisica. Per la filosofia, poi… Tranne nei casi in cui qualcuno vince un premio Nobel. In quel caso, l’Italia si trasforma in una Repubblica di fisici, in cui le persone parlano di relatività e di neutrini come se parlassero di fuorigioco. Io avrei voluto trovare un titolo adeguato per questo libro, ma non ho trovato parole originali, a parte “servosterzo”. Qualsiasi titolo calzante, che so, Filosofia della fisica, o Fisica per filosofi, era già stato usato. E allora, con la parola servosterzo che mi ronzavUn servosterzo, secondo me, vive una vita infernale. Tutti sanno che esiste, tutti lo usano, nessuno sa dov’è e, soprattutto, quasi nessuno sa come funziona. Esattamente come per la fisica e per la filosofia. Il servosterzo è solitario (avete mai visto un’auto con due servosterzi?), fa il suo lavoro in silenzio, ma, se si guasta, l’auto si schianta in un attimo. Se io fossi un servosterzo, me ne fregherei altamente di cosa pensano gli altri sui servosterzi. Saprei benissimo che, senza di me, la vita delle persone sarebbe difficilissima. Eppure, nessuno ha mai scritto parole di elogio per i servosterzi. Niente, nemmeno un grazie. Di solito, non si scrivono parole di elogio nemmeno per la fisica. Per la filosofia, poi… Tranne nei casi in cui qualcuno vince un premio Nobel. In quel caso, l’Italia si trasforma in una Repubblica di fisici, in cui le persone parlano di relatività e di neutrini come se parlassero di fuorigioco. Io avrei voluto trovare un titolo adeguato per questo libro, ma non ho trovato parole originali, a parte “servosterzo”. Qualsiasi titolo calzante, che so, Filosofia della fisica, o Fisica per filosofi, era già stato usato. E allora, con la parola servosterzo che mi ronzava in testa, mi sono messo a fare dei parallelismi con la fisica e con la filosofia. L’italiano è una lingua fantastica per questo motivo: tu prendi una parola a caso e, con un po’ di fantasia, riesci a costruire delle connessioni bestiali. A conti fatti, la fisica e la filosofia sono legate alla matematica come le ruote e il volante sono legati al servosterzo. E questo è il primo punto a favore del titolo. Senza la fisica e senza la filosofia non si va da nessuna parte, esattamente come accade per un’auto senza servosterzo. È vero, senza un servosterzo, facendo una fatica incredibile, si può guidare comunque un’auto. Senza la fisica, invece, non si può vivere, perché gli uomini, da quando hanno messo piede sulla terra, non hanno mai smesso di interrogarsi e di cercare la verità. Un servosterzo rende la vita più semplice e allevia la fatica, proprio come la filosofia. Quindi, ho deciso di adottare un servosterzo e di averne cura, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e malattia, finché rottamazione non ci separi. Nell’Apologia del servosterzo affronteremo molti argomenti, fisici e filosofici, a volte con rigore, a volte con del sano e consapevole cazzeggio. Inizieremo con il ‘600, per arrivare, sbandando, ai giorni nostri. Proveremo a spiegare, con un minimo di rigore scientifico, perché la terra è tonda e cosa diavolo sia la luce. Poi, attraverso i ragionamenti (da fisici) che faremo, con quella stessa luce, illumineremo la notte intellettuale in cui spesso ci troviamo: una notte buia, immensa, piena di domande e povera di risposte. Infine, attraverso un azzardo narrativo, proveremo a usare la filosofia per aggrapparci a qualcosa e tentare di dare una risposta alle domande esistenziali a cui la fisica non può rispondere. Riusciremo a rispondere alla domanda che l’uomo si pone da quando trascorreva la settimana bianca in una caverna? Qual è questa fottutissima domanda? Non posso permettermi di fare spoiler a me stesso: per scoprirlo, leggete il libro e accontentatevi delle poche luride pagine che riuscirò a scrivere. Pagine insulse e sudicie, in cui distruggerò, dissacrandoli, anni di studi e di ricerche. Non sarà facile, lo ammetto, perché sono sicuro che, leggendo con quale maestria abbia trattato il delicato argomento “servosterzo”, senza peraltro urtare la sensibilità dell’alternatore e dell’albero a cammes, chissà quali altissime aspettative nutriate nei miei confronti. Ci proverò, a costo di restare solo per la vergogna e di non uscire più di casa. Solo e anonimo, come un servosterzo.
Nascere è una fortuna, rinascere è un miracolo. Attraverso l’arte, e la scrittura, non solo si può rinascere, ma si può diventare eterni. Io e i miei amici abbiamo fondato la Caveart, un’associazione culturale. Un’altra, direte voi, una delle tante… Ne sentivamo il bisogno? Voi non saprei, noi certamente sì, perché a un certo punto della vita non è più possibile rimandare: bisogna diventare ciò che siamo. Facciamo cose, incontriamo gente,come direbbe Nanni Moretti, ma, soprattutto, facciamo arte: teatro, scrittura, direzione artistica, laboratori, musica, disegno, scultura. Lo facciamo perché ci siamo resi conto di saperlo fare bene e di non saper fare altro. Lo facciamo perché una vita senza arte è una vita vissuta a metà. Caveart ha un obiettivo ambizioso: arrivare nei luoghi abbandonati, dove ci sono dolore e sofferenza, dove non ci sono speranze e possibilità. Vogliamo arrivare in quei posti in cui c’è più che mai bisogno di quel sacro fuoco che non si spegne mai e che illumina da sempre le esistenze. Per ora ci sono uno statuto, un sito web e un gruppo di professionisti con una voglia dirompente di esserci. È sufficiente? Certo che no. Ci mancano una sede, uno sponsor e un numero consistente di iscritti. Dobbiamo organizzarci e partire, come la famiglia Joad in Furore. Vogliamo organizzarci e partire. Il furgone sul quale viaggiamo è vecchio e scassato, ha le gomme a terra, il radiatore che fuma e perde acqua, i bulloni arrugginiti e va piano. Di spazio, però, ce n’è a sufficienza. Ospitiamo quasi tutti, a eccezione degli arrivisti, degli iperconnessi, dei carrieristi e dei malati di successo e di soldi. Al contrario, troveremo sempre un posto per i diversi, per chi vive ai margini, per chi si sente solo, per chi non ce la fa più e per chi non riesce più a trovare un senso a questa vita senza senso. Il link al sito dell’associazione è http://www.caveart.it