La parola competenza è ambigua e illusoria almeno quanto la parola innamoramento. Per entrambe è difficile dare una definizione, anche se, per la seconda parola, George Bernard Shaw in qualche modo l’ha fatto, definendo l’innamoramento un’esagerazione smisurata della differenza tra una persona e tutte le altre. Per le competenze, invece, la questione è più complicata. In primo luogo perché, a differenza dell’innamoramento, che proietta i fortunati in uno stato di grazia onirico totalmente estraneo al mondo reale, le competenze vengono esercitate in una cruda e superficiale realtà, oltre a essere valutate, misurate e giudicate da persone a volte assolutamente inadeguate. Inoltre, a differenza delle esagerazioni amorose, il divario di competenze può essere esageratamente smisurato tra una persona e tutte le altre. La misura, la valutazione e il giudizio, in realtà, vengono esercitati anche per i sentimenti, e questo la dice lunga sullo spessore culturale e morale di una società in cui ognuno si sente autorizzato a valutare, misurare e giudicare gli altri, rispetto a qualsiasi campo della conoscenza, con un rigore esagerato se confrontato con l’indulgenza che viene applicata verso sé stessi.
La PA, a differenza del settore privato, in cui gli addetti alla formazione e alla selezione del personale hanno un ruolo delicatissimo, utilizza dei meccanismi di selezione, di valutazione e di rilevazione dei fabbisogni formativi quantomeno bizzarri. Il titolo di studio, per esempio, l’antico italico pezzo di carta, quello che “un laureato conta più di un cantante”, per dirlo con le parole di Guccini, è considerato ancora il principale lasciapassare per l’accesso al concorso pubblico e alle carriere che “contano”. In più è, (o dovrebbe essere?) la prova provata delle competenze possedute dai candidati, che solleva le commissioni da qualsiasi responsabilità, liberandole dal gravoso compito di indagare sul percorso di vita che ciascun individuo ha intrapreso quando ha lasciato i banchi dell’università e che, probabilmente, lo ha arricchito almeno quanto il percorso di studi. Il ruolo di chi si occupa della formazione e della gestione delle risorse umane, quindi, è essenziale per l’adozione di percorsi mirati ad accrescere il set di competenze digitali dei lavoratori pubblici. È necessario conoscere a fondo i processi lavorativi, le tecnologie adottate e i singoli individui, per attuare misure realmente efficaci e spendibili dai lavoratori. C’è da dire che, molto frequentemente, le aree che si occupano di gestire le risorse umane di una pubblica amministrazione sono costituite da poche persone con le idee chiare, spesso arrese, sfiduciate e messe da parte, e da molte persone con le idee confuse, in cerca di visibilità, di gloria e di carriere, che probabilmente approdano all’ufficio del personale per sbaglio, per stanchezza o perché non hanno trovato una collocazione migliore. Questo aspetto, laddove scarseggino le competenze umane e relazionali, rende l’applicazione di qualsiasi provvedimento riguardante le competenze digitali molto complesso. I dipendenti pubblici che acquisiscono nuove competenze, di qualsiasi tipo, dovrebbero avere dei benefici che non sempre sono evidenti. Benefici in termini di possibilità di crescita all’interno dell’organizzazione e di migliorie tangibili nello svolgimento del lavoro. Tutto ciò, in molte PA, non è possibile. Non è possibile perché la visione prospettica di ogni amministrazione pubblica è limitata dal perimetro istituzionale nel quale ci si muove. Non è possibile perché il meccanismo perverso attraverso il quale si costruiscono le carriere, la gloria e la visibilità nella Pubblica Amministrazione non è affatto associato al merito e alle competenze possedute, piuttosto viene costruito partendo dalla formalizzazione, sotto forma di delibere spendibili nei concorsi, di un qualche tipo di incarico, anche il più insignificante, di una qualche pubblicazione, anche la più insignificante, e dalla partecipazione a commissioni e gruppi di lavoro, che adesso vengono chiamati più scenograficamente cabine di regia o task force. Insomma, fare carriera è un vero e proprio lavoro nel lavoro che assorbe quasi tutte le energie dei lavoratori. Le aspettative riposte nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), quindi, sono subordinate al (mal)funzionamento di una macchina con pochi ingranaggi giusti che vengono fatti funzionare nel modo sbagliato e molti ingranaggi sbagliati che funzionano in modo sbagliato. La mancanza di competenze digitali non è soltanto associata alla velocità con cui si muove la tecnologia e all’incapacità dei lavoratori pubblici di inseguirne i cambiamenti, ma è frutto di un sistema che negli anni ha disinvestito nella cultura e nella condivisione, favorendo l’individualismo e la competizione. In una recente intervista, il Ministro per l’innovazione e la transizione digitale Vittorio Colao ha rilasciato la seguente dichiarazione. “Sappiamo tutti che non c’è vera innovazione senza profonde competenze: mancando queste gli investimenti non possono decollare, la modernizzazione della PA rimarrà al palo, il sistema educativo non può diventare un motore di promozione sociale. Vogliamo innanzitutto colmare il gap digitale e competitivo tra Italia in Europa, grazie a un cambiamento culturale profondo di metodo. Occorrono investimenti, nuovi processi nella pubblica amministrazione, ma soprattutto competenze”.
Non è esatto. Dovremmo sapere tutti che non c’è vera innovazione se non c’è una profonda cultura condivisa. I cambiamenti di qualsiasi tipo, anche quelli peggiorativi, hanno sempre una solida base culturale. Le competenze sono una conseguenza di un percorso culturale che la formazione può soltanto perfezionare. Per cambiare realmente il lavoro pubblico è necessario cambiare la cultura del lavoro, valorizzando adeguatamente le risorse umane, a partire dalla dirigenza. La Pubblica Amministrazione è composta da diverse anime molto diverse tra loro. Ci sono alcune eccellenze, grandi e piccole, in cui il livello culturale è altissimo e molte amministrazioni paludose in cui rilevare i fabbisogni formativi è complesso a causa di processi organizzativi lacunosi, infrastrutture inadeguate e scarsa visione da parte dei vertici. Qualche anno fa, ingenuamente, avevo maturato la convinzione che per colmare i gap cognitivi digitali e rilevare i fabbisogni formativi nella PA fosse sufficiente applicare due modelli di rappresentazione delle competenze, Syllabus ed ECF 3.0, per misurare il livello e pianificare la formazione. Entrambi i modelli propongono un sistema di misura attraverso la rilevazione di alcune dimensioni che possono rappresentare il livello delle competenze digitali dei lavoratori pubblici. Le dimensioni possono far riferimento all’autonomia, alla complessità dei compiti svolti, ai comportamenti o al dominio cognitivo degli individui. Attraverso la combinazione di queste componenti, è possibile valutare il set di competenze digitali di base e specialistiche e attuare le politiche di formazione digitale più adeguate. Questo in teoria. In pratica, quando mi sono trovato a insegnare ai lavoratori delle amministrazioni pubbliche “come si fa”, ho capito meglio l’impossibilità di applicare metodi scientifici generalizzati. In primo luogo perché per effettuare una qualsiasi misura bisogna aver chiaro cosa si deve misurare e come. In un’istituzione di qualche centinaio di dipendenti, esistono:
aree diverse (amministrative, produttive e tecnologiche)
tecnologie diverse
processi diversi
organizzazioni del lavoro diverse
esperienze personali diverse
generazioni diverse
volontà diverse
motivazioni diverse
interessi diversi
culture (e subculture) diverse
punti di vista diversi
dirigenti diversi
Insomma, la parola più rappresentativa della pubblica amministrazione non è “digitale” ma “diversità”. Propagandare una qualche pozione magica che trasformi, seppur in un PNRR ben fatto, la parola diversità in digitale è pura demagogia. Per attuare un piano di formazione digitale nella PA è necessario procedere in una duplice direzione: da una parte ci sono le diversità e le necessità di competenze digitali specifiche per i singoli individui, dall’altra c’è la cultura digitale collettiva. E le due cose seguono canali totalmente distinti; :un conto è creare il tessuto di una nuova cultura, un altro conto è formare una risorsa all’uso di un foglio di calcolo o alla configurazione di un firewall. Ogniqualvolta ho indossato i panni da docente, queste due necessità sono emerse prepotentemente: i lavoratori vogliono conoscere il lessico, le tecnologie e le possibilità offerte dalla trasformazione digitale, ma per condurre con maggiore efficacia il lavoro quotidiano hanno bisogno di corsi specifici. Corsi che nella stragrande maggioranza dei casi si riferiscono non a un “digitale generico”, ma a temi specifici funzionali alle scelte tecnologiche e organizzative dell’amministrazione. Purtroppo, l’intreccio generazionale non aiuta molto a sciogliere questi nodi. La forza lavoro prossima alla pensione è spesso disinteressata alle opportunità di crescita, mentre le nuove generazioni hanno competenze digitali più legate all’uso dei dispositivi e delle applicazioni social che non ai prodotti, ai metodi e ai linguaggi del mondo digitale. I giovani, insieme alle fasce di lavoratori di mezza età, molto spesso apprendono sul campo le competenze necessarie allo svolgimento del lavoro, a volte vengono addirittura formate attraverso corsi che non hanno un’applicabilità alle attività quotidiane e che rappresentano più che altro una perdita di tempo e di energie. È proprio dalla diversità accennata nelle righe precedenti che bisogna partire per affrontare la sfida del digitale. In questo, possono essere d’aiuto le famose regole delle 5W, derivanti dal giornalismo anglosassone, quantomeno per suddividere una pubblica amministrazione in sottoinsiemi omogenei e pianificare una formazione mirata. Chi sono i dipendenti pubblici? Che tipo di attività svolgono? Dove lavorano principalmente? Quando svolgono la loro attività lavorativa? Perché hanno bisogno di acquisire competenze digitali? Rispondere a queste domande significa conoscere a fondo il capitale umano e la collocazione dei lavoratori all’interno della PA. E la conoscenza è la base di qualsiasi tipo di competenza, anche di quella dei decisori.
La trasformazione digitale delle relazioni umane è iniziata molti anni fa, e non è nata con i sistemi di messaggistica istantanea. È figlia di un insospettabile colpevole che si chiama link. O, meglio, hyperlink. Ritengo da sempre che l’hyperlink sia tra le invenzioni più importanti del secolo scorso e, tutto sommato, ha origine da un’idea semplice: io sono qua e con un clic vado là. Leggerezza calviniana. Velocità. All’inizio, il link collegava dei documenti ipertestuali, ma ben presto ha iniziato a collegare persone, sentimenti ed emozioni. Basta aprire un qualsiasi social network per (ri)scoprire quanto sia ancora attuale e rivoluzionario il link. Gli amici sono dei link, il curriculum è un link, sono link le foto postate su instagram e le ricerche che si fanno per capire, sempre restando confinati alle relazioni umane, le caratteristiche di persona, chi è, cosa fa, di cosa si occupa. La reputazione e la vita privata di una persona sono di fatto affidate ai link, che hanno soppiantato totalmente il ruolo millenario delle comari di paese. Io sono qua e vado là, a vedere, senza che si sappia, chi è quella persona che ha suscitato il mio interesse. Vale per una selezione lavorativa o per una selezione sentimentale. Senza guardare negli occhi per vedere dentro. Senza ascoltare come cambiano la voce e l’espressione del viso al suono secco di una domanda. Senza possibilità di capire, dalla gestualità del corpo, le reazioni involontarie, quelle che non si possono nascondere dietro alle parole. Datemi un link e vi sovvertirò il mondo, avrebbe affermato Archimede, se ne fosse stato lui l’inventore. E le informazioni superficiali che si possono avere dai link sono molte: gli interessi, gli hobby, il lavoro, la partecipazione alla vita sociale, la situazione sentimentale… perfino le opinioni sui valori e sulla morale. Tutto tranne i sentimenti, quelli dai link non si vedono. Le prime avvisaglie che qualcosa stava cambiando si sono avute verso la fine degli anni ‘90, con l’utilizzo di massa della posta elettronica nei luoghi di lavoro. I nostalgici ricorderanno senz’altro quelle inutili e infinite discussioni, consumate a colpi di centinaia di email ricche di insulti e di provocazioni, in cui chiunque si sentiva legittimato a scrivere qualsiasi cosa. L’Italia si è trasformata ben presto in un Paese di rissosi da tastiera, capaci di dar luogo a vere e proprie sfide all’O.K. Corral, che tentavano goffamente, con fiumi di parole e frasi spesso sgrammaticate, di rivendicare una qualche ragione, di scaricare responsabilità o di affibbiare una qualche colpa. Parallelamente alle liti a distanza, però, fiorivano anche le prime relazioni clandestine virtuali. Poi c’è stata un’ulteriore evoluzione: i social e le chat hanno velocizzato gli scambi e le relazioni si sono velocizzate. Sono diventate prodotti da consumare in fretta, laddove, da sempre,
necessitano di tempo e di lentezza. Il linguaggio si è dovuto adeguare ad assumere un ruolo per il quale non era stato pensato: esprimere in pochi tic tac sul touch screen, e bip delle notifiche, le emozioni, le reazioni e i sentimenti. Per chi come me è attento alle parole, ne subisce il fascino, la bellezza, e le considera il dono che il grande padre Giove ha fatto agli uomini per comunicare efficacemente, è facile accorgersi di tante piccole sfumature che denotano la pericolosità delle relazioni digitali. Per esempio, quando si chatta (ops, stavo per scrivere parla, un lapsus…) con qualcuno con cui si ha un rapporto libero e leale, si fa poca attenzione alla punteggiatura, diventa quasi superflua. Si lasciano le domande e le risposte aperte. Si danno tutte le possibilità. È un po’ come stare rilassati al pub a bere un boccale di birra. Ma quando si sta sulla difensiva, o si vuole esprimere disappunto, la punteggiatura diventa un requisito comunicativo essenziale. Scrivere No potrebbe bastare, ma No., oppure No!, è molto più efficace. Evidenzia la chiusura, rende il rifiuto definitivo.Toglie il diritto di replica. Francamente, il punto aggiunto alle parole durante uno scambio di messaggi mi lascia sempre un po’ interdetto. Provo una sorta di tenerezza nei confronti di chi pensa che le questioni si possano realmente chiudere così. Che quel punto riesca realmente a creare dei muri e a considerare chiusa la questione. La punteggiatura nella narrativa ha un ruolo essenziale essenziale, ma mentre si parla, anche laddove si facciano delle pause alla Celentano, difficilmente si percepisce dove inizia il punto è quando si va realmente a capo. E il punto esclamativo? Lo trovo ambiguo, può mettere in difficoltà. Se qualcuno risponde Sì!, qual è il corretto significato da attribuire alla risposta? In termini di emozioni, intendo. Quel punto esclamativo significa “sì, sì, sì”? È un’esortazione, tipo, “sì, muoviti”? È voglia di chiudere in fretta la conversazione e passare ad altro, senza soffermarsi troppo? Beh, può significare qualunque cosa, dipende dallo stato d’animo di chi lo scrive e di chi lo interpreta. Guccini, nel Cyrano scritto con Dati, utilizzava un’espressione evocativa : “Infilerò la penna ben dentro il vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio”. Forse non è proprio così, forse le parole non uccidono, ma sicuramente possono fare molto male e ferire profondamente. Se non fosse una triste realtà, ci sarebbe da ridere di fronte a una situazione grottesca in cui qualcuno prova dolore, piange, soffre e si emoziona non davanti a una persona ma davanti a uno schermo che non ha nemmeno le sembianze umane. Eppure, con questo tipo di schiavitù bisogna farci i conti. C’è chi calcola i tempi di risposta, o di visualizzazione, di un messaggio perché anche i silenzi, le pause e i ritardi digitali hanno assunto un significato diverso e sono portatori di un notevole carico d’ansia. Se non risponde, ci sarà un motivo, significa che mi ignora o “chissà cosa stia facendo”. L’ipotesi che possa aver lasciato da parte il telefono non viene presa in considerazione. Alzi la mano chi almeno una volta non è stato assalito da un’angoscia incontrollabile mentre, durante una discussione (si fa per dire) accesa, magari in un momento topico in cui si stava consumando la fine di una storia d’amore, il messaggio “Sta scrivendo…” si è interrotto di colpo. Per poi riprendere. In quei frammenti di tempo si concentra tutta la relazione: i pensieri si affastellano, sono fiumi in piena, si susseguono velocemente emozioni e stati d’animo come non era mai successo nella storia dell’uomo. Dall’altra parte c’è qualcuno che ha cambiato idea. E quella pausa rende evidente una reazione comunissima, ma che di solito non viene percepita nella vita reale, a meno che non venga inventato un display da applicare sulla fronte che segnali “sta cambiando idea” durante una conversazione. Nelle relazioni digitali ci sono un uomo, una donna e due schermi che li separano. Che fanno da filtro. Che nascondono e ingannano. Parole virtuali e sofferenze reali. Tutto. Rigorosamente. Davanti. A. Uno. Schermo. Velocemente. Qua i punti ci stavano bene…
Il problema è che ci siamo abituati troppo alla velocità della vita. Non riusciamo più a trattenere nulla, ad assaporare. Sintetizziamo. A volte si sente il bisogno di “chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro te ma nella mente tua non c’è”. E respirare. E dargli tempo. Dargli spazio. Invece, le relazioni digitali vanno di corsa, richiedono velocità, Non c’è tempo per ragionare, per rallentare, per riflettere, per spiegare, per chiedere scusa, per esprimere un concetto che riguardi gli infiniti ambiti della vita quotidiana. Figuriamoci se c’è tempo per stringersi la mano, baciarsi, abbracciarsi, camminare fianco a fianco. A che scopo, se ci sono decine di emoticon pronte all’uso che sintetizzano benissimo altrettanti gesti? In passato, per curiosità, ho letto la corrispondenza tra i fisici e i matematici dell’800. Si trattava di lettere lunghissime e rispettose in cui venivano dibattute questioni complesse per arrivare a una qualche conclusione. Non c’era un vincitore. Le conversazioni digitali vogliono che spesso ci sia un vincitore e un vinto. E, nella competizione, le emoticons hanno un ruolo centrale. La dinamica è spesso la seguente: si inizia a scambiare messaggi in modo soft e, per un motivo o per un altro, si arriva al climax, a un punto di rottura in cui la rabbia è esplosa, il viso diventa rosso come il succo di melograno e il cuore galoppa come Furia cavallo del west. Ma non si può reagire, c’è lo schermo, bisogna usare un’emoticon. Ma per rappresentare bene quello stato d’animo, servirebbe una gif animata che raffiguri Mario Merola in modalità “piazzata” che spara minacce casuali del calibro di “T’accid ‘a madre”. Invece no, qual è l’emoticon che si usa per rappresentare quello stato di agitazione e tagliare corto? Il pollice alzato di Fonzie, usato non per dire “tutto ok” ma per un più provocatorio “stai bene così”. E chi lo usa conosce benissimo la reazione violenta che suscita nell’avversario e che va ben oltre le minacce di Mario Merola: roba tipo “te lo spezzerei, quel pollice, se fossi lì”. Ma per fortuna c’è sempre uno schermo. Il pollice non è vero, è un fake pollice, che conduce a una verità incontrovertibile: se Leibniz avesse risposto all’epistola prior e all’epistola posterior di Newton con un pollice alzato, probabilmente non avremmo mai conosciuto Le monadi e la gravitazione universale…
Paradossalmente, però, e questo è veramente un mistero comunicativo, l’immagine che rappresenta l’incazzatura (passatemi il termine) esiste, si tratta di una faccetta rossa e arrabbiata che non assume mai il reale significato a cui è deputata. Non viene presa sul serio, perché, diciamo la verità, quando parte l’embolo della rissa, a nessuno verrebbe in mente di assumere l’espressione di una faccetta rossa simpaticamente imbronciata.
Ben più pericolose sono le emoticon che rappresentano le diverse sfumature d’amore. E le diverse sfumature di ipocrisia e di falsità. C’è un abuso di simboli mielosi che nella realtà non si trasformerebbero mai in azioni concrete. Baci e bacetti inviati a persone che dal vivo non vorresti toccare nemmeno con la canna da pesca. Invece la rete prolifera di bit che trasportano cuori e baci “cuorosi” a chiunque, anche a perfetti sconosciuti, per fingere empatia o per esprimere un qualche sentimento. Tanto c’è lo schermo del telefono a fare da filtro. Dall’altra parte, però, c’è sempre qualcuno che interpreta, fraintende, spera, soffre… e spesso l’altra parte non si capisce bene quale sia, se quella del mittente o del destinatario.
Se gli scambi virtuali tra due persone stanno dimostrando ampiamente le difficoltà relazionali di questa e delle future generazioni, gli scambi di gruppo denotano dei disagi ben più importanti, che rafforzano l’impressione espressa da Umberto Eco qualche anno fa, ovvero che “internet ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Per esempio, se In un gruppo c’è qualcuno che scrive, che so, Qualcuno sa dirmi la vera ricetta della coda alla vaccinara?, la risposta non proviene soltanto da chi ha qualcosa da dire. Ci mancherebbe altro. Ognuno deve dire la sua. E quando ricapita un momento di visibilità? No. Io no. NO! Io no, mi dispiace. Io ce l’avevo, ma l’ho persa. Provo a chiedere a mia nonna e ti faccio sapere. Io no, ma ho quella degli strozzapreti alla romana, va bene lo stesso? Te la darei volentieri, ma sono fuori casa. Decine di messaggi per non ottenere nulla, a parte un aumento non richiesto del traffico di rete. Poi ci sono le comunicazioni di servizio, quelle che bisognerebbe leggere senza replicare e che invece danno luogo alle 50 sfumature di “grazie”. Grazie. Grazie! Grazie mille. Grazie davvero. Grazie (cuoricino). Grazie (emoticon circondata da cuoricini).Ma grazie! Di nulla. Grazie a te. E infine ci sono gli auguri, quelli che nella realtà nessuno ricorda, a parte quelle poche persone che ci tengono sul serio. In ogni caso, al segnale di auguri si scatena ogni volta l’inferno. Un trionfo di faccette festanti, bicchieri brindanti e coriandoli di ogni tipo. Forse dipende dall’età, forse dipende dalla stanchezza, forse dipende dalla scarsa capacità di comprendere dei valori diversi perché sono troppo ancorato ai miei, ma queste relazioni non riesco proprio a viverle con partecipazione. Dignitoso distacco. Eppure sostengo la trasformazione digitale da sempre e in quasi tutti gli innumerevoli aspetti positivi di cui è portatrice. Tranne questo. Non lo comprendo. Ho bisogno di tutte quelle manifestazioni di cui l’uomo è capace di esprimere solo dal vivo. Insomma di quella vita che la virtualizzazione dei sentimenti in qualche modo ha offuscato. Ad maiora
I dati statistici permettono di descrivere un certo tipo di fenomeno (naturale, sociale, etc.) e di rappresentare la realtà con una buona approssimazione: questa è la buona notizia. La brutta notizia è che, laddove nel processo di produzione e di diffusione non sia applicato un metodo scientifico rigoroso, i dati statistici possono prestarsi a interpretazioni fantasiose e possono dar luogo a una conseguente distorsione della verità. La storia, anche la più recente, ha ampiamente dimostrato che una bugia “certificata” attraverso i dati può essere trasformata in una falsa verità supportata da numeri e opinioni, diffuse in contesti social-televisivi, che non provengono quasi mai da analisi scientifiche approfondite, ma da sensazioni o interessi personali. Questi ultimi, in particolare, inducono l’interessato a narrare capziosamente i dati, aggiungendo al racconto una buona dose di pathos e di trasporto emotivo che non hanno nulla in comune con la rigorosità scientifica. Umberto Eco ha insegnato che in qualsiasi narrazione esiste un patto narrativo tra l’autore e il lettore. Nel caso dei dati, affinché la narrazione sia quanto più possibile vicina alla verità, è necessario che il produttore conosca a fondo il fenomeno che sta descrivendo e i metodi per rappresentarlo con il massimo rigore scientifico possibile. Il lettore, invece, dovrebbe avere un insieme minimo di conoscenze per capire il significato di ciò che sta leggendo e metterlo in dubbio, se necessario. Questa condizione è molto infrequente poiché, spesso, anche gli addetti ai lavori sottovalutano le insidie del mestiere e, soprattutto, sottovalutano il nesso che c’è tra il dato statistico e le finalità di chi lo produce o lo diffonde.
Il metodo utilizzato per trarre in inganno i fruitori dei dati è collaudato e funziona molto bene: si sceglie la verità (o la bugia) che fa comodo e si supporta con una certa interpretazione dei dati, omettendo volutamente informazioni metodologiche o altre interpretazioni più veritiere. Accade spesso che, tra le tante interpretazioni associate ai dati, non prevalga mai quella più vicina alla verità ma quella più verosimile: e questo, laddove ci siano intenzioni dolose, o semplicemente superficialità, è molto pericoloso.
La credulità nei numeri, che deriva dalla scarsa conoscenza della matematica e della statistica, dà la possibilità ai malintenzionati di trasformare le falsità in verità e viceversa. La comunicazione, i notiziari e gli articoli sono pieni di esempi di questo tipo. L’interpretazione di qualsiasi fenomeno attraverso i dati dovrebbe essere introdotta da una frase di pericolo, come avviene per i pacchetti di sigarette, qualcosa del tipo “Con i dati si può mentire: leggere con cautela, pensare, ragionare e dubitare. Sempre”.
“Siamo invasi dai migranti” è una notizia che viene utilizzata frequentemente allo scopo di far leva sulle paure di chi vede nella diversità un pericolo e nella povertà una minaccia: questo per raccogliere consensi elettorali o per altri motivi poco nobili. Ci sarebbe da chiedersi come sarebbe una società in cui questa stessa informazione fosse divulgata in modo martellante sotto un’altra forma, descrivendo la diversità come un’opportunità e la povertà come un’occasione per abbattere le barriere piuttosto che alzarle. Di certo c’è che, a fronte di un titolo simile, un’esigua minoranza di persone consulta i dati prodotti dalla statistica ufficiale. Una minoranza ancora più ristretta riesce a contestualizzarli e a rendersi conto autonomamente che non c’è nessuna “operazione invasione” in corso. Uno dei peccati capitali delle informazioni statistiche riguarda la diffusione dei valori assoluti senza le adeguate descrizioni e contestualizzazioni. E anche dei valori relativi (percentuali) senza le dovute precisazioni. Quel numero, 700 migranti, significa tanto o poco? Diciamo che tanto e poco non hanno mai un significato vero e proprio, se non viene specificato “rispetto a cosa”. Effettivamente, in un villaggio di 10 abitanti, 700 può essere “tanto”, ma in una metropoli di 5 milioni di abitanti è relativamente “poco”. Se però, all’interno della stessa metropoli, i 700 migranti vengono fatti alloggiare in un comprensorio, ecco che per la percezione “locale” il numero significa di nuovo “tanti”. Se poi si considerano i dettagli temporali, ovvero il periodo in cui si analizzano i dati complessivi (generalmente lo stock riferito all’anno solare), e lo status (rifugiati, richiedenti asilo politico, minori non accompagnati o persone che si ricongiungono con un famigliare) ecco che la descrizione del fenomeno cambia ulteriormente in maniera radicale.
C’è poi un’altra questione, sempre riferita alla contestualizzazione dei dati, che non deve essere trascurata: la definizione delle variabili analizzate.
Un articolo di questo tipo, per esempio, prima di suscitare indignazione per la situazione occupazionale del Paese, dovrebbe indurre il lettore a porsi parecchie domande: Chi sono gli occupati a cui fa riferimento la notizia?, Quali metodologie sono state utilizzate per ricavare quel numero? Che cosa rappresenta quel dato? Qual è l’errore statistico considerato?
I non addetti ai lavori probabilmente non sanno che esiste una definizione, condivisa dopo molti anni dall’Istat, dall’Inps e dal Ministero del lavoro, che identifica gli occupati nelle persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento (a cui sono riferite le informazioni):presentano una delle seguenti caratteristiche:
hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura;
hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;
sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie, malattia o Cassa integrazione).
Se questa definizione (peraltro incompleta per motivi editoriali) potrebbe essere lontana dall’idea comune di occupato, le interpretazioni dei dati diffusi dalle principali istituzioni prima di giungere all’accordo sono ancora più complesse e articolate da comprendere. Questa definizione, oltretutto, è integrata da altre definizioni specifiche (disoccupato, occupato a tempo indeterminato, etc), che permettono di fornire descrizioni più dettagliate riguardo alle diverse forme di occupazione. È sufficiente questa osservazione per fornire una chiave di lettura migliore? Ovviamente no. La definizione deve essere riferita a una metodologia di calcolo scientificamente valida, altrimenti resta priva di senso. I dati riguardanti gli occupati possono essere elaborati attraverso diverse fonti, integrate o meno tra loro, attraverso le quali descrivere la situazione occupazionale da diversi punti di vista. In generale, per rispondere alla domanda “quanti sono i/gli… ?”, si ricorre a due metodi, ciascuno dei quali può introdurre degli errori: o si contano tutti gli oggetti di analisi, o si stima il numero attraverso un campione. Tempo fa, mi sono imbattuto in un articolo in cui si affermava che, secondo uno studio non meglio specificato, i topi presenti a Roma fossero circa 6 milioni.
Che metodologia ha adottato chi ha condotto lo studio? Escludendo a priori che possa aver contato i topi uno a uno, e in quel caso si sarebbe trattato di un censimento, che avrebbe dato luogo a un “archivio amministrativo dei topi” con tanto di nome, cognome e indirizzo, l’ipotesi più sensata è che abbia stimato la popolazione totale di ratti attraverso un campione rappresentativo. Le parole stima e campione rappresentativo dovrebbero essere introdotte per legge a corredo delle informazioni diffuse dai media, per evitare ogni tipo di misunderstanding. Nella quasi totalità dei casi, infatti, i dati statistici rappresentano la stima di un certo fenomeno, non la misura di una verità assoluta e incontrovertibile, derivante dall’analisi di dati raccolti attraverso metodi censuari o campionari. Le stime, per definizione, sono corredate dall’errore statistico campionario e non campionario: il primo deriva dalle tecniche di campionamento, il secondo dagli strumenti e dai metodi di rilevazione. Questa affermazione, che potrebbe sembrare ovvia, non lo è affatto quando si tratta di comunicare un dato alla popolazione. Dichiarare apertamente che un dato è associato a un certo margine di errore, possibilmente descritto accuratamente in tutti i suoi aspetti, induce il lettore a dubitare e a interrogarsi sulla possibile falsificazione popperiana dei modelli applicati. Un campione statistico, per quanto accurato e rappresentativo possa essere, introduce sempre una qualche distorsione e un errore che può essere più o meno accentuato laddove si stimi la misura di fenomeni oggettivi (ad esempio il numero di biglie bianche e rosse presenti in un contenitore) o di “opinioni” derivanti da questionari sociali e indagini di mercato. Analogamente, un archivio amministrativo è affetto da altri tipi di criticità, ugualmente complesse, che necessitano di “aggiustamenti” spesso molto complessi per poter essere utilizzati a scopi statistici. In entrambi i casi, è vero che uno studio condotto su un campione o su un archivio amministrativo non può essere migliore del campione o dell’archivio su cui si basa. È altrettanto vero che da un campione (di)storto non può nascere un dato dritto. Tra le ulteriori tecniche di distorsione della realtà c’è sicuramente l’utilizzo fraudolento e spericolato di quello che nella statistica prende il nome di ’”indice di posizione”, ovvero di quel “numero” attraverso il quale si sintetizzano i risultati di un’elaborazione statistica. Gli indici di posizione più utilizzati per sintetizzare le analisi statistiche sono la media, la moda e la mediana. Anche in questo caso, è utile far riferimento a una notizia vera (o verosimile?) diffusa dai media senza le giuste avvertenze, per mettere in risalto alcuni aspetti interessanti.
Indicare il salario medio dei lavoratori di un’azienda potrebbe avere un senso laddove si abbia un certo interesse a livellare verso l’alto la rappresentazione delle retribuzioni: in un’azienda in cui ci sono tre lavoratori, uno che percepisce un salario da 5000 euro e due che ne percepiscono 500, il salario medio aziendale è 2000 euro. Lo stesso fenomeno, descritto attraverso l’uso della moda, dà una lettura diversa: il salario più diffuso nella stessa azienda ammonta 500 euro. La mediana, invece, suggerisce che circa la metà dei dipendenti percepisce meno di 500 euro e l’altra metà di più. Le tre affermazioni sono vere, ma ognuna descrive un aspetto diverso della stessa verità. Il problema, in questo caso, non è l’indicatore statistico, ma è l’uso che se ne fa a fare la differenza…
Potrei continuare per pagine a elencare le possibili insidie dei dati statistici, ma diventerebbe estremamente noioso e poco utile. È utile, invece, riflettere su una domanda: “Quali e quante notizie e report relativi alla pandemia hanno rispettato i requisiti minimi richiesti per la produzione e la diffusione di un dato statistico di qualità?”.
Aperti, aggiornati, strutturati, machine readable e corredati dai metadati: i dati prodotti dalle Pubbliche Amministrazioni, per essere realmente utilizzabili, dovrebbero avere almeno queste caratteristiche. Sono decenni, ormai, che si sente parlare delle numerose possibilità offerte dai dati e delle ricadute, in termini di conoscenza e di benessere collettivo, conseguenti alla loro condivisione. Eppure, nonostante nel settore privato sia evidente il valore attribuito ai dati, talmente elevato da essere “pagato” con un corrispettivo in servizi gratuiti di ogni tipo, il settore pubblico sembra ancora troppo inconsapevole delle potenzialità informative di cui dispone e impreparato rispetto alle politiche da attuare. In realtà, l’impreparazione è più che altro dovuta a una specie di ostruzionismo burocratico e formale che impedisce di definire degli accordi snelli e veloci tra le amministrazioni. Per questo, la condivisione dei dati, prima di arrivare alle questioni tecnologiche riguardanti la cooperazione applicativa, viene ostacolata da protocolli d’intesa manzoniani firmati e controfirmati da dirigenti, direttori e presidenti, che, nel migliore dei casi, richiedono mesi di tempo per essere formalizzati. Nel peggiore, le trattative terminano con un nulla di fatto. C’è stato un periodo, circa quindici anni fa, in cui parlare di condivisione e open data andava di moda: chiunque si lanciava in riflessioni fantasiose e proiezioni spericolate di ogni tipo, a volte veniva perfino interpellato chi ne sapeva realmente qualcosa e che, proprio per questo motivo, è stato escluso dai consessi importanti. Poi, la moda è passata e la questione open data è stata considerata più o meno risolta. Anche perché si è palesata una parola sicuramente più comunicativa, misteriosa e affascinante, il termine “big”, che ha avuto il potere di arrestare il processo di diffusione e di condivisione dei dati: tutto si è fermato ad alcune esperienze virtuose e a qualche file di testo che ancora resiste, eroicamente appeso alle pagine di un sito dimenticato, come una vecchia canottiera a costine stesa sui fili arrugginiti di una casa abbandonata. Come spesso accade, la normativa esiste ed è chiara: l’articolo I del CAD prevede che i dati aperti debbano essere:
disponibili con una licenza o una previsione normativa che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato;
accessibili attraverso le tecnologie digitali, comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti e provvisti dei relativi metadati;
resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie digitali, oppure resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione (salvo quanto previsto dall’articolo 7 del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36).
A dispetto delle norme, però, la situazione reale è ben diversa. In primo luogo perché all’interno delle PPAA non sembrano esserci molte persone che conoscano approfonditamente i dati e il loro ciclo di vita e siano in grado di attuare strategie di condivisione stabili e di lungo periodo. I dati prodotti e condivisi dalle istituzioni, almeno di quelle che fanno parte del Sistema Statistico Nazionale, dovrebbero garantire la qualità, la completezza dei metadati e il rispetto degli standard internazionali di diffusione. Per produrre dei dati con queste caratteristiche, occorre industrializzare il processo di produzione e fare in modo che la diffusione non sia il compito di qualche volenteroso che inserisca manualmente un file di testo su uno dei tanti portali, ma la conclusione di un flusso informativo che passi per la raccolta, la validazione, l’archiviazione, la pubblicazione e, possibilmente, la visualizzazione. Costruire “l’industria dei dati pubblici” è molto oneroso e impegnativo: la pandemia ha dimostrato ampiamente l’impreparazione del sistema Paese, soprattutto in una situazione di emergenza, nella costruzione di una metodologia di raccolta rigorosa e affidabile e di un sistema di validazione e di condivisione trasparente e strutturato. Questi limiti, in una condizione di normalità, devono spesso fare i conti anche con la duplice anima delle istituzioni, che producono contemporaneamente dati di flusso e dati di stock. I due processi produttivi, pur avendo degli elementi comuni, sono governati da logiche molto diverse e richiedono l’impiego di metodologie e di tecnologie differenti per quanto riguarda le fasi di validazione, di diffusione e di visualizzazione. I dati di stock sono trattati attraverso l’impiego di tecniche consolidate e vengono aggregati con lo scopo di descrivere un certo fenomeno nella sua interezza, i dati di flusso descrivono l’evoluzione temporale di un fenomeno e, oltre a essere numericamente più consistenti, hanno delle specificità che richiedono trattamenti e tecniche di validazione e di diffusione diverse dai dati di stock, anche in relazione al GDPR. La validazione dei dati di stock, generalmente riferiti a un intero anno, richiede molto tempo in quanto gli archivi si devono consolidare e il processo scientifico per garantirne la qualità è molto oneroso: questo vincolo non consente di avere dati aggiornati in tempo reale, ma permette di descrivere i fenomeni con molta precisione. La validazione dei dati di flusso segue un iter molto diverso, attraverso il quale non è al momento possibile garantire la stessa qualità dei dati di stock, ma in compenso risponde al bisogno crescente di numerosi ambiti di ricerca.
C’è poi una questione delicata che riguarda la distinzione tra i dati di sintesi e i dati puntuali: i primi possono essere trattati e condivisi senza vincoli particolari, i secondi, nella maggior parte dei casi, sono soggetti alla regolamentazione sul trattamento dei dati e impongono numerosi limiti non solo alla diffusione ma anche al trattamento e all’analisi da parte dei ricercatori.
Superato lo scoglio organizzativo e metodologico, che già di per sé rappresenta un limite notevole, c’è da affrontare la questione politica. Nonostante i proclami e le linee guida (molto spesso ignorate) dell’AGID, le pubbliche amministrazioni sono ancora dei feudi nei quali regnano le regulae societatis dei gesuiti, ovvero l’obbedienza incondizionata alle volontà dei superiori gerarchici e la negazione dell’evidenza, attraverso l’omissione della diffusione della conoscenza, per indirizzare il pensiero per mezzo di ordini precisi dettati dalla Divina Provvidenza, che, chissà perché, ha sempre sembianze molto umane. Questo aspetto rende gli archivi delle istituzioni assimilabili a dei fortini inespugnabili, protetti da un recinto chiamato “privacy”, che ne legittima di fatto l’isolamento. Se è vero che negli ultimi anni la collaborazione tra istituzioni è stata rafforzata, e alcuni archivi, soprattutto stock, sono stati condivisi, è altresì vero che le metodologie adottate per la condivisione dei dati sono assolutamente inadeguate rispetto ai mezzi disponibili e fanno ricorso ancora a vecchi e insicuri metodi di trasferimento manuali (upload o FTP). In altre parole, non esiste una governance nazionale che definisca strategie, metodi e infrastrutture di condivisione, esistono più che altro prassi sedimentate che non tengono conto delle evoluzioni del mondo e della tecnologia e, soprattutto, della necessità di creare un’industria dei dati pubblici. Eppure, le pubbliche amministrazioni dispongono di patrimoni informativi ricchissimi, che vanno dalle caratteristiche dei singoli individui ai dati economici, dai fabbisogni di personale ai bilanci, dalle competenze alle professioni svolte, attraverso i quali sarebbe possibile attuare consapevolmente tutte le riforme di cui il Paese ha bisogno. Il rinnovamento della PA passa attraverso un reclutamento del personale più efficace e consapevole, un’erogazione dei concorsi pubblici fluida e trasparente, una valorizzazione del merito, della conoscenza e dell’esperienza dei lavoratori, un’ottimizzazione delle spese e degli assetti organizzativi attraverso l’attuazione di politiche sul lavoro sostenibili in termini economici, produttivi e ambientali. È difficile, se non impossibile, immaginare una riforma che, ancora una volta, ignori il valore dei dati e faccia ricorso alla volontà della Divina Provvidenza. Se è proprio necessario arrendersi all’idea che la salvezza degli uomini non sia frutto del contributo di ciascun individuo al benessere della collettività, ma una specie di miracolo compiuto da uno dei tanti salvatori della Patria, molto cari alle masse, tanto vale identificare il salvatore nei dati e non in un santone improvvisato che dispensi l’elisir delle riforme perfette.
La digitalizzazione, grazie agli ingenti finanziamenti europei destinati alla trasformazione digitale, diventerà presto un tormentone e occuperà gli spazi dei media lasciati inevitabilmente vuoti dalla pandemia. Le parole “contagi”, “assembramenti” e “distanziamento sociale” saranno sostituite dalla parola “digitale”, che accompagnerà qualsiasi altra parola, fosse anche pastiera o ragù. La burocrazia difensiva digitale (BDD) non appartiene al profluvio di termini e acronimi usati per parlare di digitalizzazione, forse perché non sarebbe un vanto ammettere che, in Italia, una delle poche cose che è stata trasformata digitalmente con successo è proprio lei, la burocrazia difensiva, quella specie di malcostume diffuso e conosciuto dai tempi manzoniani di Don Abbondio. La BDD, acronimo di cui rivendico la paternità, è una strategia che si mette in atto senza regole vere e proprie, ma attraverso una serie di comportamenti, di procedure e di pratiche studiati appositamente per proteggere un’istituzione e i suoi rappresentanti attraverso un insieme di meccanismi lenti contorti e inefficaci, ma formalmente perfetti, che permettono, in caso di necessità, di scaricare le responsabilità su qualcun altro fino a confondere la acque al punto tale da non poter individuare più chi sia responsabile di cosa. È diffusa ovunque e viene applicata a qualsiasi contesto: dalle politiche di diffusione dei dati pubblici all’erogazione dei servizi ai cittadini. Chiunque “pratichi” la burocrazia difensiva contribuisce a trasformare un flusso logico qualsiasi in una specie di percorso tortuoso e illogico che complica i processi, anche i più semplici, alla radice.
La burocrazia difensiva prevale sulla tecnologia e rende di fatto arduo parlare di una digitalizzazione vera e propria del Paese, perché non esiste una tecnologia che possa modificare il malcostume collettivo. Un malvivente con l’obiettivo di truffare il prossimo può raggirare gli altri attraverso il web o attraverso una divisa falsa: cambia il mezzo, ma il fine resta lo stesso. Per capire bene come si attui la BDD, vale la pena leggere un libro scritto da Andrea Camilleri e intitolato “La concessione del telefono”, Si tratta di un romanzo in cui è narrata la storia di un commerciante alle prese con una richiesta innocente: ottenere la concessione di una linea telefonica per mettere in comunicazione il magazzino della sua attività con l’abitazione del suocero. Nel romanzo, quella che sembrava una semplice formalità, grazie a una serie di equivoci, di collusioni mafiose, di cavilli burocratici, di imprecisioni nei documenti scambiati tra il protagonista e numerosi personaggi ambigui, impreparati e corrotti, si trasforma in una farsa grottesca. Alla fine, l’unico innocente, colui che aveva chiesto la concessione del telefono, viene accusato di essere un sovversivo e di avere una relazione clandestina con la moglie del suocero (cosa peraltro vera), il quale, avendo scoperto per caso la tresca e il motivo reale della richiesta di installazione della linea telefonica, lo uccide. In tutto ciò, i carabinieri, puniti in precedenza per aver perseguitato il malcapitato, omettendo alcuni fatti e inventandone altri, ricostruiscono l’uccisione a loro piacimento, per dimostrare che la morte del protagonista fosse dovuta a un goffo tentativo di costruire una bomba da utilizzare in un attentato, avvalorando l’accusa di sovversione. Questa storia, ambientata alla fine dell’ottocento, è più che mai attuale e non si discosta molto dalla realtà. Per di più, permette di immaginare cosa accadrebbe nel caso in cui si sostituisse ai documenti cartacei un insieme di strumenti tecnologici, quali possono essere lo SPID, la PEC o un’applicazione per l’archiviazione e la conservazione digitale dei documenti elettronici. Non accadrebbe niente di diverso: l’epilogo sarebbe esattamente lo stesso perché la tecnologia diventa inefficace laddove venga inserita in un processo lacunoso, torbido e ingovernabile. Adeguando la tematica romanzesca ai tempi moderni, la concessione del telefono potrebbe essere assimilata alla richiesta del reddito di cittadinanza, alla richiesta di un trasferimento di residenza o dell’erogazione di un qualsiasi servizio, per esempio nella sanità pubblica. Una visita specialistica si può richiedere attraverso il CUP, ma in alcuni casi, per velocizzare l’iter, si può chiedere contemporaneamente anche al figlio di un’amica, che conosce una scappatoia e suggerisce di compilare un modulo a parte, da firmare digitalmente e inviare tramite la pec a un certo indirizzo, ma per sicurezza anche da stampare e consegnare a mano, dopo averlo debitamente sottoscritto. Se la copia cartacea del documento è accompagnata da un bel cesto natalizio, tanto meglio, l’importante è che formalmente tutto sia regolare.
Uno dei migliori risultati ottenuti dalla digitalizzazione della burocrazia difensiva è proprio questo: la possibilità di dimostrare a un giudice o a un superiore gerarchico la regolarità formale delle procedure adottate, attraverso delle prove da esibire, per scaricare la colpa su qualcun altro. Nella maggior parte dei casi, l’unico strumento che hanno i cittadini per sopravvivere alla BDD è la connivenza abbinata a qualche scappatoia. Il paradosso è che i responsabili di questa situazione non esistono. Per trasformare digitalmente l’Italia bisognerebbe prima di tutto eliminare la burocrazia. Per eliminare la burocrazia è necessario dare fiducia ai cittadini. Per dare fiducia ai cittadini è necessario renderli responsabili e consapevoli attraverso degli investimenti culturali efficaci e di lungo periodo. Per fare degli investimenti culturali è necessario che i rappresentanti dello Stato abbiano una cultura diversa da quella dei cittadini. Ma i cittadini sono lo Stato…
Insomma, per vedere compiuta una vera e propria digitalizzazione, bisogna armarsi di pazienza e ironia, e, soprattutto, non bisogna mai perdere di vista quell’aspetto culturale che ci contraddistingue e che Pirandello aveva descritto magistralmente nel libro “I vecchi e i giovani”.
“Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l’ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spese pazze, cortigianerie degradanti; l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…”.
Quand’è che ho iniziato a sentirmi geneticamente inadeguato alla vita? Dunque, vediamo… a pensarci bene, credo che la battaglia contro l’inadeguatezza sia iniziata da subito, nello stesso momento in cui la mia testolina si è palesata a quella grandissima testa di minchia del ginecologo di mia madre. Diciamo la verità, all’inizio di questa storia ho fatto un po’ lo sborone: ho parlato di carpiati e di uscite trionfali ed eleganti, ma in realtà avevo deciso in tempi non sospetti, più o meno da quando ero uno spermatozoo vagabondo, che non avrei abbandonato quella casa calda e accogliente, nella quale non pagavo le tasse, il vitto e l’alloggio erano gratis e, soprattutto, lo spazio era insufficiente per ospitare altre persone oltre al sottoscritto. Avrei lottato con ogni mezzo a mia disposizione, per rendere la vita difficile a qualsiasi figlio di puttana avesse avuto intenzione di sfrattarmi. Così, il giorno dello sfratto, mi sono ancorato con tutte le mie forze a qualsiasi organo trovassi lungo il periglioso viaggio verso l’uscita. Ho fatto un po’ come quei disgraziati che si legano a un termosifone pur di non abbandonare la casa occupata abusivamente. Non avendo termosifoni a disposizione, però, ho usato quello che ho potuto, fino all’ultimo penoso tentativo di legare il cordone ombelicale al rene di mia madre. Niente, quel grandissimo cornuto la sapeva lunga e, quando ha visto che opponevo resistenza, non ha esitato a infilare le mani dove nemmeno mio padre aveva osato, per cercare di tirarmi fuori. Non aveva previsto di trovarsi davanti a un osso duro, però, e non aveva nemmeno previsto il fallimento del ravanamento uterino. E allora cosa si è inventato? Ha preso una specie di ventosa e mi ha risucchiato fuori con la stessa grazia con cui un idraulico stura un cesso. Il risultato è stato una deformazione permanente del cranio ben visibile, che e mi fa rispondere con un bel “Fatti i cazzi tuoi” a chi mi chiede “Ma cos’hai sulla testa?”. Complimenti, professorone, bel lavoro! È chiaro che se uno nasce in questo modo non può essere ben disposto verso il prossimo. Oltretutto, quel genio di ginecologo, un po’ perché era incazzato, un po’ perché ero rimasto senza fiato all’idea di avere la scatola cranica deformata a vita, ha iniziato a darmi una raffica di schiaffi sul culo per sincerarsi che fossi vivo. Sia chiaro, non ho pianto come tutti i bambini, la mia era una contestazione anarchica vera e propria. Urlavo e mi dimenavo come per dire : “Lasciatemi libere le mani che a questo lo sfonno”. Rideva, il coglione, e non c’è niente che mi faccia imbestialire più di un coglione che ride quando sono incazzato nero. Soprattutto se sono nato da poco. Come dire… sto al mondo da dieci minuti e già l’umanità mi sta sul cazzo.
Dopo quell’esordio in
grande stile, come ho accennato nelle pagine precedenti, le cose sono
considerevolmente peggiorate: non poteva essere altrimenti. Anche perché ero
ignaro dei genitori che la sorte aveva deciso di assegnarmi: i più poveri e mal
assortiti che potessero esistere. Mio padre non era povero, era un aspirante
ricco con ambizioni e manie di grandezza esagerate a cui dava seguito facendo
ricorso a stravaganti bizzarrie. Che so, invece di comprare una villa
sull’Appia antica, prendendo in subaffitto una stanza in un seminterrato delle
case popolari di Piazza Capecelatro. Alfonso Capecelatro, per l’esattezza, un
toponimo scelto appositamente per rappresentare degnamente un luogo di merda,
che tuttora è composto nemmeno da una piazza vera e propria ma da una specie di
slargo occupato in gran parte da una chiesa e contornato da casermoni popolari
fascisticamente squadrati. Ora, capisco la voglia legittima di nascondere la
ricchezza esagerata, che solo un lavoro umile, umiliante e malpagato può dare,
capisco pure la stravaganza di preferire un seminterrato umido in una squallida
periferia a un ambiente lussuoso e confortevole, ma, santo cielo, proprio la
Palerma ci doveva capitare? La Palerma, per quei due o tre che non la
conoscessero, è stata la donna più maliziosa e peccaminosa di sempre, colei che
ha dato un senso alla teoria di Darwin e che, secondo gli esperti,
rappresentava l’anello di congiunzione tra il mandrillo e il capitone. Non ho
mai capito perché fosse soprannominata Palerma, dal momento che non era
siciliana e aveva uno spiccato accento abruzzese; forse perché in quegli anni i
viaggi erano considerati un evento eccezionale e i soprannomi venivano
affibbiati sulla base dei luoghi visitati. Alla Palerma andò di lusso, nel
palazzo c’era anche Furbara, che poi tanto furba non era, e Gnocca, colei che
ebbe la disgrazia di visitare l’omonima città e di beccarsi questo soprannome
in onore della sua cessitudine. Tornando alla Palerma, poiché condividevamo la
stessa casa, non potevo fare a meno di assistere a scene che mi hanno causato
enormi dubbi sull’identità sessuale. È mai possibile che una donna possa
radersi tutte le mattine una barba folta che parte da sotto gli occhi e arriva
fin dove non oserebbe battere il sole nemmeno se ne avesse la possibilità? Non
sarebbe stato meglio soprannominarla, che so, Frate Indovino? A quanto pare no,
e la barba non era nemmeno il suo peggior difetto. Di errori il creatore ne ha
fatti parecchi, ma credo che la Palerma sia stato il suo sbaglio migliore,
quello di cui andare fieri. Quell’errore che si ammette, dopo anni di
negazionismo, una sera a cena con gli amici, tra un bicchiere di Amarone e una
pinta di birra. Per fortuna, guardando oltre l’aspetto fisico, nel tempo ho
scoperto anche lati peggiori: la capacità di litigare col marito,
soprannominato la bestia, utilizzando un gergo da camionista indiavolato,
peraltro molto educativo per un ragazzino di pochi anni. Le liti erano un
crescendo di insulti, che abbracciavano tutte le sfumature di luoghi in cui
andare a far visita e coprivano almeno tre archi generazionali con cui
prendersela. Che soddisfazione, sentirli litigare con vernacolare passione:
molto ma molto meglio dei film trash degli anni ‘80, ai quali sono approdato
già svezzato, con un dizionario di idiomi ben nutrito. Comunque, la cosa che
più mi stupiva di quelle liti non erano tanto i reciproci insulti, quanto il
gesto finale della Palerma: messa in scena di suicidio a base di simulazione di
avvelenamento da candeggina, che fingeva di bere da un fiasco di vino. La prima
volta confesso di averci creduto. Si era accasciata per terra e si contorceva
dai finti dolori come un tonnetto appena pescato. Venne addirittura la guardia
medica, la quale, dopo essersi accertata che l’alito sapeva di carbonara e non
di candeggina, andò via incazzata. La scena del finto suicidio si verificava
con cadenza settimanale, ma una volta ci fu il colpo di scena: lei uscì di casa
sbattendo la porta, senza fingere l’avvelenamento, e la bestia, deciso a
ubriacarsi, scambiò il fiasco di vino Cacchione di Nettuno col fiaschetto in
cui la Palerma conservava la candeggina. Ne bevve una sorsata a garganella e
finì in ospedale. Se la Palerma fosse riuscita a far fuori il marito in questo
modo, sarebbe stato un vero e proprio capolavoro da inserire nei manuali di
criminologia. Invece, dopo l’incidente, si limitò a mettere in giro la storia
che il marito aveva tentato il suicidio per amor suo. Storia che la bestia
smentì ampiamente in diverse occasioni. Non vi nascondo che quel fatto turbò
notevolmente l’armonia della convivenza forzata e diede a mio padre un forte
impulso per cercare non tanto un alloggio popolare quanto una raccomandazione
per ottenerlo. Aveva poche risorse per corrompere i funzionari dell’Istituto
Case Popolari, ma le utilizzò tutte e alla fine riuscimmo a entrare in
graduatoria. Non sto qui a raccontare i festeggiamenti conseguenti alla
pubblicazione delle graduatorie, è più interessante soffermarsi sulle bestemmie
che tirò giù mio padre, quando apprese l’esito della visita dell’ispettore
incaricato di rilevare la nostra situazione patrimoniale. Mia madre, donna di
una lungimiranza sconfinata, per intenerire l’ispettore, ostentò più povertà di
quanto fossimo in grado di dimostrare. Disse di non avere nulla: niente
istruzione, niente soldi, niente prospettive, niente speranze. Solo miseria.
Triste, irrecuperabile e sconfinata miseria. Riuscì perfino a dichiarare il
falso, giurando e spergiurando che mio padre fosse disoccupato e che per tirare
avanti chiedeva aiuto al parroco della chiesa di Santa Maria della Salute. E
quello, giustamente, dopo un primo momento di empatia, si infastidì al limite
dell’incazzatura e fece una relazione in cui dettagliò l’inadeguatezza patrimoniale
in cui versava la nostra famiglia e la conseguente impossibilità di onorare il
pagamento del canone mensile. Devo ammettere che quel senso sopraffino per gli
affari, che mi ha reso tristemente noto, non è merito del mio intuito, semmai è
una preziosa eredità materna che custodisco gelosamente come la colatura di
alici di Cetara. Al momento giusto… zac!, mi avvento come una iena sull’affare
che ho fiutato e faccio puntualmente la minchiata. Sono un collezionista
seriale di fallimenti.
Che poi, se proprio devo essere sincero, un fondo di verità nelle parole di mia madre c’era eccome, perché il parroco spesso ci aiutava come poteva: a volte con qualche vestito usato, altre volte con qualche pacco di pasta, E chi se lo scorda, padre Manganello… Sì, lo so, prima Don Prudenzio e adesso Padre Manganello: d’altronde non è colpa mia se ho avuto una madre chiesolica, aggettivo coniato dal sottoscritto per descrivere i fedeli scaramantici che credono contemporaneamente in Gesu Cristo, nei maghi e nella chiesa cattolica bigotta. Padre Manganello sembra un nome inventato di sana pianta, ma si chiamava proprio così: Alfio Manganello. Non ho mai capito se fosse il vero cognome o una specie di nome d’arte. I preti, si sa, sono un po’ come gli attori: si immedesimano nella parte, ci credono, recitano un copione collaudato e ogni messa è un successo assicurato come i cinepanettoni. Il pubblico, fortuna loro, è ammaestrato da secoli di lavaggi del cervello, quindi non rischiano nemmeno recensioni negative su Famiglia Cristiana. Fatto sta che quel nome, scelto dal destino o dall’interessato, era quanto di più azzeccato ci potesse essere. Almeno quanto Patty Pravo al posto di Nicoletta Strambelli.
Padre Manganello era
palesemente fascista, ma talmente fascista che si faceva il segno della croce
invocando il nome del Padre con un gesto… come dire… alla larga, tendendo la
mano a mo’ di saluto romano, e ripetendo lo stesso gesto per scambiarsi la
stretta di mano coi fedeli in segno di pace. Scambiarsi un segno di pace
partendo dal saluto romano è come carezzare il prepuzio con la carta vetrata.
Esiste poi un’altra versione sull’origine di quel soprannome, sulla quale però
non ci sono fonti certe: i ben informati sostengono che ad averlo coniato sia
stata proprio la Palerma, successivamente a una relazione sacrilega avuta con
lui. Incautamente, si era lasciata sfuggire una confessione a una
riservatissima fedele: “Ce l’ha come un manganello”. A parte la raffinatezza
della metafora, supponendo che non si riferisse al naso e che la tesi fosse
confermata da un rigoroso processo di revisionismo storico, ci sarebbe da
intraprendere azioni energiche per estendere il segreto della confessione anche
ai fedeli, non solo ai preti: i rischi a cui si va incontro durante una
qualsiasi confessione possono essere elevatissimi…
Tuttavia, la supposta deviazione reazionaria è confermata anche da un’altra evidenza: la fondazione dell’ordine dei crociatini di Padre Manganello, un gruppo di ragazzini dell’oratorio, esaltati come gli Harlem Globetrotters, che, a differenza di questi ultimi, erano bassi, non giocavano a pallacanestro e avevano una divisa imbarazzante composta da una calzamaglia bianca e da un mantello azzurro. Durante le celebrazioni liturgiche, sfilavano con il piglio dei supereroi tra i banchi della chiesa, e io morivo dalla voglia di far parte del loro gruppo. Prima di considerare l’appartenenza a qualcosa o a qualcuno un disvalore, c’è voluto parecchio tempo: da ragazzo avevo un bisogno disperato di essere notato, di esistere in funzione dell’esistenza degli altri. L’appartenenza ai crociatini di Padre Manganello sarebbe stata la mia grande occasione, per mostrare a tutti che esistevo: per fortuna le mie richieste vennero rifiutate più volte con sdegno. La verità è che ho speso una buona parte della vita per appartenere a un gruppo, a un’ideale o a una donna e poi, quando ho capito quali e quante prigioni si nascondono nelle appartenenze, ho faticato tantissimo per diventare un uomo libero. Detta così, può sembrare che abbia buttato la mia vita nel cesso, e in effetti non si tratta di un’impressione, è proprio così: appena mi sono liberato dalle prigioni che mi sono costruito con le mie mani, son stato emarginato ed escluso dalla società che conta, quella che ha bisogno di schiavi servili, fedeli e obbedienti. Il mio disagio, però, non è stato dettato dall’esclusione e dall’emarginazione perpetrate da persone che contavano poco meno della laniccia dell’ombelico, a quello ci si abitua facilmente. Essere straniero in qualsiasi posto, essere diverso e dover scontare i pregiudizi: questo è il fastidio che mi accompagna da sempre. Comunque, quella storia dell’esclusione dai crociatini ancora mi fa rodere il culo, non fosse altro perché, facendone parte, avrei potuto approfondire la questione dell’origine del soprannome “Manganello” e dare informazioni più precise. Poiché il mio senso di inadeguatezza alla vita era opprimente, e non sapevo con chi prendermela se non con me stesso, avevo trovato un modo per sfogare la mia rabbia: camminavo per ore nei prati e arrivavo fino alla ferrovia, un posto lontanissimo da casa e, soprattutto, lontanissimo da tutti. Se ci penso, sento ancora il profumo delle margherite a primavera e l’odore della pioggia sulle foglie secche in autunno. Per non parlare del rosso dei papaveri o dei tramonti dietro ai fili dell’alta tensione, che mi sembravano bellissimi: i più belli che avessi mai visto. Poi c’erano i treni, quei treni che non finivano mai. Mi passavano davanti agli occhi a tutta velocità, per andare chissà dove, e io stavo là, seduto in mezzo all’erba, a fantasticare sulle vite di persone immaginarie. Inventavo storie assurde, le scrivevo e arrivavo sempre a una conclusione: la mia infelicità aveva una causa. I responsabili erano quei personaggi di fantasia, che avevano vite bellissime a mio discapito. E io li odiavo. Su quei treni viaggiavano, insieme alla gente, tutte le opportunità a cui ambivo, se ne andavano lontano e io ero seduto in quel prato e non sarei mai riuscito a raggiungerle. Cosa poteva aspettarsi, d’altronde, un ragazzino di periferia a cui il destino aveva riservato un’esistenza triste dentro a un seminterrato buio nelle case popolari di Piazza Capecelatro? Non lo sapevo, ma in quei lunghi giorni, in cui ero solo con le mie paure, stavo costruendo l’uomo che sarei diventato. La mia inadeguatezza, diciamolo, spesso era dovuta anche un po’ all’ingenuità che mi portavo dentro e che mi faceva passare per il coglioncello del gruppo. Hai dato fuoco alla fontana con un cerino spento, adesso chiamiamo la polizia e ti facciamo arrestare, mi dicevano i crociatini di Padre Manganello. No, non sono stato io, lo giuro, non chiamate la polizia, vi prego. E giù risate. E giù pianti. Più piangevo impaurito e più ridevano. E correvo via con tutto il fiato che avevo in corpo. Fuggire, quella era la soluzione. Le fughe solitarie, a cui mi abbandono anche adesso per salvaguardare quel poco che è rimasto del bambino che ero, mi hanno insegnato ad ascoltare il silenzio e a cercare di capirne i mille significati. I silenzi non sono tutti uguali, c’è voluto un po’, ma alla fine l’ho capito. E io, modestamente, ho sperimentato tutti ti tipi di silenzio. Ho cominciato coi silenzi semplici, quelli dettati dall’imbarazzo: sto zitto perché non trovo le parole. O le ho finite. Poi sono passato ai silenzi dignitosi, quelli in cui semplicemente non avevo nulla da dire. Ho perso il conto degli esami a cui mi sono sottoposto, avendo a disposizione soltanto il silenzio come arma. Da una parte c’ero io, dall’altra il carnefice pronto a pontificare un qualche tipo di giudizio. E io spesso questa soddisfazione al carnefice non gliel’ho data. Ho taciuto. L’ho lasciato a bocca asciutta e col suo bel giudizio appeso. E i silenzi saggi? Ah, che bellezza! Quei bei silenzi in cui avrei voluto vomitare fuoco e fiamme, dire con furore “Non capisci proprio un cazzo, è giusto che qualcuno te lo dica!”, ma poi mi sono reso conto che non ne valeva la pena e ho fatto la cosa migliore: sono stato zitto. Poi ho sperimentato anche il silenzio protettivo, se ci penso mi faccio tenerezza da solo. Scegliere con cura le parole che possono ferire e non dirle. Cancellarle. Ometterle e sostituirle con altre più dolci, più rassicuranti, più curative. E accorgersi che la cura fa effetto, che il viso di chi ascolta si illumina e non si spegne. Mi vergogno un po’, ma spesso sono ricorso anche al silenzio cattivo, quello indifferente, per esprimere disprezzo e lontananza. Ma i silenzi peggiori in assoluto, quelli che mi hanno consumato a poco a poco i sentimenti puri e immacolati che avevo, sono stati i silenzi rumorosi. Quelli parlati. Quelli in cui sono stato costretto a riempire i vuoti e le distanze incolmabili tra me e chi mi stava di fronte con parole frugate a caso nel copione della commedia che stavo recitando. Le ho pronunciate contro la mia volontà, Signori Giurati. Mi sono violentato, mi sono sforzato per fingere meglio e dare la falsa impressione di essere presente. E gli altri ci hanno creduto. Uh, sì, eccome se ci hanno creduto. Commentavano. Controbattevano. Si sentivano chiamati in causa. Attori di uno spettacolo in cui pensavano di avere il ruolo del protagonista. Invece, lo spettacolo, per me, era finito già da un pezzo. Ma i presunti protagonisti si ostinavano, rivendicavano il loro ruolo. Pretendevano persino di convincermi che, No, non è così come credi, stai sbagliando. Loro protagonisti, io comparsa. Ruoli invertiti. E io semplicemente non ero là, non stavo parlando. Non avevo mai parlato. Non avevo detto niente. Non avevo più niente da dire. Volevo solo scappare, essere altrove. Non io, il cuore, l’anima. Cancellare tutto. Tornare indietro o andare avanti, non aveva importanza, ma in un posto lontanissimo da quel discorso assurdo che non avrei mai voluto fare. Che tristezza. Che dolore. Che sofferenza. Non sarà mai più come prima. Sarà qualcos’altro. Sarà qualcun altro. Saranno parole diverse e silenzi diversi. Mai più questo silenzio rumoroso. Mai più. Io comparsa di oggi, lei attrice di ieri. Dio, quanto mi sono immedesimato in quella canzone di Lucio Battisti. Che ne hanno mai saputo le persone di me? Di un ragazzino che, sul serio, mica come la finzione della canzone, giocava nel buio, si vergognava, era timido, vedeva i raggi di sole che trafiggevano le inferriate di un buio seminterrato e camminava solo fino alla ferrovia, fino a perdersi nel silenzio di quei prati immensi. Quello sì che era un silenzio vero. Puro. Il silenzio dell’innocenza. Lo stupore di fronte all’immensità dei prati e della solitudine.
Poi tornavo a casa e la realtà si palesava ai miei occhi in tutta la sua brutalità.
– Ndó sei stato fino adesso, brutto fijo de ‘na mignotta? Me farai morì, te pozza scoppià lo core.
Di quanta dolcezza era capace mia madre? Che poi, se vogliamo essere precisi, dare del figlio di mignotta a tuo figlio non è esattamente una mossa azzeccata. È come fare involontariamente coming out. In ogni caso, queste erano le parole accoglienti che mi riservava mia madre quando rientravo. Non capiva il dramma interiore che vivevo, ma non gliene ho mai fatto una colpa. Capisce l’inadeguatezza soltanto chi sa di cosa si parla, probabilmente le persone semplici non provano quel fastidio di sentirsi sempre nel posto sbagliato. O meglio, forse non provano la sensazione di sentirsi sbagliati. Mi sentivo sbagliato rispetto a cosa? Rispetto a tutti gli altri, che sembrano più intelligenti, più belli, più felici, più socievoli, più sicuri. E rispetto a quei dogmi precostituiti che vengono coltivati in quel luogo di perdizione chiamato famiglia. È là che vengono costruiti i pregiudizi, le inibizioni, la paura della diversità, il senso di inferiorità, l’esaltazione della competizione e dell’arrivismo. È la che inizi la tua personale battaglia contro il figlio della portiera, che gioca a calcio e ha un futuro brillante chissà in quale squadra, o con tuo cugino, che è tanto bravo, ha tutti 9 a scuola mentre tu sei una pippa a giocare a pallone, perdipiù hai la media del 2,74 e non fai un cazzo dalla mattina alla sera. Nessuno racconta mai tutta la storia con sincerità, perché probabilmente sono in pochi a conoscerla. Nessuno dice che il figlio della portiera, o il cugino con cui sei stato in competizione e che ti ha rovinato l’esistenza, nella maggior parte dei casi non combina mai niente e diventa un anonimo fattorino insoddisfatto, pagato 2 euro a consegna. Mentre il perdente, il solitario, quello strano, il fallito assicurato che non avrebbe mai combinato niente di buono, riesce se non altro a diventare un uomo. Anche se deve far ricorso a tutta la forza e all’energia che ha in corpo. Capirlo non è facile e nemmeno scontato. Devi arrivare ad avere almeno mezzo secolo sulla groppa, avere la cervicale e, cosa fondamentale, aver sprecato quasi tutte le opportunità che avevi, grazie a una serie infinita di minchiate che hai dovuto commettere per forza, per uscirne vivo. Quando l’hai capito, tendenzialmente è tardi. Almeno per me è stato così. Non ho potuto far altro che rimpiangere tutte le alternative che avevo lasciato andare a seguito di una qualche scelta. Il problema non è la scelta ma sono le alternative che si escludono quando si sceglie. Tu scegli di fare un certo tipo di studi e poi, quando non è più possibile tornare indietro, ti accorgi che c’erano decine di argomenti che ti sarebbero interessati di più. Poi inizi a lavorare, per mettere su casa, per avere dei figli, una famiglia, e ti rendi conto ben presto che hai bruciato tutto il resto. Hai bruciato la possibilità di vivere in altri posti o di avere altre donne, magari migliori, magari peggiori, chissà… Hai bruciato la possibilità di fare altri dieci, cento, mille lavori diversi e di metterti ogni volta alla prova. E devi fare i conti con la persona che non sei diventata. Non sei diventato il musicista che sognavi, o la ballerina, o il pittore. Non sei diventato il vagabondo, il solitario in barca a vela, l’attore o lo speaker radiofonico. E sai perché? Perché hai scelto, e ogni scelta nasconde una qualche prigione da cui diventa difficilissimo uscire. Per uscire dalle prigioni che ciascuno si cuce addosso, e diventare finalmente persone libere, bisogna essere disposti ad affrontare prove dolorosissime che non hanno mai vincitori. Bisogna mettere in discussione tutto, gli affetti, i valori bell’e pronti, le soluzioni a portata di mano, gli amici, la famiglia, e sentirsi dire, Sei cambiato, accettando il colpo serenamente, parando l’accusa con un bel, Ho avuto il coraggio di diventare quello che sono. E come si fa a diventare quel pittore che hai dentro? E io che ne so? Sono l’ultima persona a cui chiedere le ricette di un qualche tipo di ambizione. Io ho fallito, ho mancato il successo. Anzi, il successo ha mancato me. O, meglio, ci siamo schivati. Ci stiamo sul cazzo a vicenda. Lui perché ha come target tutti quelli che nella vita ho sempre evitato, i sicuri, gli ambiziosi, i materialisti, i superuomini che considerano essenziale tutto ciò che io ritengo privo di senso, spreco di tempo: lo status, la ricchezza, il potere, un ruolo di comando. Insomma, il successo ama quelle persone che, viste coi miei occhi, come dire… credono di essere ‘stocazzo e in realtà sono più insignificanti della birra analcolica o della mortadella di soia. Il mio contenzioso col successo è iniziato da quando, a forza di letture, disillusioni e delusioni, ho maturato un briciolo di consapevolezza e ho capito più o meno cosa è importante e cosa non conta niente. È la consapevolezza che mi ha fatto accumulare il tempo per stare con la donna che amo, magari a passeggiare sulla spiaggia, quando tutti si affannano a rincorrere il nulla, in una fredda giornata d’inverno. Dalla consapevolezza al disprezzo delle glorie da stronzi, per parafrasare Guccini, il passo è breve. Ma come, io che non permetto a nessuno di esercitare su di me nessuna forma di potere dovrei ambire a rendere schiavo qualcun altro, per sentirmi importante? Sarebbe come dire “Sono comunista” e poi votare per la Lega. Eppure, non c’è niente di più equo e ben ripartito, tra uomo e donna, di quell’’ingannevole desiderio di esercitare il potere sugli altri, per dimostrazione al mondo, dal vivo, non solo attraverso la tastiera di un computer, le merde che siamo. Una coppia, in fondo, altro non è che un sistema chiuso in cui ci sono un controllore e un controllato, in perenne lotta per trovare e mantenere un qualche tipo di equilibrio. Equilibrio che è sempre talmente instabile da andare in frantumi al primo alito di vento primaverile. Spesso, la parte del controllore è assegnata alla donna, ma sono molto frequenti anche le situazioni opposte. A me è sempre capitata la prima. All’inizio c’era una lei che voleva me. Nel mezzo c’era una lei che non voleva esattamente me, voleva qualcosa che aveva in mente e che aveva proiettato su di me. Praticamente ho sempre vissuto nell’illusione di essere l’uomo giusto quando in realtà ero un punto di vista sbagliato. La cosa grave è che mi sono quasi sempre impegnato a diventare quel punto di vista, cedendo alle estenuanti prove di forza e alle trattative al ribasso. Mi chiedo come mai, dopo i primi tempi, si arrivi sempre alla deriva illusoria del cambiamento. Voglio te, ma tu devi diventare come dico io. Come dire, voglio una Panda, ma pretendo che diventi come una Mercedes. Ma, cazzo, non fai prima a comprarti una Mercedes? No, perché la Mercedes non posso permettermela. Se non puoi permetterti una Mercedes, è inutile che ti ostini a pensare che io abbia i sedili massaggianti in pelle: eppure ho sempre messo le cose in chiaro fin dall’inizio. Ho dei sedili sgangherati, rivestiti con un motivo messicano terribile, che si sconocchiano dopo i primi cinquemila chilometri e fanno un avvallamento al centro che favorisce la comparsa delle emorroidi. Invece, nonostante la chiarezza, la presa di coscienza non c’è mai. Sì consumano vite intere a cercare di trasformare un finestrino a manovella in un silenziosissimo finestrino elettronico. Che poi, è tutto da dimostrare la supremazia della Mercedes sulla Panda. Consuma di più, costa un sacco in manutenzione, si svaluta tantissimo, si rompe né più né meno come l’altra e alla fine ti porta esattamente negli stessi posti. Senza considerare le prove di resistenza coronarica a cui ti sottopone ogni volta che compare un graffietto sul paraurti. Questione di punti di vista, quindi. La verità è che non sono nato Mercedes, non lo sono diventato, e tutto sommato ne sono anche contento. Ho provato a esserlo, questo è vero, ma il risultato non è stato proprio soddisfacente. Da ogni esperienza ho sempre cercato di uscirne migliore, ma il problema è che sono diventato una Panda, col cofano di una BMW, le portiere di una Mercedes, i sedili di una Palio, il design di una Duna, il motore di una Dacia Sandero e le prestazioni di un Ciao senza variatore. Detto così può sembrare un disastro, in realtà quei pezzi “diversi” donati generosamente dagli altri sono stati i libri che non avevo letto, le canzoni che non avevo ascoltato, i baci che non avevo dato, i piatti che non avevo mai cucinato, i pomeriggi che non avevo vissuto: un tesoro di esperienze sistemate come meglio potevo e a cui ho cercato di fare spazio. Fatto sta che le estenuanti trattative, le liti, i musi lunghi e le accuse reciproche non hanno mai sortito l’effetto sperato, proprio perché gli spazi occupati influenzano fortemente quelli rimasti liberi o perché, se proprio devo cambiare, cambio come e quando dico io.
In tutto ciò, l’unica
certezza che ho maturato è questa: non c’è nulla di più pericoloso
dell’ambizione al possesso delle cose o delle persone. Che poi, diciamo la
verità, più che il possesso delle cose a me interessa il possesso del tempo per
fare delle cose. Magari per diventare quel musicista o quel cuoco che ho dentro
e che ha bisogno di tutt’altro, per uscire allo scoperto. Oppure per
cazzeggiare in giro, inseguendo la famosa libellula in un prato, possibilmente
evitando di entrare a far parte di quel mondo di ciechi che ambiscono a una
pensione di invalidità piuttosto che al recupero della vista.
Poiché i metodi tradizionali hanno dimostrato ampie fragilità, nel dubbio, ho deciso di non fare più scelte nette e di puntare a vivere tutte le alternative che una scelta porta con sé. Scelgo le alternative e scarto la scelta. Le scelgo tutte. E non mi sottraggo ai dubbi. Dubito e mi interrogo, quando tutti sono sicuri e vanno avanti come branchi di cefali. Ho imparato a dubitare di tutto e in qualsiasi momento: del mio lavoro, della donna che ho accanto, delle maggioranze, della religione e pure dei crociatini di Padre Manganello. Un giorno, in una delle tante fughe dalla cattiveria che solo chi crede in un qualche dio è capace di esercitare, mi sono chiesto
-Ma veramente voglio far parte di quel gruppo ed essere come loro?
La risposta ovviamente
non poteva che essere negativa. Ho avuto un attimo di smarrimento, mi sono
sentito perso: era crollata la certezza che mi aveva accompagnato per molto
tempo. Si era frantumato l’obiettivo della mia infanzia come un bicchiere
infrangibile che, quando si rompe, si rompe in milioni di schegge che vanno a
infilarsi ovunque. Ne ho vissute altre, di queste delusioni, ci sono state
altre bande, altri leader, altre persone, giovani e anziane, con cui ho
desiderato far bella figura, fino ad arrivare a una conclusione: di cosa
pensano gli altri sul mio conto non me ne frega più un’emerita cippa.
La domanda che mi pongo, a questo punto, è la seguente: “Come ho fatto a diventare quello che sono diventato, a uscire dal tunnel della solitudine e a vincere tutte le timidezze che avevo, trasformandomi magicamente da orso asociale quale ero a cazzone da villaggio turistico?”. Bella domanda… Spontanea. Mi sono colto impreparato e adesso mi tocca improvvisare una risposta. Direi che nella solitudine ci sguazzavo abbastanza bene. Mi ero dato un insieme di regole che ritenevo utili per sopravvivere alla competizione con gli altri e alle umiliazioni delle sconfitte. Ho capito da subito che non ero portato per le competizioni, infatti quelle che ho imprudentemente intrapreso le ho sempre perse tutte. Ho cominciato da quelle scolastiche e ho finito con quelle sentimentali, per conquistare un cuore conteso. Se penso a quanto ho pianto, mi viene da piangere. Certo, vedere scritto su un foglio 1+, il voto ai temi di italiano, con l’aggiunta della frase “il + è d’incoraggiamento”, non mi ha aiutato a vincere le insicurezze. Né tantomeno lo ha fatto la maestra di Italiano, quella volta che mi disse “Strano, lei è autorizzato a copiare dai suoi compagni, tanto non è in grado nemmeno di fare quello”. Poi dici che uno dà fuoco alla scuola e diventa bombarolo. Dicevo che mi sono dato delle regole per superare i miei enormi limiti. La regola aurea, che tra l’altro funziona ancora, è semplice: gli altri possono farmi del male solo se sono io a dargli questo potere. E ritorniamo a bomba sui danni che può fare qualsiasi tipo di potere. Perché do importanza a quello che gli altri pensano di me? Che ruolo hanno gli altri nella mia vita? È proprio necessario viaggiare insieme o meglio soli? Se Socrate non avesse tirato fuori quella storia dei tre setacci, probabilmente avrei avuto un futuro da filosofo, invece, tutto quello che sono riuscito a fare è stato difendermi dei carnefici. Che non è poco. Piano piano li ho allontanati tutti. Tutti tranne un. Ricordo quel giorno di tanti anni fa come se fosse adesso. Pioveva, e io, tanto per cambiare, me n’ero andato a passeggiare nei campi. Non so perché, ma la pioggia mi è sempre piaciuta. Camminare sotto la pioggia, lasciarsi accarezzare. Impossibile sporcarsi, sotto la pioggia. Ha un’azione benefica su di me, più di una doccia dopo una corsa. Insomma, ero là che camminavo con la fretta di chi non può perdersi quel tramonto dietro i fili dell’alta tensione, con il sole che sembra trafigga le nuvole. Se mi dice bene, riesco anche a vedere un arcobaleno, pensavo. Mentre fantasticavo, ho sentito un rumore, una specie di lamento. Poiché conoscevo bene i rumori di quel posto, ho escluso da subito che si trattasse di una volpe o di un cane. C’è qualche intruso che viene a rompere i coglioni proprio qua. Forse qualche coppia che si è infrattata, lontana da occhi indiscreti. Gliela faccio passare io, la voglia… di inquinare il mio paradiso. Insomma, come direbbe Alberto Sordi, mi dirigo come un lumacone, zitto zitto, verso il luogo del misfatto e che ti vedo? Un ragazzino sdraiato a terra.Che ci fai qua? Questo è il mio posto!
-Te lo sei comprato? È anche il mio, di posto…
-Te ne devi andare, questo posto è sacro.
-Mi sono slogato una caviglia e non riesco a camminare. Comunque non me ne sarei andato nemmeno se fossi stato bene.
-Vuoi che chieda aiuto a qualcuno?
-No, lasciami in pace. Voglio morire qui. Da solo.
-Ma non dire stronzate.
Me lo sono caricato sulle
spalle e l’ho portato fino a casa. Facendo ricorso a tutte le mie forze.
Fermandomi ogni dieci metri, con le gambe che mi tremavano per la fatica. E da
quel giorno, i due ragazzini che volevano morire hanno iniziato un cammino
lungo e faticoso. Insieme. Hanno condiviso la timidezza e l’inadeguatezza alla
vita, cercando di proteggersi a vicenda, sostenendosi a turno, mettendosi ogni
volta alla prova per superare quei limiti che sembravano insuperabili. Cercando
di avvicinarsi a quel mondo sconosciuto che li attraeva e li respingeva con la
stessa forza: l’universo femminile. E hanno condiviso anche quel prato immenso,
che era abbastanza spazioso per entrambi e aveva avuto il potere di trasformare
due solitudini in un’amicizia eterna. Quel ragazzino era Alberto.
Cos’è la realtà? Il dizionario definisce la realtà come la qualità e la condizione di ciò che è reale, che esiste in sé e per sé o effettivamente e concretamente. Questo potrebbe significare che per descrivere interamente e precipuamente un fenomeno sia sufficiente osservarlo e accertarne l’esistenza sulla base della propria esperienza, senza bisogno di mettere in discussione l’interpretazione che ne viene data. Il problema è che, in molti casi, la descrizione della realtà non è reale, è un’opinione, e dipende dall’osservatore, dal suo senso critico e dalla sua capacità di analisi. In questo scenario, ognuno costruisce la propria realtà, facendo ricorso alla consapevolezza e alle conoscenze possedute. A chi verrebbe in mente di sostenere che la matematica è un’opinione? Se scrivessi che, sulla base della mia esperienza, per due punti passano tre rette, diverrei poco credibile e probabilmente molti lettori abbandonerebbero la lettura, reputandomi un incompetente: giustamente, peraltro. La questione è proprio in questi termini: la realtà è qualcosa che esiste o è più semplicemente un punto di vista? La scienza moderna, attraverso la teoria quantistica, prevede che una particella subatomica possa essere descritta attraverso l’insieme degli stati che è in grado di assumere e presume che, in mancanza di un’osservazione diretta, gli stati possano sovrapporsi e verificarsi contemporaneamente. Applicando per assurdo questa teoria al mondo reale, si può azzardare un parallelismo: se un uomo è in grado di correre e dormire, potenzialmente può correre e a dormire contemporaneamente… a meno che un osservatore non “misuri” e registri lo stato in cui si trovi l’uomo in un certo momento. Se questo approccio, valido per la descrizione dei fenomeni subatomici, fosse applicabile alla vita reale, sarebbe necessario mettere in dubbio il concetto di realtà e chiedersi: gli oggetti che conosciamo sono reali o assumono quello stato soltanto nel momento in cui li osserviamo? Il sole, ad esempio, si trova esattamente in un certo punto o è là soltanto quando viene osservato? Rispetto a questa domanda, mi sento di rassicurare i lettori: il cosiddetto “realismo locale”, ovvero il principio di azione e reazione applicato alla realtà quotidiana, è in disaccordo con il teorema di Bell, quindi le ipotesi controintuitive della meccanica quantistica non trovano riscontro nella quotidianità. Come si fa, quindi, a descrivere la realtà che viviamo e a renderne oggettiva la descrizione? Esistono realtà locali che possono essere descritte attraverso leggi rigorose, per esempio la caduta di un grave, e realtà locali più sfumate, la cui descrizione può essere influenzata dal punto di vista e dalle interpretazioni personali.
Teoricamente, il metodo per descrivere un fenomeno è sempre lo stesso: c’è la previsione teorica e ci sono l’osservazione, la misura, la raccolta dei dati, l’analisi, il confronto e la diffusione dei risultati attraverso i quali confermare o smentire la toeria. I fatti recenti hanno dimostrato che, in mancanza di un metodo e di una teoria scientifica “vera” da confermare (i due punti per i quali passa una e una sola retta), i dati possono prestarsi a ogni tipo di interpretazione. In poche parole, un set di dati, raccolti, analizzati e interpretati in modo scorretto, può permettere a chiunque di sostenere qualsiasi cosa, anche la più bizzarra: esattamente ciò che è accaduto con l’epidemia, un fenomeno tutto sommato storicamente conosciuto, che è stato affrontato con un metodo approssimativo e inefficace. Gli addetti ai lavori, quelli silenziosi che non si fanno intervistare dai media, manifestano continue perplessità rispetto alla leggerezza con cui vengono prodotti, analizzati e diffusi i dati riguardanti il coronavirus. Le mancanze sono tante, troppe. Fin dall’inizio, è mancato un metodo scientifico vero e prorpio attraverso cui affrontare il problema; è mancato, per esempio, un campione statistico affidabile che desse la possibilità di effettuare una rilevazione dei tamponi efficace e funzionale alla descrizione esatta del fenomeno. Da un dato rilevato in modo scorretto non possono derivare analisi corrette, questo è evidente. Statisticamente parlando, non ci sono grosse alternative: per rilevare correttamente i dati, si possono usare due metodologie: la rilevazione campionaria e la rilevazione censuaria. O si scelgono con un certo criterio gli elementi da misurare o si misurano tutti gli elementi esistenti. La rilevazione “casuale”, attualmente, non è contemplata tra le tecniche scientifiche di raccolta dei dati. Soprassedendo su questa gravissima mancanza, c’è da dire che l’utilizzo dei dati raccolti con la tecnica “casuale”, attraverso l’osservazione disorganizzata, ha prodotto fortunosamente alcuni risultati: sappiamo per esempio che esistono un virus e un fenomeno epidemico il cui andamento è descritto da una certa curva. Sappiamo che il virus è più letale tra i soggetti di una certa fascia di età, in alcuni territori nei quali esiste una precisa distribuzione demografica, e che coesistono una popolazione “probabilmente” fragile e una popolazione “probabilmente” meno fragile. La fragilità, oltre ai fattori anagrafici, spesso è influenzata dalla presenza di una o più patologie pregresse. Queste evidenze, seppur faticosamente, e a colpi di insulti tra gli epidemiologi superstar, sono emerse: finalmente si parla della valutazione del rischio, dell’esposizione (in modo più accurato del tormentone “la mascherina chirugica qualcosa fa”) e della probabilità di sviluppare la malattia covid19. È abbastanza singolare che il concetto di rischio, conosciuto da tempo e applicato in diversi ambiti, dalla radioprotezione alle misure di sicurezza nei cantieri edili, si sia palesato dopo molti mesi in cui è sono state prese misure spesso contraddittorie e socialmente pericolose. Personalmente, ho qualche riserva quando sento i rappresentanti dello Stato incolpare i comportamenti dei cittadini, perché, teoricamente, i cittadini sono lo Stato. In ogni caso, finalmente siamo arrivati a istituire delle regioni “colorate”. Se un lettore attento potrebbe affermare che, con il tempo avuto a disposizione, si sarebbero potuti disegnare dei cluster territoriali più precisi e meno vasti, caratterizzati magari dalle caratteristiche demografiche e sociali degli abitanti e dalla densità abitativa locale, un lettore meno attento (e sui social ce ne sono stati parecchi) potrebbe chiedersi perché si sia utilizzato il colore giallo e non il verde: si tratta forse di un complotto della lobby dei pastelli? No, forse, più semplicemente, come nel caso delle allerte meteo, il colore verde viene associato a situazioni prive di rischio… e attualmente non esistono zone a rischio zero.
Vivere significa rischiare, questo è evidente. Anche le situazioni più rassicuranti, come possono essere le attività condotte tra le mura domestiche, espongono a un rischio più o meno alto. Le questioni su cui varrebbe la pena soffermarsi a filosofeggiare, magari in un altro articolo, riguardano la percezione degli individui rispetto al rischio e l’abitudine al pericolo, oltre alla sua sottovalutazione o sopravvalutazione. Per esempio, è molto rischioso sottoporsi a cure ospedaliere (circa 50.000 decessi l’anno) o spostarsi con un qualche mezzo di locomozione privato (circa 80.000 decessi l’anno), ma l’abitudine al pericolo rispetto a questi temi e la sua sottovalutazione sono talmente radicati nel tessuto culturale che (quasi) a nessuno verrebbe in mente di avviare una campagna mediatica contro gli spostamenti in motocicletta o di invocare un “lockdown” automobilistico. Poiché il rischio è un concetto generale applicabile a diverse realtà, è possibile ricondurlo facilmente anche ai fenomeni epidemici. E la misura, seppur imprecisa, ha evidenziato un rischio maggiore per alcuni individui più fragili di altri. Da una stima spannometrica, che si può fare velocemente consultando il sito http://dati.istat.it, emerge che la popolazione residente, per la fascia di età che va dai 70 anni in su, è composta da oltre dieci milioni di persone.Circa sette milioni, se si prendono in considerazione gli ultrasettantacinquenni. Sappiamo che un sesto della popolazione è a rischio e sulla base di questa evidenza è necessario utilizzare i dati disponibili, per indicare ai decisori politici cosa si può fare in termini sociali, economici e demografici, cercando possibilmente di disegnare uno scenario futuro sostenibile. Per fare questo, i dati demografici non sono sufficienti: è necessario integrare diverse fonti, perché, come si dice spesso tra gli addetti ai lavori, un dato solo è sempre in cattiva compagnia. I dati, quando vengono associati ad altri tipi di dato, possono assumere significati diversi e fornire chiavi di letture più efficaci. Sapere che gli over 70 sono più di dieci milioni è importante, ma sarebbe interessante rispondere a una serie di domande alle quali, per il momento, non è stata data una risposta chiara. Quanti (o in che percentuali) vivono in famiglia? Quanti (o in che percentuali) nelle RSA? Quanti possono usufruire di una rete di protezione familiare? Quanti hanno bisogno di assistenza sociale? In che condizioni di salute si trovano? Quante e quali patologie pregresse hanno? In che condizioni economiche si trovano? Quali sono le città in cui si concentrano? E nei piccoli centri? In quali fasce di età si distribuiscono le diverse patologie? Quali sono i cluster territoriali delle fragilità da proteggere? Questo relativamente all’emergenza, poi ci sono le questioni relative alle ricadute economiche e sociali sulle quali non è stata avviata una riflessione seria e non ci sono, almeno all’apparenza, strategie a medio termine condivise dai mezzi d’informazione. L’unica cosa certa è l’incertezza e, francamente, con le conoscenze moderne, non possiamo permettercelo. Laddove si giochi con la vita e con la sofferenza delle persone, vita e sofferenza che non sono da intendersi soltanto come perdita e dolore per una certa malattia, ma anche in termini di disagio sociale, economico e di relazioni umane profondamente compromesse dai provvedimenti governativi, è quantomeno auspicabile che le decisioni siano prese attraverso una consapevolezza reale della realtà. Laddove i dati e le analisi non vengono condivisi, e la condivisione dei dati è un’altra grande mancanza del sistema contro la quale è in corso una vera e propria mobilitazione da parte dei ricercatori, si diffonde la sensazione che i provvedimenti e le restrizioni siano ingiusti e non vengano dettati dalla ragione ma dall’arbitrarietà discrezionale di chi non sa e, soprattutto, non sa cosa fare. Laddove i provvedimenti discrezionali non vengono supportati dal rigore dei dati, ma dettati da un comitato tecnico composto da personaggi più in cerca di gloria che di verità, possono verificarsi facili strumentalizzazioni da parte delle frange estremiste o, peggio, negazioniste. La leggerezza con cui, in questo momento storico, si parla dei dati è pericolosissima e sta creando un relativismo scientifico imbarazzante, che leggittima qualsiasi interpretazioni della realtà, sminuisce il ruolo della scienza e dà origine a fazioni contrapposte e in continuo conflitto. Lo studio dei dati è una questione seria che richiede preparazione e serietà: non si presta ai punti di vista personali, come può accadere per il fuorigioco di una partita di calcio. Per descrivere la realtà locale di un fenomeno osservabile esistono metodi e strumenti precisi: la sovrapposizione degli stati quantistici è meglio lasciarla alla fisica.
E pur si muove, non disse Galileo, perché in realtà la frase fu coniata da Giuseppe Baretti, per abiurare la sua stessa abiura. Basterebbe questa contraddizione, per rendersi conto di quanto sia affascinante e controversa la storia di quest’uomo, che ha contribuito in modo determinante alla crescita della conoscenza collettiva. Le intuizioni di Galileo Galilei, le sue idee e il suo coraggio hanno trasformato lo studio della scienza, che per molti secoli è stato una “questione filosofica” e da un certo punto in poi è diventata “moderno”. ll giovane Galileo, benché fosse anarchico e ribelle, ha subito fortemente l’influenza del pensiero di Aristotele e ha mostrato qualche ragionevole dubbio (chi non l’avrebbe avuto?), prima di mettere nero su bianco il suo metodo scientifico e stravolgere completamente e irreversibilmente lo studio dei fenomeni naturali. Lo strumento narrativo scelto da Galileo per raccontare i risultati delle sue ricerche fu il dialogo tra il galileiano Salviati, l’aristotelico Simplicio e il saggio Sagredo. Nella sua opera più celebre, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, è riportata la frase che decreta contemporaneamente la fine dell’approccio filosofico alla scienza e la fine del sistema tolemaico: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri,ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica,e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente la parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Poiché questa affermazione avrebbe potuto essere fraintesa, il fumantino Galileo scrisse, nella Lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, anche le istruzioni per l’uso del metodo. Probabilmente, infervorato dalla grandezza delle conclusioni a cui era giunto, si fece prendere un po’ la mano dall’entusiasmo e, visto che c’era, dichiarò anche guerra alla chiesa. Così, in un colpo solo, uccise contemporaneamente Aristotele e Dio. La frase incriminata è la seguente: “pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante”.
In poche parole, Galileo afferma che per descrivere i fenomeni naturali la fede e la filosofia non servono, bisogna ricorrere alla “sensata esperienza” e alle “necessarie dimostrazioni”, ovvero a quei metodi che nei testi moderni prendono il nome di metodo deduttivo e metodo induttivo. Le conclusioni che si traggono da questo metodo non debbono essere messe in dubbio anche laddove le Scritture affermano il contrario. Il tutto preceduto da una parola che viene ancora usata beffardamente per esporre un’idea senza esporsi alla gogna: pare. Di solito funziona, tranne quei casi in cui c’è di mezzo la Santa Inquisizione…
Perché scomodare addirittura l’anima tormentata di Galileo, che già in vita aveva avuto i suoi tormenti con l’aldiqua, per parlare della logica data driven? Perché, in qualche modo, nella descrizione del cimento (esperimento) in cui vengono sintetizzati i risultati della sensata esperienza riguardante il moto di un corpo lungo un piano inclinato, vengono gettate le basi non solo per interpretare i fenomeni naturali ma per descrivere qualsiasi tipo di fenomeno. In poche parole, l’esperimento galileiano attraverso il quale si dimostra la teoria del piano inclinato passa attraverso 4 fasi: l’osservazione, la rilevazione dei dati per mezzo della misura, l’analisi e le conclusioni. Praticamente, gli stessi passaggi necessari a un manager per prendere delle decisioni consapevoli. Supponiamo per assurdo, molto per assurdo, che un Galileo dei giorni nostri, un po’ meno arruffone di CarCarlo Pravettoni, sia chiamato a decidere se mantenere aperta la sede di una certa azienda, se erogare un servizio di assistenza informatica h24, o come riallocare il personale rispetto allo smart working, o ancora come ottimizzare gli spazi, valorizzare il personale o definire in modo imparziale eventuali avanzamenti di carriera. Sicuramente, per evidenziare l’importanza dei dati a supporto delle decisioni, Galileo scriverebbe un trattato, sotto forma di dialogo, tra Salviati, il sostenitore del cambiamento, e Simplicio, quello resistente e ancorato alle vecchie dinamiche lavorative.
Salviati: Continuar così è da dementi, lo mondo intorno a noi è cambiato e mi dolgo che tu non ne favelli.
Simplicio: Lo mondo ha sempre funzionato così.
Salviati: Lo germe maligno di Arisotele ti fa proferir bestemmie… la natura “ha sempre funzionato così”, non l’umano e insulso mondo
Simplicio: Io dico che lo sommo manager perderebbe il controllo dei dipendenti, se si attuerebbe lo smart working.
Salviati: Attuasse, Simplicio, attuasse… A parer mio, lo sommo manager ha paura di cambiare perché vuol mantener lo magno potere.
Simplicio: Lo magno potere regola lo mondo.
Salviati: C’è mondo e mondo! Lo mondo sensibile è regolato dallo magno potere della natura. Lo mondo di carta è regolato da quel coglion poter di quei che portan toga. E io ne scrissi, di questi sventurati… Questi dottor non l’han mai intesa bene, Mai son entrati per la buona via, Che gli possa condurre al sommo bene. Perchè , secondo l’opinion mia, A chi vuol una cosa ritrovare, Bisogna adoperar la fantasia, E giocar d’invenzione, e ‘ndovinare;
Simplicio: Dio solo sa quanto lo cambiamento fa paura.
Salviati: L’uomo creò dio a sua immagine, per spiegar quel che intender non sa. Questo par che c’insegni la natura, Che quand’un non può ir per l’ordinario, Va dret’a una strada più sicura. Lo stil dell’invenzione è molto vario, ma per trovar il bene io ho provato che bisogna proceder pel contrario: cerca del male, e l’hai bell’e trovato. Però che ‘l sommo bene e ‘l sommo male s’appaion com’i polli di mercato.
Simplicio: Mi confondi, maestro, col tuo eloquio…
Salviati: Lasciamo stare lo poter togato, io mi rivolgo all’uom più che intendente e con buona veduta d’orizzonte. Perché degli altri dissi apertamente Se tu gli tasti, o son pieni di vento, O di belletti o d’acque profumate,O son fiascacci da pisciarvi drento. Dammi lo dato d’ogni dipendente, affinché io possa con certezza, promuovere o bocciare chiaramente.
Simplicio: Lo dato ce l’abbiamo frammentato, così da favorir la simpatia e spesso seppellire l’intelletto. La colpa non è mia, ma del togato colpevol d’ogni frode e d’ogn’inganno. Si vede chiaro che n’è sol cagione insieme allo maligno sindacato.
Salviati: Mi dici che dovrei avere intorno, al posto di un esercito pensante, masse di invertebrati perdigiorno?
Simplicio: Lo volere dell’uomo è irrazionale.
Salviati: Lo mio volere è la verità e l’uomo preferisce la menzogna.
Un dialogo simile, coi dovuti adeguamenti lessicali, non sarebbe affatto surreale anche perché alcune frasi sono state scritte realmente da Galileo nel Capitolo contro il portar toga, un sonetto lungimirante e futuristico che inizia descrivendo la cecità di colui che cerca il sommo bene laddove non esiste.
Mi fan patir costoro il grande stento,
Che vanno il sommo bene investigando,
E per ancor non v’hanno dato drento.
E mi vo col cervello immaginando,
Che questa cosa solamente avviene
Perchè non è dove lo van cercando
Un manager galileiano che abbia il coraggio di adottare un metodo pseudoscientifico per affrontare l’ingrato compito di prendere le decisioni più adeguate ai problemi, dovrebbe in primo luogo osservare a lungo le dinamiche lavorative, studiare i processi e conoscere a fondo le caratteristiche del personale. Anzi, no, in primis dovrebbe contornarsi di persone fidate e competenti. Dopodiché, a seguito di un’attenta analisi degli obiettivi, strategici e non, potrebbe suddividere l’organizzazione in aree. Senza entrare nel merito delle specificità che ogni realtà aziendale possiede, si possono elencare alcune macro aree comuni più o meno a tutti i settori.
Economica
Logistica
Produttiva
Risorse umane
Informatica
Ciascuna area contiene ovviamente delle specificità, alcune delle quali sono comuni a molte realtà. L’area economica comprende le spese, i bilanci e gli Investimenti, la logistica comprende le sedi, gli spostamenti e il patrimonio, le risorse umane comprendono la gestione delle carriere, la formazione, il benessere lavorativo, le competenze, la pianificazione dei abbisogni professionali e formativi, et cetera, et cetera.
I settori di un’azienda sono connessi strettamente tra loro. Come si fa, per esempio, a decidere se mantenere una sede, se costruirne una nuova o se ottimizzare gli spazi esistenti, ricorrendo a un utilizzo consistente dello smart working? Si fa col metodo galileiano: misurando, raccogliendo i dati, analizzandoli, rappresentandoli attraverso grafici e tabelle, per capire quel è la soluzione migliore e facendo una scelta consapevole, quella che, nella maggior parte dei casi, non deriva dalle sensazioni personali ma dalla razionalità. In ogni organizzazione esiste un patrimonio enorme e inutilizzato di dati e informazioni. Purtroppo, molto spesso c’è da fare una distinzione tra i dati disponibili quelli “potenzialmente” disponibili. Per esempio, sarebbe relativamente semplice adottare delle politiche consapevoli e indipendenti sul personale, se si avesse a disposizione una base dati integrata in cui far confluire tutte le informazioni riguardanti i lavoratori. Tutte le informazioni non significa il nome, il cognome e il numero di matricola, significa integrare all’anagrafica le competenze, gli stili di lavoro, le conoscenze, la formazione, l’eventuale anzianità (tanto cara ai sindacalisti) e la storia lavorativa; significa disporre di una banca dati dei curricula aggiornata e indicizzabile dai moderni sistemi di ricerca; significa, misurare gli obiettivi raggiunti, le capacità e le specificità individuali e disporre di pannelli di sintesi efficaci per capire i processi lavorativi all’interno dei quali è inserita una certa risorsa o avere un sistema di rating per definire autonomamente, senza vincoli e pressioni esterne, eventuali avanzamenti di carriera. Quali sono, dunque, gli ostacoli a una gestione consapevole del lavoro? L’ostacolo maggiore non è di natura pratica ma teorica: i dati non mentono e usarli significa privare i decisori dell’arbitrarietà di una scelta malevola. Le scelte razionali fanno paura perché costringono a prendere atto della realtà, eliminando qualsiasi forma di distorsione e di falsa narrazione. I dati possono far emergere criticità e specificità che vengono ignorate a seguito della scarsa conoscenza, dell’arroganza o, peggio, a favore di decisioni poco trasparenti. I dati dicono la verità laddove potrebbe esserci la necessità di mentire. I dati minacciano fortemente la possibilità di comandare senza possibilità di replica, di scegliere a proprio piacimento e di imporre delle regole assurde dettate dai gusti e dai capricci personali, per questo vengono ignorati all’interno di molte istituzioni pubbliche, laddove l’efficienza non è strettamente connessa alla produzione. Un’organizzazione che ignora i dati ha paura della verità e, per funzionare, ha bisogno di creare una realtà basata sulla menzogna. E chi si muove?, direbbe Galileo, se si trovasse in una situazione simile.
Il paradosso del gatto di Schrödinger è tra i paradossi moderni più conosciuti. È nato con l’intento di dimostrare l’inapplicabilità della meccanica quantistica al mondo macroscopico, giungendo alla conclusione che, in uno stato di sovrapposizione quantistica, un gatto potrebbe essere contemporaneamente vivo e morto, se collegato a un evento subatomico casuale. Negli anni, il paradosso del gatto di Schrödinger è stato esteso metaforicamente a molte situazioni della vita reale perché la realtà ha ampiamente dimostrato che si possono verificare accadimenti strani almeno quanto il duplice stato quantico del gatto. A questo gioco, non può mancare il paradosso del dirigente di Schrödinger, quello che prende in considerazione uno stato di “distopia quantica sociale” in cui i dirigenti possono essere contemporaneamente troppi e pochi. Sono troppi, è evidente, perché il sistema e la piramide del potere, per funzionare, hanno bisogno di un esercito di manager ammaestrati dalla ginnastica di obbedienza, che a loro volta si circondano di collaboratori consenzienti e privi di senso critico. Si tratta di una nuova forma di schiavitù regolata non dalle frustate ma dalla distribuzione gerarchica di privilegi e di briciole di potere. Basta far parte della cordata giusta, per scalare in fretta la piramide e raggiungere un qualche tipo di successo. I libertari colti potrebbero pensare che si tratti di una gloria effimera sintetizzata efficacemente da Francesco Guccini, nell’Avvelenata, con tre parole efficacissime, ma, come si dice, solo gli ignoranti sono sicuri di quello che dicono e di questo ne sono certo …
Per la scalata, oltre ad agire apertamente o meno in nome di qualcuno più potente, servono anche una buona dose di cinismo e di arroganza, o, meglio, di tracotanza. Le capacità spesso sono un optional, anzi, penalizzano. Invece, un curriculum ricco di obiettivi apparentemente prestigiosi, che spesso sono costruiti ad arte o sono frutto dell’appropriazione indebita del lavoro altrui, si è dimostrato un ottimo strumento per intraprendere la scalata. La conoscenza e la consapevolezza, nelle selezioni, rappresentano un minus, poiché una testa libera, pensante e indipendente infastidisce, intralcia gli obiettivi del sistema e, soprattutto, compromette il buon funzionamento della piramide. Proprio per questo, la pubblica amministrazione in molti casi è arrivata al paradosso di selezionare i manager attraverso procedure superficiali, che, volutamente, non approfondiscono le capacità reali, ma si limitano a chiedere ai candidati un curriculum e una imbarazzante lettera motivazionale. Al contrario, i concorsi rivolti al reclutamento del personale non dirigenziale seguono orientamenti diametralmente opposti: le selezioni degli “inferiori” prevedono spesso prove multiple complesse, titoli a cui attribuire punteggi sulla base di regole fantasiose e improbabili e una serie di misure di sicurezza di ogni tipo per garantire, si fa per dire, una certa trasparenza.
L’ostacolo principale, nell’attuazione della trasformazione digitale, è essenzialmente questo: ogni tipo di cambiamento passa per le scelte di dirigenti e collaboratori che hanno tutto l’interesse a lasciare le cose inalterate o che, gattopardianamente parlando, cambiano tutto affinché non cambi nulla. In tutto ciò, il gatto di Schrödinger è un prezioso alleato perché permette, a chi agisce in malafede, di confondere gli stati quantici e di sostituire il senso del dovere col senso del potere, o la parola dirigere con la parola comandare. Nonostante il CAD preveda un insieme di compiti ben definiti e uno e un solo Responsabile per la Transizione Digitale, a cui è richiesta una precisa visione strategica e a cui è attribuito un ampio potere decisionale, le amministrazioni pubbliche tendono a tralasciare le linee guida, a sminuire la figura del RTD, e a dare libero spazio alle libere interpretazioni. Questo orientamento non sarebbe nemmeno sbagliato, se la libera interpretazione fosse supportata dalla consapevolezza e dalla conoscenza. Ma chi controlla l’operato del RTD e dei comitati di valutazione? Anche in questo caso, esistono delle procedure di valutazione delle prestazioni dirigenziali, che purtroppo sono gestite dalla stessa dirigenza e prevedono una valutazione ridicola degli obiettivi rivolta esclusivamente all’autoattribuzione di un premio in denaro elargito più o meno democraticamente a tutti, meritevoli e non.
Certo, se gli obiettivi fossero qualcosa di diverso rispetto al perseguimento degli interessi personali e al mantenimento dei privilegi e della posizione di comando, la valutazione avrebbe una valenza diversa e la collettività ne trarrebbe beneficio. E se la valutazione fosse guidata dagli “inferiori”, e non dalla piramide, ne trarrebbero beneficio anche i lavoratori. A supporto di questa struttura sociale distopica, ci sono delle regole assurde e delle dinamiche contorte che proteggono gli interessi delle caste e danneggiano le fasce deboli, regole che solo in un Paese privo di identità e di senso critico possono essere accettate. Prima fra tutte la regola assurda, per alcune aree scritta, per altre sottintesa, che prevede la rotazione degli incarichi della dirigenza. Questo significa che un manager dell’area giuridica è difficilissimo che venga sostituito o demansionato per manifesta incapacità: il massimo della punizione a cui può andare incontro è il passaggio a un altro incarico, magari presso altre amministrazioni, a occuparsi di argomenti di cui non sa nulla, per esempio di trasformazione digitale. Quindi, nella pubblica amministrazione, accade ciò che Jhonatan Franzen ha riassunto magistralmente, nel libro Le correzioni, con queste parole: “i suoi dirigenti erano stati rimpiazzati come le cellule di un organismo vivente, o come le lettere in una partita di Substitution in cui merda diventava merla poi gerla e poi perla”.
Non sempre e non dappertutto è così, per fortuna. Ci sono dirigenti liberi, indipendenti e con la capacità e la propensione al cambiamento, ma purtroppo sono pochi e hanno la vita estremamente difficile. Le loro idee brillanti passano per la valutazione di comitati di valutazione costituiti perlopiù da dinosauri prossimi alla pensione, che lavorano da sempre nello stesso modo e non hanno alcun interesse a cambiare le cose perché l’unico interesse che coltivano è mantenere una posizione di comando. Di conseguenza, il cambiamento digitale auspicato dalla politica è, nella maggior parte dei casi, un percorso a ostacoli estremamente lento, che sfugge completamente a qualsiasi tipo di regola e di controllo . Per accelerare questo processo è necessario trasformare la dirigenza, selezionando manager competenti e capaci.
La parola competenza, come ho avuto modo di specificare in altri articoli, deve essere usata con parsimonia perché, se non viene associata a una definizione precipua, rischia di non avere un vero e proprio significato. L’evidenza dimostra che i migliori manager non sono selezionati esclusivamente sulla base delle “competenze” (reali o presunte) tecniche, ma perlopiù attraverso la verifica di un insieme di caratteristiche, difficilmente individuabili, che approfondiscono gli aspetti culturali e caratteriali dei candidati. Al contrario di quanto si pensi, la capacità di raggiungere degli obiettivi, pur essendo una caratteristica importante, spesso subordinata alle competenze tecniche, non è la caratteristica principale di un dirigente. La caratteristica principale è la capacità di creare le condizioni e la cultura lavorativa per permettere a un gruppo di raggiungere degli obiettivi. Si tratta di una capacità rara da trovare perché comprende un coacervo di caratteristiche personali, che possono essere valorizzate o sminuite dalle dinamiche interne e che potrebbero entrare in conflitto con l’intera organizzazione. Per esempio, è comprovato che la responsabilizzazione del personale e la riduzione del controllo e delle misure oppressive, sul lungo periodo, ripagano molto più di un regime oppressivo e terroristico.
Purtroppo, se l’orientamento aziendale prevede una cultura del lavoro basata sulla paura e sulle punizioni, questo genere di caratteristica potrebbe non emergere facilmente o dimostrarsi addirittura controproducente per quella particolare situazione. Lo stesso discorso vale per quei manager che tendono a favorire il benessere, l’inclusione e la condivisione della conoscenza. In un sistema fortemente competitivo, in cui prevalgono quasi sempre l’egoismo e gli interessi personali ai danni del benessere collettivo, la condivisione è controproducente: non sempre si può vantare un team composto da menti newtoniane che guardano lontano, salendo sulle spalle dei giganti. È evidente che alcune logiche distorte si possono cambiare soltanto con una narrazione diversa del lavoro e attraverso una cultura differente. Se per certi aspetti il benessere collettivo viene considerato un’utopia marxista, i risultati del malessere collettivo, perpetrati dal sistema piramidale, gerarchico e clientelare, sono una distopia reale difficilmente sovvertibile. Il potere decisionale e la visione strategica sono invece fondamentali per il raggiungimento di un obiettivo qualsiasi. Purtroppo, la parola obiettivo è astratta e fumosa almeno quanto la parola competenze: mentre è chiarissimo, per un’azienda privata, quale sia l’obiettivo da raggiungere, ovvero il profitto attraverso la vendita di prodotti o servizi, per le amministrazioni pubbliche gli obiettivi sono spesso pure invenzioni della fantasia senza alcun tipo di valenza o di riscontro pratico. Un obiettivo può essere lo studio dei neutrini attraverso LHC (l’acceleratore di particelle Large Hadron Collider), ma può anche essere la compilazione di un foglio di calcolo o la creazione di documenti inutili: a tutti gli obiettivi, per un’inspiegabile e ottusa logica di uguaglianza del pensiero, che continua a essere perpetrata dal diabolico binomio amministrazioni-sindacati, viene attribuita la stessa importanza ai fini carrieristici e remunerativi.
Questo significa che, mentre la popolazione ha ben chiara la differenza tra i benefici derivanti dalla scoperta di un macchinario per la cura dei tumori e un foglio di calcolo su cui vengono inserite manualmente delle x, per i manager, chiusi tra le mura di una pubblica amministrazione qualsiasi, mancanti di una vera visione strategica, gli obiettivi del personale sono confusi con delle attività assolutamente inutili e routinarie da utilizzare esclusivamente per dimostrare il raggiungimento dei propri obiettivi e accaparrarsi un congruo premio in denaro. E si torna all’inizio dell’articolo e al paradosso degli obiettivi di Schrödinger: un obiettivo, in uno stato quantico dipendente dalla gestione manageriale, può essere contemporaneamente prestigioso o inutile. In questo caso, però, la casualità degli eventi quantistici c’entra ben poco: dipende tutto dalla causalità con cui si scelgono i dirigenti.
Parafrasando Thomas Edison, si potrebbe dire che i discorsi sulla trasformazione digitale contengono il 99 per cento di fuffa e l’1 per cento di contenutiParafrasando Thomas Edison, si potrebbe dire che i discorsi sulla trasformazione digitale contengono il 99 per cento di fuffa e l’1 per cento di contenuti. La parola fuffa deriva probabilmente dal sostantivo maschile “fuffigno”, usato in Toscana per indicare l’ingarbugliamento dei fili di una matassa. Questa immagine è molto rappresentativa e sintetizza alla perfezione il contenuto di questo articolo, che ha la presunzione di fare chiarezza rispetto al racconto fuffigno della trasformazione digitale. La fuffa digitale comprende una vasta area tematica, che va dall’open data alle logiche top down e bottom up, in cui chiunque può permettersi di dire qualsiasi cosa, senza peraltro essere contraddetto. Per avere un contraddittorio è necessario confrontarsi con qualcuno che conosca a fondo l’argomento e la conoscenza approfondita di certi argomenti richiede, stavolta la citazione di Edison è calzante, il 99 per cento di sudore e l’1 per cento di ispirazione. Purtroppo, chi è impegnato a sudare, a studiare e a cercare l’ispirazione di solito non è un decisore politico, non fa carriera e non fa parte di nessun comitato scientifico. Anzi, molto spesso viene escluso da qualsiasi tavolo di discussione proprio perché, contraddicendo, infastidisce.
D’altronde, la vasta area tematica della fuffa digitale dà l’illusione a inesperti e arrivisti di poter comprendere a fondo un fenomeno molto complesso, leggendo qualche articoletto qua e là. Parlare con stile fuffigno è pratico ed efficace: pratico perché può farlo chiunque, efficace perché permette di ottenere visibilità o progressioni di carriera velocemente e senza troppo impegno. Bastano la cosiddetta infarinatura, una discreta capacità dialettica, un buon palcoscenico e la task force è assicurata. Far parte di una task force sulla trasformazione digitale, ma non solo, è un’esperienza mistica, una prova di pazienza e di bontà infinite, un esercizio di autocontrollo e disciplina continuo, per non manifestare apertamente il dissenso e assecondare gli interlocutori con sorrisi impostati e frasi sibilline. La parola d’ordine delle task force è “riunione”, l’obiettivo è incontrarsi una, dieci, cento, mille volte e parlare, parlare, parlare. Il problema è che ogni riunione sembra la fotocopia dell’altra: dopo dieci minuti, si entra in un loop infernale nel quale si affrontano discussioni senza fine riguardanti concetti astratti, opinioni personali, relativismo cosmico e, a volte, frasi spericolate tipo “se io avrei la possibilità di…”. È in quelle occasioni che gli esperti della fuffa parlano di competenze digitali, di digital divide, di machine learning, di blockchain, di intelligenza artificiale e attuano, a parole, riorganizzazioni, scelte tecnologiche e provvedimenti fantascientifici volti a risolvere qualsiasi situazione, compreso l’annoso problema del polline sulle serrande. Si potrebbe obiettare che la differenza tra idea e azione, tanto cara a Georges Brassens, non si riferisce soltanto alle questioni riguardanti i gorilla, perché un conto è parlare di cucina, un altro conto è stare davanti ai fornelli.
Obiezione accolta. Quindi, più che chiamare in causa la logica bottom up, o top down, che potrei citare in modo capzioso per dare consigli evanescenti su come attuare efficacemente la trasformazione digitale, preferisco evitare figuracce, partire da lontano e affidarmi alla storia e all’infallibile logica contadina. Ricordate gli anni Settanta? Si è trattato di uno dei periodi più densi e complessi della storia contemporanea. In quegli anni, è stato compiuto un salto in avanti impensabile rispetto ai diritti e all’uguaglianza. È stata una vera e propria rivoluzione, scandita non dalla marsigliese ma da storie di locomotive lanciate contro le ingiustizie e indiani metropolitani, i sessantottini, falliti insieme ai loro ideali e a una serie infinita di dèi ai quali non credere, dal dio del capitalismo al dio del consumismo. Gli argomenti di cui si parlava erano quelli: gli ideali, i diritti dei diversi, il rispetto delle minoranze e i valori universali. Se ne parlava ovunque, nella musica, nella letteratura, nei bar, nelle scuole, nelle piazze e addirittura nei telegiornali. L’Italia intera era immersa in una narrazione che influenzava fortemente il pensiero della collettività, specialmente di coloro i quali avevano uno scarso senso critico. C’era la volontà di azzerare le differenze, di lottare insieme e di ristabilire l’uguaglianza, a cominciare da quella tra uomini e donne.
La lotta di classe era il pane quotidiano e il “social divide” non si colmava a parole, ma in piazza, attraverso azioni di ogni tipo, anche violente e discutibili. In poche parole, c’era una coscienza collettiva, che, pur essendo piena di contraddizioni, ha dato l’illusione di poter cambiare l’umanità in qualcosa di più umano. Poi cosa è accaduto? È successo che il pane quotidiano, quegli ideali tanto cari agli scrittori, ai poeti, agli operai e ai diversi, piano piano è stato sostituito da valori spazzatura. Si potrebbe obiettare che anche gli ideali “altissimi” sono stati presi come pretesto per compiere atti feroci di terrorismo. Obiezione accolta. Il problema, però, è che un certo tipo di coscienza comune è stata sostituita da qualcosa di superficiale e inafferrabile, che ha portato le persone ad abituarsi a nutrirsi di false fedi, come se ce ne fossero di vere, fino a convincerle di averne bisogno per sopravvivere. L’indolenza, la pigrizia, quelle briciole di benessere conquistate dai diversi, che per poco tempo si sono sentiti meno diversi, e soprattutto la mancanza di una visione ampia della strada da percorrere hanno fatto il resto: si è smesso di raccontare alla collettività, con quella stessa narrazione, che la società dovesse essere fatta in un certo modo. Così, come spesso accade, il silenzio ha insabbiato gli ideali insieme alla co(no)scienza collettiva, fino al punto da cambiare la prospettiva e la visione del mondo e a considerare la diversità un disvalore, i poveri, e non la povertà, un problema, gli oppressi, non gli oppressori, una minaccia. L’errore fatale è stato essenzialmente uno: la distruzione della cultura.
E la trasformazione digitale cosa c’entra in tutto ciò? C’entra perché la storia si ripete due volte, come sosteneva Karl Marx, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Negli ultimi venti anni siamo o non siamo stati immersi in una rivoluzione socio economica senza precedenti, in molti casi nella veste di spettatori inermi, in cui il filo della narrazione è stato il web insieme all’evoluzione tecnologica? Nei convegni, a cui cerco di partecipare nel modo meno fuffigno possibile, mi trovo spesso a sostenere che il link è stato ed è il protagonista indiscusso di questo cambiamento. Quello che oggi si dà per scontato, e che nella nostra lingua significa collegamento, ha cambiato la società, le relazioni, il modo di fare acquisti e di comunicare, l’informazione, il modo di erogare e di fruire di migliaia di servizi e molti altri aspetti della vita quotidiana che non sto a elencare. Il link è la narrazione in cui siamo immersi. Gli amori sono link, gli amici sono link, i prodotti sono link, le dediche di una canzone d’amore sono link, perfino i sentimenti e gli stati d’animo sono diventati dei link. La tecnologia si è adeguata a questo bisogno di cambiamento e i “colossi del web” ne hanno capito l’importanza, erogando servizi gratuiti in cambio dei dati personali e guidando le popolazioni un po’ come avrebbe fatto il lupo con Cappuccetto rosso.
Non bisogna mai dimenticare che l’interesse delle aziende è il profitto, non il bene della collettività, per cui, più che soffermarsi su questioni filosofiche e valutare se le persone abbiano o meno il senso critico per poter distinguere una notizia falsa da una vera, la trasformazione digitale è stata costruita intorno alla domanda “quanto si guadagna con il clic di un utente su un link?”. Se i pericoli di un cambiamento della società guidato dal profitto e non dalla cultura sono abbastanza evidenti, non è altrettanto evidente il ruolo delle istituzioni in questo processo. E se non è chiaro il ruolo che giocano i soggetti per i quali l’interesse collettivo dovrebbe essere al centro del discorso, la società ha un problema. Come spesso accade, il pubblico è rimasto a guardare, venti anni indietro, travolto da un cambiamento culturale a cui continua a essere impreparato. Così, mentre negli uffici di un qualsiasi ministero della Verità di orwelliana memoria si discute delle competenze digitali, che contemplano l’uso della posta elettronica o di un editor di testo, strumenti che risalgono a trent’anni fa, negli uffici di Google si definiscono le strategie più adeguate per trarre profitto, che in qualche modo verranno imposte alla popolazione. E non c’è via di scampo: la collettività sarà costretta a imparare a usare questo o quel prodotto, per continuare a usufruire di quei servizi di cui non si può più fare a meno. E il campo di applicazione è veramente ampio: si va dall’account Gmail, non obbligatorio ma obbligato, per usare efficacemente i dispositivi Android, al predominio indiscusso di Google Maps, per tracciare un percorso stradale, dalle emoticons per sintetizzare un sentimento durante una conversazione virtuale, ai “mi piace”, e solo quelli, senza i “non mi piace”, per tracciare il profilo delle persone e capirne i gusti, gli interessi e gli orientamenti.
Più che di trasformazione digitale, sarebbe corretto parlare di capitalismo 2.0: l’individuo è rimasto funzionale al consumo, ma sono cambiati gli strumenti. Per questo, per dire “mi piace” e seguire un link, basta toccare lo schermo di un telefono o dire “Ok Google, portami in via”: questa è la trasformazione culturale e tecnologica dell’ultimo ventennio: è cambiato tutto, ma in fondo non è cambiato niente. Di quale trasformazione digitale si parla, invece, all’interno delle amministrazioni pubbliche? Quali sono le competenze digitali che si rincorrono per colmare il digital divide, quel concetto astratto di cui si sente spesso parlare, ma che in pochi hanno capito come misurare? I decisori hanno capito realmente che, ad esempio, l’uso delle emoticon si è diffuso non attraverso delle linee guida, ma grazie a un cambiamento culturale in atto da anni e che due persone, per salutarsi, si scambiano una faccina sorridente che lancia un cuoricino invece di scrivere ciao? Le amministrazioni pubbliche hanno capito che il linguaggio e i tempi per comunicare si sono modificati profondamente, che molte parole sono state sostituite dalle immagini e che molte attività lavorative vengono svolte in maniera totalmente diversa dal passato? Chi dirige il personale, ed è rimasto fermo agli anni ‘50, è consapevole del fatto che le reazioni delle persone sono cambiate rispetto ai mezzi usati per comunicare e che le emozioni e gli stati d’animo sono filtrati da uno schermo, da una chat e sono funzionali a un messaggio preimpostato, “Sta scrivendo”, che in pochi secondi può suscitare rabbia o speranza, prima che il messaggio di sistema scompaia, lasciando il posto al silenzio (perché magari un interlocutore ha deciso di non scrivere nulla e di cancellare ciò che stava digitando)? Se non lo sa, è grave.
Se lo sa e fa finta di niente è gravissimo. Lo scollamento tra la narrazione della realtà inventata negli ambienti pubblici e la realtà “reale” è imbarazzante. Questa divergenza si può spiegare soltanto utilizzando la metafora del giardiniere e del contadino (sempre per adottare una logica facilmente comprensibile). La differenza tra il giardiniere e il contadino è semplice: se al contadino si seccano le piante, il problema è solo suo, se al giardiniere si seccano le piante, il problema è di chi gli ha commissionato il lavoro. Lo stesso ragionamento vale per gli ambiti pubblico e privato: se qualcosa non funziona nel settore privato, il problema è dell’azienda, mentre se non funziona qualcosa nel settore pubblico, il problema è di chi ha dato fiducia agli amministratori e alla dirigenza, cioè della collettività. Spesso, si arriva a paradossi assurdi, che toccano i massimi livelli quando si osservano goffi tentativi di conciliare l’innovazione con la burocrazia e con i processi lavorativi paludosi e inefficienti. E se ne vedono, di cose strane. Per esempio, ci sono dei Dpo, i responsabili per la protezione dei dati, talmente zelanti da adottare politiche interne molto severe sul rilascio dei dati, anche dei più insignificanti, che si trasformano nell’impossibilità di usarli e di diffonderli, e poi cedono i propri dati personali a un’applicazione che promette di prevedere in quale animale si reincarneranno i seguaci della setta dello ioismo.
Ci sono regolamenti interni, degni del miglior Montalbano, che alla firma digitale affiancano la richiesta di una “copia del documento debitamente sottoscritta”, perché il digitale va bene, ma non si sa mai. Poi ci sono i decisori veri, quelli di vecchio stampo, che continuano a mantenere un potere enorme anche in ambiti in cui non hanno nessun tipo di competenza e sostengono con fermezza l’assoluta sicurezza dei documenti stampati e chiusi a chiave al posto degli archivi digitali; come se nei tribunali non si assista frequentemente a sparizioni misteriose di interi faldoni contenenti documenti processuali importantissimi. La mancanza di cultura e il sistema clientelare sono i veri problemi della trasformazione digitale, perché spingono intrinsecamente i decisori verso una cieca resistenza al cambiamento. Resistenza che viene rafforzata spesso dalle persone delle quali si circondano. Si possono scrivere centinaia di linee guida, ma se non viene attuato un vero e proprio cambiamento culturale, il Paese è destinato a restare nel guado per anni. Purtroppo, nonostante le task force e i convegni, le decisioni vengono ancora affidate ai giardinieri digitali, dei dinosauri privi di conoscenze approfondite e prossimi al pensionamento, che costituiscono improbabili comitati di valutazione delle innovazioni col solo obiettivo di mantenere il potere, frenando qualsiasi tipo di cambiamento e favorendo l’affidamento di incarichi clientelari che hanno l’unico pregio di favorire le carriere di chi li riceve.
Si ritorna all’inizio dell’articolo, quindi, e alla fuffa digitale. Sono loro che fanno falsa cultura, parlando di digital divide tra lavoro e lavoratori, senza aver capito realmente se questa distanza esista realmente o sia più una sensazione dovuta alla scarsa conoscenza di come si sia trasformato il lavoro e i suoi contenuti e di come il personale abbia reagito al cambiamento (indotto dall’esterno). Sono sempre loro che investono inutilmente soldi sulla formazione di competenze digitali (quali?), senza aver rilevato quali siano effettivamente le competenze necessarie per lo svolgimento di un certo lavoro. Insomma, come spesso accade, se un generale sceglie dei colonnelli inadeguati, che a loro volta scelgono dei tenenti inadeguati, che a loro volta scelgono dei soldati inadeguati, la disfatta è certa. Un visionario, che aveva immaginato una società arresa e senza speranza, ha scritto che “la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza”. Arrivati a questo punto, si potrebbe obiettare che anche questo articolo, tutto sommato, contiene fuffa digitale. Obiezione respinta. Questo articolo contiene un po’ di cultura (digitale e non): l’unico strumento a disposizione degli illusi senza potere, che vorrebbero lasciare in eredità alle future generazioni un posto migliore di quello che hanno trovato.