Come muore un amore? Beh, dipende… in rari casi, può morire di morte naturale, ma quasi sempre si tratta di morte accidentale indotta. Nel primo caso, è lo scorrere del tempo a decretarne la morte.
Era vecchio, si è spento senza soffrire.
Ecco, un amore vecchio, consumato, sfinito, esausto, muore senza che nessuno si faccia male. Questo sì che sarebbe un bel modo per scrivere la parola fine. Ma non è sempre così: anzi, non è quasi mai così. Di solito si passa per diverse fasi, più o meno consapevoli, che iniziano sempre da qualche sintomo trascurato e conducono dritte dritte verso il dolore e l’agonia. I sintomi si trascurano perché, in amore, il compromesso al ribasso è una consuetudine. Non ci si fa caso. Viene dato per scontato. Noia, routine, distanza, cambiamento, litigi, gelosie, paure, fobie, egoismi, meschinità… e che saranno mai? È naturale che sia così, mica si può pretendere di vivere tra le nuvole a vita. Sì, si deve pretendere. Il rischio è che i sentimenti si trasformino in abitudine. L’abitudine in rassegnazione. E la rassegnazione in infelicità. Per la proprietà transitiva dei fallimenti sentimentali, la trasformazione dell’amore è abitudine all’infelicità. Alla faccia dei compromessi e dell’arte di accomodare e di smussare. Odio quelle situazioni tristi e torbide in cui si sta insieme perché… non si sa perché. Possibile che non vi vediate? Vi si legge negli occhi. Ve lo leggo negli occhi che state male, che siete infelici, che vorreste stare lontanissimo, magari con qualcun altro, che vorreste ritrovare quella luce che avete perso e invece continuate imperterriti a stare insieme. Spenti. Sfiniti. Falliti. Finiti Ma chi cazzo ve lo fa fare?, dico io. Possibile che la parola più rappresentativa dell’amore sia “sofferenza”. Ma non una sofferenza leggera, quelle da due soldi, che passa con una birretta e due patatine.
No, macché, quando muore un amore e due persone decidono di lasciarsi, devono soffrire di brutto. Una sofferenza pesante, talmente pesante che, dopo sei mesi, li vedi dimagriti come se avessero seguito alla lettera la dieta del dottor Sobrino. Che mi sono andato a ricordare… Dio, quanto mi stava sul cazzo, il dottor Sobrino. Ricordate il payoff? “Centri dimagranti Sobrino, magri come un grissino!”.
Ora, facendo il pubblicitario di mestiere, posso dirlo: una roba simile avrebbe potuto scriverla anche una medusa spiaggiata. Però funzionava, è questa la cosa che mi fa incazzare di più. Uno si spreme le meningi per trovare l’idea creativa del secolo e poi arriva l’idea gelatinosa e urticante di una medusa che ti umilia in questo modo. Anche perché, diciamoci la verità, l’idea funzionò, nonostante il dottor Sobrino fosse un ginecologo con un master in dietologia. E io avrei avuto una gran voglia di chiedergli su quali basi avesse costruito la sua carriera da nutrizionista. Signora, divarichi le gambe… Ahi, ahi, ahi, ha una forte infiammazione!, le consiglio una crema al pesto e l’applicazione di due fette di soppressata quattro volte al giorno. Mi raccomando, il pesto deve essere fatto nel mortaio e con molto aglio. Oppure, ha il ciclo irregolare, per regolarizzarlo dovrebbe fare degli impacchi di maionese e impepata di cozze, tutti i giorni, alle 8,18 e alle 17,22 e prendere queste pillole a base di sfincione palermitano e coda alla vaccinara. Mi raccomando, rispetti gli orari ed eviti la pasta ripassata in padella. Questo la pubblicità non può dirlo, ma secondo me la deviazione nutrizionistica è andata più o meno così, altrimenti non si spiega… In ogni caso, se i centri Sobrino hanno chiuso, un motivo ci sarà…
L’intrepido ginecologo nutrizionista avrebbe dovuto provare a fare il pubblicitario, in quel mestiere era forte. Ricordo con nostalgia quegli spot televisivi efficacissimi nei quali si vedeva una topona mora, credo la signora Sobrino, che intervistava personaggi improbabili, falsi come il Parmesan americano. Nemmeno Carlo Verdone nel film 7 chili in 7 giorni era riuscito ad arrivare a un livello simile di creatività. Forse, l’unico personaggio che poteva in qualche modo avvicinarsi ai testimonials del dottor Sobrino era un certo Paolone, un ragazzino con le fattezze di un monsignore, che nascondeva salami e insaccati ovunque e ingrassava al solo scopo di far incazzare i dietologi improvvisati.
Una farsa.
Il film e la dieta.
E l’amore.
La fine di un amore è una farsa. Ridicola. Sì, certo, ognuno vive e consuma a modo suo una vera e propria tragedia, ma ciò non toglie che i protagonisti siano due deficienti che si disperano per aver perso qualcuno che li ha fatti stare male. Anzi, spesso il deficiente è solo uno, l’altro se ne stracatafotte. Perché se lasci qualcuno significa che ti ha fatto del male, altrimenti te lo saresti tenuto stretto. Invece, va parecchio di moda l’amore distruttivo, quello che fa soffrire. Che poi, l’amor sofferto non è proprio inutile, serve agli autori per scrivere storie come questa e rappresentare degnamente le miserie del protagonista. Infatti, quando si guarda indietro, dopo che è passata la tempesta, la frase più ricorrente che si dice è “Che coglione sono stato”. Ed è vero. Potrebbe essere il titolo di una canzone. La canzone del coglion smarrito, che potrebbe tranquillamente mettere in secondo piano La canzone dell’amore perduto. Porca pupazza, quanti pianti mi faccio quando ascolto La canzone dell’amore perduto. Ogni volta, da almeno trent’anni, parte l’assolo della tromba di Telemann e le lacrime scendono da sole, come se venisse aperta la chiusa di una diga. Quando accade all’improvviso, che so, mentre smanetto con le playlist e sento le prime note, mi prende alla gola e mi soffoca. L’amore bisogna saperlo dare e ricevere, ma soprattutto bisogna saperlo perdere. E io, modestamente, sono sempre stato un talento naturale in questo: pluricampione mondiale. L’ho perso in modo scomposto e drammatico: De Andrè sarebbe stato fiero di me, se avesse visto i disastri sentimentali che ho accumulato dai 15 ai 45 anni. Ho dato un senso a quei maledetti “fiori appassiti al sole di un aprile ormai lontano”, che ho spesso rimpianto. Spesso, eh, non sempre. A volte, si è trattato solo di finte primavere. Un po’ come quei tepori di marzo che mi ostino a chiamare primavera quando so benissimo che, appena uscirò con le maniche corte, beccherò la giornata gelida e passerò giorni a letto con l’influenza. Ma per il coglione smarrito è diverso, lui è dentro di noi e fa parte della presa di coscienza che prima o poi prevale sulla presa di incoscienza.
Quando arrivi a guardarti con un occhio critico e a guardare con lucidità la storia in cui ti eri infilato e tutte le cose che non andavano; quando arrivi a non rimpiangere nulla della persona che avevi accanto e a sentirti libero e leggero; quando arrivi a vedere chiaramente che, non è vero che non c’era una via d’uscita, la via d’uscita c’era eccome e corrispondeva alla parola “fine”; quando arrivi a sostituire il pensiero martellante e continuo “come faccio senza di lei” con “meno male che è finita e lei non c’è più”, significa che hai fatto i conti con l’ubriaco che era in te. Ogni uomo innamorato nasconde dentro di sé un coglione che presto o tardi uscirà fuori, dice il saggio, cioè io. È solo questione di tempo, questo l’ho capito. Prendete una storia d’amore qualsiasi, aspettate la fine, e vedrete zompettare per la città un minchioncello nuovo, mesto e piangente, che romperà le balle ad amici e parenti per farsi consolare, pronto a uscire nuovamente allo scoperto quando incontrerà la prossima illusione d’amore. Non prima di alcuni mesi nei quali probabilmente starà male sul serio, vedrà la propria vita inutile, priva di senso, passerà giorni tutti uguali a dannarsi l’anima e a chiedersi cosa starà facendo la controparte. Sì, controparte, perché la fine di un amore è una specie di incidente stradale. Indicare sei ci sono feriti, Si o No? Sì.
Osservatelo bene, il disperato, vi accorgerete che la dieta migliore consiste nella perdita di qualcuno a cui si vuole bene. E funziona. Cazzo se funziona..
A questo punto, la domanda che vi faccio è: “Quando finisce una storia?”. In un momento preciso, ovvero quando si mette la parola fine? Be’, direi di no: quando arriva quel momento, spesso, è finita da tempo, ma si rimanda lo strappo per una serie di motivi. Vigliaccheria, consuetudine, abitudini, paura di restare soli, paura di avere nuove relazioni o speranza di un ritorno a un passato felice che sai benissimo che non tornerà più. Passata l’ubriacatura dell’innamoramento, restano le delusioni della realtà. Serve un grande coraggio, per innamorarsi dopo aver accumulato delusioni, bisogna ricostruirsi un cuore puro, pulito, ed essere pronti ad affrontare l’ennesima prova estrema di disillusione. E poi bisogna fare i conti col disinnamoramento, il peggiore dei momenti. Quando ti rendi conto che la persona con cui vivi non riesci più a vederla come prima, a volte, addirittura, ti disgusta. Ti disgustano il suo odore, il suo sapore e come si muove. Non sopporti più il tono della voce, il modo in cui ride, che ti sembrava così dolce e invece è terribilmente volgare. E non la desideri più. L’idea di farci l’amore ti fa ribrezzo. Com’è possibile, se solo un anno prima bastava vedere la spallina del suo reggiseno per finire a far l’amore in qualsiasi posto? Non si capisce, non l’ho mai capito. Bisognerebbe fare dei corsi di disinnamoramento, altro che centri dimagranti Sobrino. Teoria e pratica per non amare più. Cuore infranto senza pianto. Questo è un bel payoff per i centri di disinnamoramento Luca Strano. Ne ho anche uno un po’ più d’effetto: Se hai tanto amato, resti inculato. Rende meglio l’idea, ma forse è troppo d’impatto… Meglio qualcosa di più religioso, tipo “Amati e fa’ ciò che vuoi”. Purtroppo, non avendo avuto la possibilità di frequentare corsi di questo tipo, anche se nel secondo che vi ho citato sarei sempre stato promosso a pieni voti, ho fatto tutto da solo, ma non sono mai riuscito a spiegare le tappe del dolore in modo razionale. Sono sempre partito da un punto e arrivato in un altro, senza un percorso chiaro e senza tempistiche precise. Perché se c’è una cosa su cui posso giocarmi gli zebedei è che da una storia d’amore importante se ne esce, ammesso che se ne esca, profondamente cambiati, in un modo completamente inaspettato e in un momento della vita totalmente imprevisto. L’altro resta incollato addosso per sempre, ma senza più il potere di fare male, questo è l’aspetto positivo. La giusta lontananza dalle profondità dell’anima che protegge. E le donne che ho amato, tutte, fanno ancora parte della mia vita. Nella musica, nei libri, nei posti che ho vissuto insieme a loro, nelle piccole manie che ognuna più o meno aveva e che erano diventate anche le mie. E ne ho viste, di ipocondrie, di paure, di fissazioni, di stranezze, di fragilità e chi più ne ha più ne metta. Si chiamano “storie d’amore” perché quando uno è innamorato vive dentro bolla, ovvero in una narrazione personale e irreale dall’inizio alla fine. E se gli amori sono tutti uguali, le storie d’amore sono tutte diverse. Per questo i libri che ne parlano hanno spesso successo. Io mi sono accorto di non amare più, quando meno me l’aspettavo, in un mercoledì qualsiasi, quando, guardando una vecchia foto, non ho sentito più niente. È stato terribile. Una sensazione di vuoto e di solitudine indescrivibili, più dolorosa della perdita stessa. Ma di questo vi parlerò nei prossimi racconti, se ci saranno.
Adesso, dopo questo lungo pistolotto, è giunto il momento di raccontarvi com’è finita tra me e Daniela: nel modo più semplice e banale che esita. L’ho beccata insieme a un altro. Insieme al suo ex, che mi è sempre stato sulle estremità genitali. E se qualcuno mi sta sul cazzo a prima vista, senza un motivo apparente, in realtà un motivo c’è sempre. Prima o poi farà qualcosa per farmi dire “ecco perché è sempre stato lì lì per cadere dal prepuzio”. Gli scricchiolii, nella nostra storia, li sentivamo da tempo. Da quando Daniela ha cambiato lavoro e ha iniziato a frequentare gente nuova. All’improvviso, è diventata una donna diversa, fissata con gli abiti firmati, gli Spritz, i profumi, i locali alla moda e tutte quelle cose che aveva sempre schifato. Ha iniziato a essere intollerante alla periferia, ad ambire a un ruolo di rilievo e a una casa “che potesse chiamarsi tale”, per dirla con parole sue. Non un appartamento anonimo in un posto anonimo, ma una casa che rappresenti quello che sei riuscito a costruire. A dire la verità, il cambiamento consumistico e le nuove amicizie, nuove nella forma ma non nella sostanza, me li sarei dovuti aspettare, non sono stati casuali. Il suo ex era un borghesotto sgangherato proveniente da una famiglia decadentemente benestante. Uno di quelli che cercano di ostentare tutto, anche quello che non hanno. Il cambiamento è stato una specie di ritorno al passato che avrei dovuto prevedere. Ma che volete? Non aveva previsto tutto questo Guccini e avrei dovuto riuscirci io? Ricordate, no?, l’Avvelenata: giovane e ingenuo io ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo, e un cazzo in culo e accuse di arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta. L’amore è così, prima ti benda e poi abusa delle tue chiappe senza sconti. La benda serve per non vedere tutte quelle cose che non faresti passare lisce nemmeno alla Madonna. Ti fa valutare superficialmente cose di una gravità inaudita con cui ti ritrovi a fare i conti dopo la sbornia dei sentimenti. Ti fa sottovalutare aspetti caratteriali del partner che farebbero bestemmiare anche Madre Teresa di Calcutta e ti fa sopravvalutare la tua sopportazione come se fossi Madre Teresa di Calcutta. Sbornia, benda, rincoglionimento e inchiappettamento: la sintesi di una relazione di coppia è più o meno questa. All’inizio, Daniela mi vedeva come un dio, le piacevano le mie idee, la mia semplicità, il mio mondo, la mia anarchia, il mio modo di dare valore alle cose che valgono e la gente “vera” che frequentavo. Dal dio è passata alla bestemmia, senza che ce me ne accorgessi. E passare da eros a thanatos, mettendo in dubbio chi sei è un’operazione azzardata. Si rischia di far male sul serio. E a quelli come me, che costruiscono sempre sulle macerie delle relazioni passate, fa male sul serio.
– Devi dimostrare quello che sei, Luca.
Sosteneva Daniela.
– A me non interessa dimostrare nulla, Dani. Io non voglio essere la squallida apparenza di me stesso.
– No, Luca, essere e apparire spesso vanno di pari passo. Voglio anch’io una casa che faccia provare invidia alle mie amiche. Che non mi faccia sentire una donna di serie B.
– Serie B? Invidia? Ma tu sei una donna fantastica: sei bella, colta, intelligente… Non hai bisogno di una casa di lusso per dimostrare agli altri quanto vali.
– Le mie amiche sono belle, colte e intelligenti, e si concedono anche qualche piccolo vizietto. Non mi sembra un delitto. Tu non hai qualche ambizione? Non hai il desiderio di dimostrare chi sei realmente? Mostrare quello che hai ottenuto?
– Lo faccio già. Io sono quello nato e cresciuto in periferia, che gira con un’auto sgangherata e odia la superficialità. Ti sei innamorata di quell’uomo, ricordi? So benissimo chi sono, ma non so più chi sei tu…
– Si cambia, Luca, nella vita si cambia…
– E su questo non c’è dubbio. Solo che, nel tuo caso, i cambiamenti sono peggiorativi e indotti da quegli stronzi che frequenti.
– Sei un cafone, ecco cosa sei: io non ho mai etichettato così Alberto e Tiziana… e ne avrei avuto quintali di buoni motivi.
– Avresti potuto farlo, non me la sarei presa.
– Io sono una signora, non scendo a quel livello. Ricordi quando Tiziana c’ha provato con te? Cosa avrei dovuto dire?
– Niente. Non le ho dato spazio e lei l’ha capito subito.
– Senti, tagliamo corto: vuoi cambiare casa o no? Vuoi cambiare vita o no?
– No. No.
Il tenore delle nostre discussioni era diventato più o meno questo. Cambiava soltanto l’oggetto del contendere. Una volta era la casa, un’altra volta l’auto, poi le vacanze, poi il mio modo di vestire o di pensare…
Ora, capisco che mangiare un Calippo sul lungomare di Ladispoli, come è capitato spesso, non sia il massimo della goduria, ma hai dimenticato quella settimana da sogno a Terracina? E i nostri weekend a Tagliacozzo? Ragazzi, che giorni… Non vedevamo la luce del sole: io, lei e il nostro ammore. Il cielo in una stanza. Tutto è andato, ormai. La verità è che l’amore basta fino a un certo punto, e quel certo punto è quando inizi a dare per scontato il cielo in una stanza umida di Tagliacozzo, dove fai l’amore senza risparmiarti. È quello l’errore, l’unica cosa che non puoi permetterti di perdere, dandola per scontata. Invece, non si capisce perché, si perde quello e subentrano altre esigenze, che ovviamente non compensano una beneamata cippa. Chiamatemi arido, chiamatemi malfidato, ma ho imparato a diffidare dell’amore. È terribile, lo so, ma quando mi senti dire “ti amo” penso “Signore, perdona loro perché non sanno ciò che dicono”. Ti amo è troppo definitivo, assoluto, e un impegno per la vita. E nella vita non c’è nulla che sia così, tantomeno l’amore. Servirebbe il famoso centro di gravità permanente di Battiato, per far durare l’amore, ma se non l’ha trovato lui, pensiamo di trovarlo noi? Si cambia idea. Sulle cose e sulla gente. Other and other again. Dopo i primi mesi, i sentimenti si consumano, diventano altro, si fanno largo paure, insicurezze e insidie nascoste totalmente sottovalutate. E inizia il declino. L’armonia iniziale diventa una continua prova di forza per imporre qualcosa al partner. E perdi la libertà di essere quello che sei.
Ma veniamo a noi. A quel tempo, il coglione, che sono io, era a casa a pensare cosa farsene della sua vita, passando dal divano al pianoforte, dal pianoforte alla chitarra e dalla chitarra alle 101 ricette a base di pesce. Arrivato alla lettera p come purpo co’ ‘o russ, mi viene l’idea del secolo. Una di quelle idee che, come minimo, avranno avuto almeno il novanta per cento degli uomini, per salvare un rapporto in crisi: le preparo una cena a sorpresa e le regalo una borsa nuova.
Ricominciamo da zero.
Voglio che torni tutto come prima.
Voglio azzerare la bruttura di questi mesi e dimostrarle quanto la amo. Ecco là! Il coglioncello comincia a palesarsi e a scalpitare per uscire allo scoperto. Nonostante la catastrofe sia vicina, e me lo sento dentro, avverto un pizzico di euforia. Torneremo a essere noi. Venderò casa, se sarà necessario, e la farò contenta. Andremo a vivere in centro, gliene parlerò oggi stesso. Posso anche fare a meno della signora Rosa, che mi cucina gli struffoli a Natale. E del mercato rionale. Posso anche adeguarmi alle cene di merda e agli amici stronzi. Posso fare a meno di tutto, ma di Daniela no. Per amore si può rinunciare a tutto, anche a sé stessi. O no? No, per amore questo non si deve rinunciare a niente. Bisogna scegliere partner convergenti, non divergenti, come in matematica. Tra le successioni convergenti di Cauchy e le successioni divergenti, ci sono le famose rette parallele di De Crescenzo, quelle che si incontrano all’infinito quando ormai non gliene frega più niente. Questo lo so, ma cerco di convincermi che l’importante sia stare insieme, e che sia questo ciò che voglio. Ma dentro di me, in quell’angolo profondo e remoto dei pensieri, so che non è così..
Lo vedi, Luca, che sei un coglione? E te lo dice l’autore, uno che ti conosce bene, non fosse altro perché ti fa dire cose che poi dovrai smentire coi fatti. Vuoi piantarla con questa storia che quando sei innamorato devi rinunciare a essere quello che sei? Non ti è bastato tutto quello che ti è successo nelle storie precedenti? Tira fuori i coglioni, Luca. Abbi il coraggio di dire apertamente quello che non ti fa stare bene. Se Daniela ti vuole, deve volere te, non una persona che non esiste e che stai cercando di costruire con la forza. Prima o poi ti stuferai di essere qualcun altro e andrà tutto a rotoli lo stesso. Non ti rendi conto che ti stai violentando?
– Va bene, autore de ‘sta minchia, farò così la prossima volta. Adesso lasciami sbagliare in pace. Ho detto che mi sacrificherò e la farò contenta. Mi arrendo su tutto. Voglio stare insieme a Daniela. Il resto non conta.
Anzi, sai cosa ti dico? Esco e vado a fare la spesa al centro commerciale. Una botta di vita! I centri commerciali sembrano fatti apposta per deprimersi meglio. Uno va là, pieno di pensieri, gira a vuoto tra luci e vetrine senza un obiettivo preciso, e torna a casa pieno di tanti vuoti nuovi di zecca. È vero, di solito i vuoti te li porti da casa, però il centro commerciale li amplifica un po’. Scendi dalle scale mobili e sotto di te vedi una folla brulicante di persone affaccendate che entrano ed escono dai negozi, come se entrare e uscire dai negozi fosse la cosa più importante per l’umanità.
Ma che m’importa? Io sono oltre, non ho tempo per deprimermi. Ho una missione e non ho nessun vuoto, mica sono come quei deficienti che aspettano la domenica per comprare la libreria Billy da Ikea. Vado diretto verso il negozio preferito di Daniela: Loius Vouittion, Vuoitton, Vuitton… non so nemmeno come cazzo si scrive.
Voglio quella!
Dico alla commessa, indicando una borsa che costa quanto una settimana bianca a Campo felice, skypass e arrosticini inclusi.
– Ottima scelta. È un regalo?
Che domanda del cazzo è? Pensa che la stia comprando per me? Do l’impressione dell’uomo che andrebbe in giro con una borsa simile? Con quella cifra, comprerei una chitarra Ramirez da concerto, se proprio volessi spendere dei soldi a vanvera.
– Sì, è un regalo…
Esco dal negozio, assumendo l’atteggiamento spavaldo di un addetto alla sicurezza, che da un momento all’altro aspetta l’agguato e la rapina. Con una borsa simile, serve almeno un blindato portavalori. Sapete cosa faccio? Entro da Intimissimi e le prendo anche un completino intimo, quelli di pizzo in stile Giovannona Coscialunga. Già me la vedo, con le sue gambe slanciate, in biancheria intima, che mi dice “consumami tutta”.
Oh, no!
No.
Tuffo al cuore.
Battiti.
Quella seminuda nel camerino è lei.
C’è un uomo.
Gabriele.
Troia.
Puttana.
Scappo?
Resto?
Sono una pietra.
Si baciano.
Lei ride.
Mi sgretolo.
Muoio.
Piango.
Un uomo che piange fa molta tenerezza.
– Signore? Tutto bene?
– Quella è… era… la mia compagna…
Dico, indicando i due bastardi avvinghiati come due polpi nel camerino.
– Stronzi, potevano almeno chiudere la tenda.
Dico alla commessa, come se fosse un’amica di vecchia data.
Imbarazzo.
Cerco di trattenere i singhiozzi, mentre mi nascondo dietro i vestiti estivi per le taglie forti. Fisso per due minuti la fotografia di una cicciona sorridente e penso che sarebbe perfetta come testimonial dei centri Sobrino.
Daniela e Gabriele escono abbracciati e sorridenti come due fidanzatini.
– Signore, non vale la pena piangere per una donna così.
Ecco, bel pensiero a belino di bassotto. Vabbè che sei una ragazza giovane, ma questa è proprio la classica frase che direbbe la donna qualunque.
– … guardi il lato positivo: almeno ha risparmiato i soldi del completo.
Ecco, ora sì che mi hai consolato. Ripenso alla borsa, ai tremila euro e alla Ramirez persa per sempre. Che ci faccio, adesso, con la borsa? La riporto al negoziante? E quando me li ridà, i soldi. Erano anni che aspettava il pollo che la comprasse… La regalo lo stesso a Daniela e le do uno schiaffo morale?
– Tenga, gliela regalo!
Dico alla ragazza, che mi guarda perplessa.
Apre la confezione e la richiude.
– Grazie, non posso accettarla.
– La prenda, è una borsa molto costosa…
– Non posso accettarla, non avrebbe senso. Deve regalarla a una donna che la merita.
Ci risiamo.
Io sono quello che si ritrova sempre con un regalo in mano davanti a qualcuno che non sa cosa farsene. Cosa faccio, adesso?
Cammino.
Camminare serve per chiarirsi le idee. O per confondersele. O forse no, serve soltanto per stancarsi, tornare a casa distrutti e buttarsi sul letto senza avere la forza di pensare.
Rientro a casa tardissimo.
– Ma che fine hai fatto? Mi sono preoccupata! Potevi almeno mandarmi un messaggio…
– Troia!
Riesco solo a dire questo. Mi ero preparato un discorso definitivo, a tratti struggente e malinconico, ma la birra artigianali bevuta prima di tornare a casa deve avermi confuso le idee. Io l’alcol non lo reggo, questo è risaputo. Mi basta una birretta per diventare allegrotto e cantare Io te vojo bene assaje. Alla terza, vedo la Madonna vestita da Lady Gaga che balla la lap dance al Billionaire. Non so nemmeno come ci sono finito, in quel posto pieno di avvinazzati e ubriaconi. Ho visto l’insegna di una birreria, ho aperto la porta e sono entrato. Mi sono seduto a un tavolo qualsiasi, in compagnia di due sconosciuti. Erano entrambi brilli, si vedeva. Uno dei due, con un accento napoletano, mi ha detto:
– Guagliò, tu si ‘n’amico mio. Piglia chillo ca vuoie ca pago io.
– Grazie, ma posso pagare da me…
– I’ sò ‘o nipote ‘e Schiavone, ‘u ssaie?
– Schiavone…?
– Sandokan, ‘o boss camorrista. Ciò nu core accussì, ma tengo pure ‘a mente criminale. Te vojo bene, ‘o vedo ca sì ‘ntelligente… Ma chisto ccà, o vedì?
E mi ha indicato il compagno di bevute, che fino a quel momento era rimasto nella penombra.
– Chisto è ‘o nummero uno. È nu pezzo gruosso. Basta a ‘na parola soja e sò cazzi!
Mi sono presentato, confuso; dimenticando per un attimo il mio dramma.
– Piacere, Luca Strano.
Ho detto, mentre mi portavano un boccale di birra grande quanto la pentola con cui mia nonna faceva il ragù la domenica.
– Cesare Bevilacqua, Presidente della corte d’appello di Verona.
Il mio interlocutore triste era veramente un pezzo grosso. Un infelice pezzo grosso. Un infelice pezzo grosso che soffriva di solitudine. Gliel’ho letta negli occhi, la tristezza. Una tristezza malinconica, che mi ha fatto pena. Che si è aggiunta alla mia voglia di morire. Si fa presto a dire alcolizzati, quando non si è scesi all’inferno. Strascinava le parole, il pezzo grosso, e mi parlava di Dostoevskij e di menti criminali. Il delirio di Raskolnikov e il suo delirio.
– Ho imparato a ragionare come i criminali, perché per combattere la criminalità bisogna pensare come loro. Bisogna fare pensieri disumani. A volte, mi faccio paura. Disprezzo i miei pensieri e me stesso.
Per un attimo, ho pensato che avrei voluto avere la mente criminale anch’io, per trovare una soluzione definitiva al dolore che provavo. Ma no, i problemi non si risolvono con la violenza e nemmeno con l’alcol, si risolvono tirando fuori le palle al momento giusto.
– Troia!
Sembro Nino Taranto quando fa il siciliano in Tototruffa ’62. Ci manca che dica “e tu cosa fetusa pottatti il disonore in casa mia”, e siamo a posto.
– Non permetterti di rivolgerti a me con questi toni!
– Zoccola. Mignotta. Puttana. Vattene via.
– Ma che ti prende, si può sapere?
– Vi ho visti, tu e quello stronzo…
– …
– Non dici niente, vero?
– Cosa devo dire? Sono ancora innamorata di lui, mi prendo tutte le colpe. Te l’avrei detto… Cercavo soltanto il modo migliore per non farti soffrire.
– Beh, brava! L’hai trovato!
– Ti prego, Luca, non fare così… Non riesco a vederti in questo stato. Piangi, sei ubriaco…
– Ah, non riesci a vedermi così? Cosa ti aspettavi? Che ti dicessi “Sono contento per voi”?
– No, pensavo che ti accorgessi da solo che la nostra storia era arrivata al capolinea.
– Vattene via, Daniela, non farti vedere mai più.
È finita più o meno così. Io mi sono chiuso al cesso e ho aspettato che prendesse tutte le sue cose. Come un bambino, per non vedere e non sentire. Sono state le due ore peggiori della mia vita. Sentivo e vedevo tutto lo stesso, me la immaginavo mentre metteva le sue cose nelle valigie, e ho vomitato sul pavimento. E io ero là, l’ultraquarantenne, seduto sulla tazza del cesso, col viso pieno di lacrime e il pavimento pieno di vomito: tutto questo per un amore finito male. Sentivo il rumore dei cassetti, degli sportelli degli armadi, rumore di buste, conversazioni al telefono sottovoce.
– Amore, tra poco sono da te… Abbiamo chiarito tutto… Non dobbiamo più nasconderci… Ti amo anch’io.
Era tutto amplificato. Mi sembrava di essere a un concerto orribile, davanti alle casse, senza la possibilità di muovermi. Poi ho sentito chiudere piano la porta.
L’agonia era finita.
Mi sono guardato allo specchio e mi sono fatto pena.
– Dani…?
Nessuna risposta.
Avete fatto caso all’importanza dei diminutivi e dei nomignoli usati dalle coppie? No? Allora vi spiego brevemente la dinamica del loro utilizzo e di come possano far scoppiare una lite furibonda o far riappacificare due persone.
Regola numero uno: il nome intero si usa soltanto quando si è incazzati, per prendere le distanze. E le lettere devono essere scandite.
D A N I E L A.
Usare il nome di battesimo in occasioni diverse può essere mortale.
Regola numero due: mai usare il diminutivo ufficiale. Se tutti la chiamano Danny, per te quel soprannome è off-limits: non vorrai mica omologarti alla massa, vero? Usare il diminutivo dato in pasto alle masse equivale a dire “sono uno dei tanti, sei una delle tante”, praticamente una dichiarazione di guerra. Bisogna chiamarsi in modo unico e speciale, perché ogni coppia è unica e speciale, finché non diventa normale. Daniela per me è sempre stata Dani. Non è originale, lo so, ma ogni volta lo pronunciavo col tono sorpreso e ingenuo di chi scopre la bellezza delle parole per la prima volta. Per questo era speciale.
– Dani…?
Silenzio.
La casa era rimasta vuota. E penso che non ci sia niente di più vuoto di una casa da cui è appena andata via una donna.
– Dani…?
Lo ripeto ancora, forse è l’ultima volta che lo dirò con questo tono.
Silenzio.
Ho bisogno di non sentirmi solo.
Accendo la tv e chi ti becco? Roberto Carlino e la sua pubblicità di merda: “Immobildream, non vende sogni ma solide realtà”. Roberto Carlino, il lampadato col riporto, quello col sorriso da Berlusconi e l’accento ‘ndinghete ‘ndonghete. Dio, che finale del cazzo. Non posso far finire la storia tra me e Daniela con quest’immagine: io, in mutande, col viso rigato dalle lacrime, ancora impregnato di puzza di vomito, birra e sudore, stravaccato sul divano, mentre guardo Roberto Carlino in televisione. Almeno, se avessi beccato la stangona della pubblicità del silicone Saratoga, quello sigillante, vi avrei lasciato con un’immagine positiva di me. Che poi, il silicone sigillante…Ma perché ci sono dei siliconi che non sigillano? Vabbè, alla stangona non farei notare che il payoff della pubblicità è una minchiata molto simile a quella dei centri dimagranti Sobrino. A proposito, da oggi inizierà la mia dieta dell’amor perduto. Ecco il nome giusto per una dieta efficace. Dieta non voluta, peraltro.
Va bene, mi alzo dal divano.
Apro le finestre.
Pulisco il bagno.
Metto sul fuoco la moka.
Mi faccio una doccia.
Mi guardo nello specchio.
Ho mille anni.
Sono sgualcito.
Guardo le mie rughe ed è come se le vedessi per la prima volta. Sono veramente tante. E profonde.
Eppure, nonostante l’età, quelle rughe intorno allo sguardo allegro e malinconico mi stanno proprio bene. Abbozzo un mezzo sorriso.
Ci sarà qualcuna a cui piaceranno le mie rughe, forse. Non importa, in questo momento devono piacere a me. Comincio a intravedere qualcosa che somiglia alla libertà. Libertà di pensare, libertà di vivere in periferia, libertà di non andare più a cene squallide con gente mediocre. Come ho fatto ad accettare tutto questo? Inizio ad avere consapevolezza della distanza che si era creata tra me e Daniela.
È finita, sì, ma cosa è finito, esattamente?
L’amore? No, quello era finito da tempo, da quando ho rinunciato a essere me stesso e ho indossato dei vestiti che non mi appartenevano. È finito quando Daniela ha cominciato a non essere più la donna unica e speciale che credevo fosse. In fin dei conti, era una donna normalissima, nemmeno troppo bella, diciamo piacevole, e con tantissime fobie che avevo imparato ad accettare. Ho sopravvalutato la sua sensibilità e la sua capacità di vedere il mondo: la verità è che il suo modo di pensare mi andava stretto. Non era una donna libera, aveva mille prigioni. Prigioni che si era costruita da sola e non riusciva a vedere. La paura del giudizio degli altri, la corsa verso le futilità, la vita consumata tra aperitivi e apericena, i tranquillanti, l’ossessione sempre crescente per lo shopping, la paura di non essere mai all’altezza. Non riusciva a capirmi, non ci capivamo più, e lei ha scelto la soluzione più semplice, quando c’è un problema di coppia: andarsene. Come è sempre accaduto con le mie donne, del resto.
E adesso che rimane di tutto il tempo insieme? No, porca troia, pure Massimo Ranieri no. Non dirò mai “un uomo troppo solo che ancora ti vuol bene”, se l’avete letto è perché l’ha scritto quel mentecatto dell’autore. Cosa ho fatto di male, per meritare pure questo? Andrebbe ricoverato, quel deficiente. Guarda tu in che situazione mi ha infilato… Ora tocca a me uscire da questo pantano musicale. Voglio qualcosa di più intenso, di più passionale. Se quella penna impazzita si azzarda a scrivere Gigi D’Alessio, giuro che mi suicido in diretta.
Ok, scelgo io: Giugno ‘73.
E tu aspetta un amore più fidato
il tuo accendino sai io l’ho già regalato…
Poi il resto viene sempre da sé
i tuoi “aiuto” saranno ancora salvati
io mi dico è stato meglio lasciarsi
che non esserci mai incontrati.
Ecco, va già meglio.
Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati. Per tornare a Massimo Ranieri, sapete cosa rimane, di tutto il tempo insieme? Rimane una borsa di merda da tremila euro, ecco cosa rimane.
Una.
Fottutissima.
Borsa.