Cosa c’è di più stressante delle cene con gli amici? Vediamo… Avere un capoufficio che rompe le balle con le scadenze lavorative? Avere un’auto davanti che viaggia a una velocità di 3,2 km/h e frena ogni cinque metri quando vai di corsa e hai i minuti contati? Stare insieme a una donna che mette l’ansia e si lamenta in continuazione per questioni assolutamente irrilevanti? No, a occhio e croce direi che le cene con gli amici non hanno rivali: sono fonti di stress ben superiori a qualsiasi fonte di stress. La verità è che non si tratta di cene, ma di competizioni agonistiche vere e proprie, che quasi sempre sfociano in discussioni interminabili e sfiancanti in cui ognuno cerca di dimostrare di averlo più lungo degli altri. Come se la lunghezza fosse sinonimo di qualità. Un mio collega universitario, un fine intellettuale, che, se non ricordo male proveniva da una nobile famiglia di Mentana, una volta venne provocato da una ragazza sulla questione “lunghezza”, e lui rispose alla provocazione con la schiettezza che lo contraddistingueva: “Non faccio mai a gara a chi ce l’ha più lungo. Il mio è piccolo, ma è un gran lavoratore”. Argomento chiuso. Non è il caso di sottolineare che quell’espressione diventò subito un aforisma ben più prezioso di quelli di Oscar Wilde, e il fatto che io lo citi dopo tanti anni in un contesto totalmente diverso non può che confermare questa tesi. D’altronde, lo stesso poeta, per dare un senso agli scarsi successi negli studi e alla lentezza con cui procedeva la sua carriera universitaria, era solito usare un’altra espressione di dantesca memoria attraverso cui affermava la propria autodeterminazione e diffondeva a tutti gli sfigati del gruppo, me compreso, un messaggio di speranza. No, non è Gli ultimi saranno i primi e nemmeno Ama il prossimo tuo come te stesso, anche perché l’unica cosa che lo avvicinava a Gesù era il modo singolare, e apparentemente diverso, con cui si rivolgeva a dio: uno lo faceva con divino rispetto, l’altro utilizzando aggettivi suini in diverse tonalità, tirando spesso in ballo anche la mamma. Si sa che i fratelli spesso non vanno d’accordo… Insomma, all’ennesima bocciatura, in un clima di tristezza e rassegnazione, dopo averlo rassicurato con quelle frasette del cazzo che si dicono tanto per riempire il nulla col niente, roba tipo “Sarà per la prossima volta” o “Non meritavi la bocciatura”, mentre una truppa in stile codazzo del prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue camminava lentamente per i corridoi deserti della Sapienza, lui si fermava, assumeva un’aria solenne e pronunciava queste parole: “Disse lo sceicco a lu mulo, damme tempo che je sfascio lu culo!”. A volte, usava anche una variante più raffinata, quella che tirava in ballo l’armonia della natura: “Con la calma e la vaselina, l’elefante s’ingroppò la farfallina”. Poi tirava dritto e se ne andava a giocare a biliardo. Lo so, l’immagine è un po’ forte e forse non eravate pronti per un’iniezione di saggezza di questa portata. Se Lenin avesse conosciuto il mio amico Benso, avrebbe certamente sostituito il suo “Pazienza e ironia sono le virtù del rivoluzionario” con un più pratico “Con la calma e la vaselina…”, che poi hanno più o meno lo stesso significato. Che tipo, Benso… la finta solennità con cui sparava le sue minchiate colossali faceva ridere più delle minchiate stesse. Si divertiva a spiazzare la gente, a vedere le reazioni di chi, da una persona apparentemente equilibrata, non si aspetta di ricevere risposte terribilmente schiette e dirette.
– Benso, ti sei un po’ ingrassato, come mai?
Gli chiese una volta Giorgia, ingenuamente, al rientro dalle vacanze.
– Sta’ zitta, nun me dì niente che me sò preso la malattia dell’agnello…
– Oddio, che tipo di malattia è? È contagiosa?
– Macché contagiosa… però ne soffre metà della popolazione. La malattia dell’agnello è tremenda: fa cresce la panza e accorcia il pisello…
Ecco, Benso, tu sì che sapevi far colpo sulle donne.
Potrei continuare a raccontare questi aneddoti per pagine e pagine, ma temo di compromettere troppo l’immagine da intellettuale sopraffino che mi sono costruito racconto dopo racconto. So che la descrizione della filosofia di Benso ha dato un senso a questa storia e che potremmo anche finirla qua, ma non sarebbe giusto: i lettori debbono soffrire fino alla fine insieme all’autore, altrimenti il patto narrativo perderebbe la sua efficacia. Si potrebbe obiettare, a giusta ragione, che con me il patto narrativo è più simile a un raggiro; un po’ come quei contratti capestro che obbligano all’acquisto di enciclopedie da 500 volumi e prevedono cause, ricorsi e spese legali assurde. Ma io, come direbbero i genovesi, delle obiezioni me ne batto il belino sugli scogli. Comunque, Benso non era solo un cazzaro certificato: con lui si poteva discutere di politica fino a notte fonda e fino al vaffanculo, senza incrinare per niente l’amicizia. Abbiamo passato anni a massacrarci di discussioni, seduti sulla scalinata del CNR, il luogo deputato allo studio pomeridiano. La dinamica delle giornate era molto semplice: seguivamo le lezioni, andavamo a pranzo e verso le 15, dopo interminabili partite a Tetris, ci chiudevamo nei sotterranei della biblioteca a studiare. Alle 15,03 Benso tirava fuori il suo cavallo di battaglia: “‘N ce sto a capì ‘n cazzo, ciò bisogno de ‘na pausa, de ‘n caffè e de ‘na sigaretta: chi m’accompagna?”. Inutile dire che, senza farci pregare troppo, interrompevamo lo studio appena iniziato per dedicarci al bivacco. E chiacchieravamo, chiacchieravamo, chiacchieravamo fino alla pausa successiva: ovvero a distanza di dieci minuti dal rientro. Si parlava di tutto: amore, amicizia, politica, matematica, letteratura, fisica, musica… Ognuno con le sue convinzioni, ognuno coi suoi sogni. Così, di pausa in pausa, di caffè in caffè, di bocciatura in bocciatura, sono passati gli anni migliori delle nostre vite. Mi manca da morire quella spensieratezza e mi mancano gli ideali puri di allora insieme a tutte quelle speranze e a quelle possibilità che avevo a portata di mano e che sono riuscito a mandare magistralmente a puttane. Gli ideali sono il vero motore della vita, quando cedono il passo alla disillusione, restano soltanto delle svogliate voglie, che (non) servono a riempire i vuoti. E mi manca anche Benso, le nostre chiacchiere, quel “‘N ce sto a capì ‘n cazzo”, che rimbombava nel silenzio della biblioteca e ogni volta ci faceva scoppiare a ridere. Mi mancano i discorsi sul comunismo e sull’uguaglianza, le liti sulle questioni scientifiche e quella voglia dirompente di amore che avevo a vent’anni. Mi mancano le birre a fiumi bevute insieme all’assistente di laboratorio e le partite a briscola nelle aule vuote. Mi mancano perfino i voti rapinati agli esami impossibili da superare, quelli che, al verdetto sdegnato del professore, “Le do 18, che fa, accetta?”, contrapponevano un gioioso “Ottimo e abbondante” e dei festeggiamenti interminabili comprensivi della serata trionfale a Tivoli, nella paninoteca “da Pippo”, a sfondarsi di panini imbottiti con tutti gli alimenti disponibili sulla faccia della terra. E mi mancano anche quei 9 anni 7 mesi e 18 giorni che ho impiegato per laurearmi. Il tempo giusto per capire che la laurea non sarebbe servita a un cazzo, ma che nel frattempo avevo costruito l’uomo che sarei stato, e che quel periodo non sarebbe tornato mai più se non sotto forma di ricordo lontano. Benso, lui sì che avrebbe dato le risposte giuste agli pseudoamici attuali, in parte acquisiti e in parte imposti dalle donne che ho avuto vicino. Non so se, alla fine, sia stato meglio perdere le donne o i loro amici. O entrambi. Fatto sta che durante queste cene sono stato spesso tentato di rispondere utilizzando il “Benso linguaggio”, ma non potevo permettermelo allora e men che mai oggi: sono tutti troppo permalosi, troppo borghesi, troppo perbenisti e troppo ottusi per meritarsi la sincerità. Si meritano la maschera di qualcun altro che non sono io, e li accontento volentieri. Tra tutti, è restato soltanto Alberto: con lui posso permettermi di citare Benso con la certezza di essere capito al volo. Anche lui, nonostante fosse il secchione del gruppo, era attratto da quella figura fuori dagli schemi e non riusciva a sottrarsi al richiamo di quel “‘N ce sto a capì ‘n cazzo…”. D’altronde, chi è che, nella storia dell’uomo, ha mai capito veramente qualcosa?
Ma torniamo a noi: parlavamo di cene con gli amici. Io sostengo che sono state inventate per esasperare l’ansia da prestazione: c’è sempre una lei che vorrebbe mostrarsi perfetta come la regina Elisabetta e un lui a cui non frega assolutamente nulla di fare brutte figure perché a quella riunione di squinternati preferirebbe passare la serata a guardare una qualsiasi partita di calcio, fosse anche la finale del girone B del campionato di seconda categoria in Basilicata tra la Proloco Calcio Spinoso e l’Avis Burgentia. A volte, lo squilibrio può essere invertito: l’uomo si fa prendere dall’ansia e la donna se ne sbatte le ovaie… Il concetto comunque è chiaro. L’uomo e la donna sono gli esseri meno indicati ad avere una relazione di coppia, non vanno d’accordo come la Passera scopaiola e l’uccello del paradiso, tanto per restare confinati all’ornitologia. La conseguenza pratica di questo assioma è l’assoluta incapacità di svolgere insieme qualsiasi attività che richieda una divisione dei compiti al 50%. C’è un lasso di tempo, solitamente all’inizio del rapporto, quando il rincoglionimento amoroso prevale sul buon senso, in cui questa suddivisione sembra funzionare. Addirittura può accadere che lui faccia una qualche cazzata e lei, invece di umiliarlo a colpi di insulti, dica dolcemente “Non preoccuparti, amore, ci penso io a sistemare le cose”. Ecco, questa remissività è quanto di più ingannevole ci possa essere: dopo un po’ di tempo le frasi tenere si trasformano in qualcosa di simile a “Faccio io, coglione, tanto tu non capisci un cazzo”. Per carità, anche queste parole non sono male, denotano un sentimento più maturo, solo che io penso di non essere mai preparato alle manifestazioni esagerate di amore. Ho sempre in mente le parole di un anziano amico, che, dopo aver convissuto con una donna per più di quarant’anni, alla di lei proposta di matrimonio, peraltro dettata da motivi economici, si è sentito in dovere di dire candidamente “Mi sembra un po’ prematuro. Temo di non essere pronto…”
Nella preparazione della cena di solito si possono verificare tre situazioni tipo. La prima è la più semplice: uno dei due si dedica ad attività inutili, tipo togliere il polline dalla tapparella che dà sulla chiostrina, e l’altro si sobbarca tutto l’onere dei preparativi, faticando come una bestia e arrivando all’ora di cena sfinito e impregnato di olio e di puzza di fritto. C’è anche la variante in cui il fancazzista si finga volenteroso e intraprenda un paio di azioni scomposte che hanno come unica conseguenza la creazione di problemi inaspettati. Si può, che so, rovesciare l’olio sul tappeto, intasare lo scarico del lavandino, o eseguire maldestramente un’operazione semplice come può essere girare il ragù e farlo attaccare al fondo della pentola o aggiungere il sale a una pietanza e sputtanare la ricetta. Non nascondiamoci dietro a un dito: di solito il fancazzista in questione è l’uomo, anche se la donna ce la mette tutta per trasformare gesti apparentemente banali in drammi epici che inducono nell’uomo sensi di inferiorità tremendi.
– Amore, potresti aggiungere un po’ di sale all’arrosto?
– Certo tesoro, subito!
– Mi raccomando…
Quando una donna dice “mi raccomando” sottintende l’aggettivo idiota, ma lo omette perché la frase interrotta è più efficace e può lasciare spazio a numerose interpretazioni. Quali? Beh, idiota potrebbe anche essere un complimento, se raffrontato con mentecatto, decerebrato, coglionazzo, si ‘na uallera, minchione e così via. “Mi raccomando” è il tipico avvertimento che si riserva a qualcuno del quale è evidente che non ci fidiamo ma a cui vogliamo dare una possibilità, la penultima. I rapporti di coppia sono pieni di “mi raccomando” mal risposti e di penultime possibilità. Manca spesso il coraggio dell’ultima possibilità che salverebbe entrambi.
– Mi raccomando cosa? Mi hai preso per un deficiente? Devo aggiungere solo del sale, mica dimostrare il teorema di Fermat!
Uomo, perché esporti così apertamente a una figura di merda certa? Possibile che quella raccomandazione e, soprattutto, quei puntini di sospensione non ti abbiano suggerito di tacere? Pensi davvero di poter aggiungere il sale all’arrosto senza commettere una delle tante cazzate di cui ti sei ampiamente dimostrato capace nel corso degli anni? Provaci e ne riparliamo tra tre righe…
– Si può essere più coglioni di te? Eppure ti avevo detto “Mi raccomando…”. Ti chiedo di aggiungere un po’ di sale e tu che fai? Usi il cucchiaio con cui ho girato il sugo e lo immergi nel barattolo così com’è, senza lavarlo e asciugarlo. Poi, per quale deficienza motoria e cerebrale, invece di avvicinare il barattolo alla pentola, l’hai lasciato nell’angolo più remoto della cucina? Avevi voglia di fare un po’ di sport e percorrere a piedi i due metri che separano i fuochi dalla dispensa? Buona idea!, visto che la bilancia, quando ti avvicini a lei, finge di essere la piastra per lisciare i capelli, pur di non avere nessun tipo di rapporto con te. E fa bene a mimetizzarsi con la piastra, dal momento che i capelli non li hai più da un pezzo… Ma fosse solo quello, accetterei la disgrazia con rassegnazione, invece no, mi è capitato l’uomo menomato, quello col morbo di Parkinson che si manifesta soltanto quando deve compiere azioni ad alto rischio di minchiata. Ti sei reso conto che, durante la tua eccellente prestazione sportiva, almeno la metà del sale l’hai sparsa per terra e l’altra metà l’hai versata a cazzo soltanto su una lato dell’arrosto? Torna di là a fare quello che ti riesce meglio, cioè niente… almeno non fai danni.
Okay, avevo sottovalutato la reazione. le righe sono state più di tre… Capito come funziona? Per qualche granello di sale caduto in terra e una distribuzione disomogenea sull’arrosto, rimediabile con una semplice ravanatina nella pentola, lei si sente in dovere di vomitarti addosso tutte le sue insoddisfazioni e di farti pesare quello che sei diventato anche e soprattutto a causa sua. Perché, diciamoci la verità, hai smesso di fare sport in quanto alla “signora” dava fastidio che avessi del tempo libero da dedicarti. E la pancia? Quella c’è, è fuor dubbio. Per forza, nemmeno la Sora Lella cucinava piatti così pesanti. A pensarci bene, guardandola, non è che lei sia messa meglio: quando l’hai conosciuta somigliava ad Angelina Jolie e adesso sembra Ave Ninchi. Benso, nella sua enorme saggezza, avrebbe risposto all’attacco con un “Vogliamo parlare delle chiappe che hai messo su, o lasciamo parlare le bestemmie delle sedie che le ospitano?”, ma noi, che siamo uomini zerbino, e non ci piacciono le discussioni, ci limitiamo a un laconico e ipocrita “Sì, amore, hai ragione, torno di là”. Inghiottendo, insieme alla saliva, tutta l’insoddisfazione e la frustrazione che ci portiamo dentro. Ci vuole più coraggio a tacere piuttosto che a rispondere, a volte.
Questo scenario potrebbe sembrare pericoloso e assolutamente da evitare, ma soltanto perché non ho ancora illustrato il successivo: quello in cui uno dei due, chissà sulla base di quale immeritata autostima, si autopromuove a direttore dei lavori e inizia a dare indicazioni all’altro, guardandosi bene dal prendere qualsiasi iniziativa che possa esporlo alla fatica o all’errore. Di solito, il ruolo da direttore dei lavori se lo assegna autonomamente l’uomo, che, pur di affermare la propria superiorità in ambiti in cui avrebbe solo da perdere, inizia a criticare a sproposito ogni azione della compagna. Ovviamente, dopo un paio di minuti, il clima si fa incandescente, lei s’incazza come una bestia e lo sbatte fuori di casa con due calci in culo e il divieto assoluto di rientrare prima dell’ora di cena. Lui, dopo che se n’è stato a cazzrullellare in giro, pensa che la furia si sia calmata, invece lei ha impiegato quel tempo per preparargli un’accoglienza al vetriolo.
– Bentornato, stronzo! Dove sei stato di bello? Da quella troia che ti manda i messaggini a tutte le ore?
– Ma no, amore, cosa dici? Ho fatto una passeggiatina per lasciarti in pace…
– Passeggiatina un cazzo! Mi hai preso per una deficiente o per una serva? Io mica sono tua madre, che ti prepara ancora “il frullatino” anche se hai quarant’anni, brutto coglione che non sei altro. In casa serve collaborazione, hai capito? Mi sono stufata di queste cene in cui devo fare tutto io e tu ti atteggi a supervisore del cazzo! Lo fai apposta per farmi imbestialire, ormai l’ho capito. Ma questa è l’ultima volta… dio deve fulminarmi, se ci ricasco di nuovo…
Dio, dove sei? Possibile che quando servi non ci sei mai e ti palesi soltanto quando non dovresti? Questa frase, negli ultimi dieci anni, l’avrà detta non meno di cento volte, ma è sempre stata la penultima, di volta… Perché non l’accontenti? Un fulmine, cosa ti ha chiesto, in fondo? Che vuoi che sia un fulmine? Basta un attimo e zac!… risolveresti due problemi. Che poi, se proprio vogliamo dirla tutta, è sempre lei a organizzare queste cene con gli amici (suoi), tu ne faresti volentieri a meno. In ogni caso, mentre attendi fiducioso il fulmine, provi in qualche modo a recuperare e te ne esci con un pericolosissimo.
– Dai, amore, dimmi quello che devo fare e lo faccio.
Questa frase ha tre possibili conseguenze. La prima è la più soft: ben sapendo che sei un deficiente, lei ti affida dei compiti idioti pur di non vederti stravaccato sul divano a mangiare patatine. Di solito si tratta di azioni semplici e prive di rischi, tipo grattugiare il parmigiano, infilare gli stuzzicadenti nelle olive o ripiegare i tovaglioli. Anche in questo caso, però, il folletto della minchionaggine che è in te può palesarsi sotto forma di grattugiata dell’indice con versamento di sangue a fiumi, nocciolo dell’oliva, mangiata di nascosto, che appare misteriosamente nel contenitore delle olive durante l’aperitivo (eppure eri convinto di averlo gettato nella spazzatura), tovagliolo con cui ti sei superficialmente soffiato il naso, ripiegato inspiegabilmente come tutti gli altri, che si confonde con la massa di tovaglioli e va a finire casualmente proprio nel di lei posto. La seconda opzione testimonia più che altro la resa ed è una dichiarazione di vittoria attraverso l’affermazione dei ruoli e delle competenze: “Ci metto meno tempo a farmele da sola, le cose, piuttosto che spiegarle a un eterocefalo glabro come te”. Diciamo che questa ipotesi è meno soft della precedente, ma è poco dolorosa per entrambi. La terza è terribile, peggio di una tumpuliata sugli zebedei.
– Lascia stare. Non importa.
Così, secco, senza altre aggiunte. In questo caso, hai due alternative. Puoi lasciar stare, far finta che l’affermazione sia vera, che non importi veramente, e tornare a non far nulla, ma commetteresti un errore madornale. Mica penserai che una donna dica “Non importa” rispettando il senso della frase, vero? Solitamente, un mansueto “Non importa” nasconde un più pratico “hai detto una cazzata”, un “ci sei arrivato quando non serve”, e annuncia una prova durissima da superare. Perché è evidente che non importa significa che c’è in ballo qualcosa di importantissimo, impossibile da decifrare, e che le possibilità di indovinare di cosa si tratti siano ridotte al lumicino. Infatti, passi minuti drammatici a cercare di capire quale sia il concetto così importante da non importare e alla fine dai seguito al famoso proverbio siciliano “Cchiù longa è ‘a pinsata cchiù grossa è ‘a minchiata”: ti dedichi a una delle tante attività che reputi di un’utilità pazzesca, tipo tosare il prato o prendere il trapano per mettere dei tasselli che deturpano le pareti, e che a lei fanno saltare definitivamente i nervi.
C’è da chiedersi quale sia il contorto meccanismo cerebrale che conduce un essere umano a parlare in maniera cifrata quando non se ne sente assolutamente il bisogno. È come se in pizzeria si ordinassero degli arrosticini per chiedere una pizza capricciosa ben cotta, con poco pomodoro, molta mozzarella, senza funghi e con due uova, incazzandosi peraltro col cameriere che, quando si presenta con la pietanza, giusta ma sbagliata, non è stato in grado di capire l’ovvietà.
– Signora, c’è qualcosa che non va? Gli arrosticini non sono di suo gradimento?
– Non importa…
Non importa? Tu ordini gli arrosticini quando in realtà hai voglia di pizza e se ti porto la pietanza che hai ordinato fai anche l’incazzata? Perché secondo te è ovvio dire arrosticino quando in realtà si intende dire pizza capricciosa, giusto?
Infine, c’è il caso in cui ognuno vuole prevalere sull’altro e innesca una competizione spietata a colpi di critiche reciproche e vaffanculo lanciati a raffica come gli zoccoli che le mamme di una volta lanciavano ai figli: questa è sicuramente la situazione peggiore, quella che esaspera gli animi e conduce dritti dritti verso l’ictus. Lei fa la besciamella? Lui ha da ridire sulla consistenza e tira in ballo “la ricetta di mamma”, che la fa andare su tutte le furie. Ma come cazzo ti salta in mente di nominare la parola “mamma” durante un conflitto armato? Non sai che compagna e mamma sono come due rette parallele che non debbono mai incontrarsi? Loro sì che sono in competizione perenne. Dovresti saperlo che quando hai chiesto a tua madre un parere sulla tua compagna la risposta è stata “Non sa fare gli struffoli, non li frigge nella sugna” con una mestizia e una rassegnazione da cui avresti dovuto capire tutto. Dovresti saperlo che quando hai chiesto un parere su tua madre alla tua compagna lei ti ha risposto “Quella megera vuole insegnare A ME a fare gli struffoli”. Dovresti saperlo che dentro di te, vigliacco che non sei altro, pensi che “gli struffoli di mamma sono gli struffoli di mamma perché li frigge nella sugna”, ma non hai il coraggio di dirlo alla tu amara metà. Insomma, come al solito, dovresti sapere tutto, ma non sai mai niente. ‘N ce sto a capì ‘n cazzo ti dice qualcosa? Anche perché, se di solito la madre di un uomo viene portata dal bambacione cocco di mamma come l’esempio di donna perfetta e inarrivabile, la madre di una donna, per l’esattezza la suocera, è l’esempio di come non bisogna mai essere. L’insulto peggiore che un uomo possa fare a una donna non è “Sei una mignotta” ma “Sei come tua madre”… che poi comprende anche il primo insulto. Queste coppie non hanno speranza: sono destinate ad amarsi, odiandosi, per sempre.
A questo punto, supponiamo che in qualche modo sia tutto pronto, che l’umore sia pessimo e che l’arrosto sia salato a metà. Dentro l’uomo risuonano ancora le parole “si ‘na uallera” e dentro la donna “Sei come tua madre, cioè una zoccola”. Insomma, ci sono tutti i presupposti per passare una serata da incubo, fingendo di essere una coppia felice e affiatata. Fortunatamente, le ultime volte mi sono limitato a fare la parte dell’invitato non accompagnato. Ho osservato le miserie altrui tenendo da parte le mie. La cena della scorsa settimana è stata più o meno questa.
Dlin, dlon.
– Chi è?
– Stocazzo!
La nostra parola d’ordine è questa. Sono più di quarant’anni che il signor Stocazzo suona al citofono, puntuale come le cartelle esattoriali. Per fortuna che c’è lui, l’unica ancora di salvezza della serata, l’unico che riesce a dare un senso compiuto alla domanda “Chi è?”. Casa di Alberto è sempre la stessa, l’unica cosa che è cambiata in questi anni è la donna che ci abita: prima era Anna e adesso Tiziana. A conti fatti, lui è stato coerente con la scelta che ha fatto a suo tempo: è rimasto insieme a Tiziana, nonostante le mie previsioni lo avessero dato per spacciato dopo i primi sei mesi. C’è da dire che lei si è impegnata parecchio ed è cambiata talmente tanto, per amore di Alberto, che non la riconosco nemmeno più. Sono una bella coppia e vederli felici mi fa stare bene. Certo, i loro problemi li hanno, ma chi non ne ha? Scommetto che tra le situazioni che ho descritto loro sono nella prima.
In poco tempo si palesano tutti, nessuno escluso. Nel gruppo, formato perlopiù da squinternati, disagiati, ansiosi e depressi, ci sono Sandro, il tuttologo ipocondriaco malato di protagonismo, Teresa, la comare snob e impicciona, Laura, l’ansiosa colta e depressa, Martina, la squilibrata egocentrica malata di sesso, Barbara, la fredda e anaffettiva rompiballe che si accompagna a Fabio, il riccastro ignorantello e viscido. Ultimamente si sono aggiunte anche delle new entry: Federico, un ex carabiniere cinquantenne, espulso dall’arma, che di mestiere fa la guardia giurata, e Ilaria, la sua fidanzatina venticinquenne che invece fa la coatta di professione e aspira a diventare la commessa in un negozio di abbigliamento prestigioso, ma, nell’attesa, lavora all’outlet “Tanta roba”, un negozietto terribile che vende vestiti “quasi firmati”. Il proprietario, conosciuto nell’ambiente per la sua immensa generosità, che manifesta prestando i soldi a strozzo, acquista vagoni di merce contraffatta a cui toglie di proposito le etichette per far credere ai clienti che si tratti di merce che scotta. Alberto li ha ribattezzati subito Dexter e Sugar, i due poliziotti di Aldo, Giovanni e Giacomo. Per i soprannomi bisogna lasciarlo stare… E devo dire che non sbaglia un colpo, perché Dexter, cioè, Federico, non perde occasione per raccontare storie, nella maggior parte dei casi frutto della sua fantasia, in cui compie azioni eroiche e sgomina da solo bande pericolose di criminali all’insaputa di noi comuni mortali, che dovremmo essergli grati perché mette a repentaglio la sua vita per farci vivere al sicuro. A ogni modo, quando parla di griminalità, con la g, con un tono grave e convinto, non riesco a essere serio. Insieme a Dexter e Sugar c’è anche Viviano, il marito di Laura, l’unica persona degna di rispetto, non fosse altro per il fatto che racchiude in sé due personalità: è silenzioso come il baffone dei Ricchi e Poveri e accondiscendente come il notaio di Indietro tutta. Solo lui può sopportare le fissazioni di Laura, la sfilza di malattie inventate e quella capacità provocatoria che farebbe incazzare anche San Francesco. Viviano ascolta, tace e si limita a dire “confermo”. È una coppia grigia, tenuta insieme dall’abitudine, più che dall’amore. Sono entrambi rassegnati a stare insieme.
– Secondo me non scopano più da almeno dieci anni…
– E su, Martina, possibile che vai sempre a parare là? A me mettono tristezza, altroché…
– Che c’entra… mettono tristezza anche a me, la mia è solo una constatazione.
– Fai constatazioni monotematiche…
– A proposito di tematismi… ma tu? Vuoi farmi credere che sei single?
– Deve esserci per forza qualcuna? Non potrebbe darsi che sto semplicemente benissimo da solo?
– Potrebbe darsi, ma ho come l’impressione che nascondi qualcosa e stai prendendo tutti per il culo.
– Beh, ti sbagli. In ogni caso, sono affari miei…
– Di che affari parlate?
– Teresa…
– Non è per impiacciarmi, ma…
– Non è per impiacciarti? Ma se non sai fare altro…
– Come sei permaloso!
– Comunque, secondo me, Laura un pensierino su di te ce lo fa… anzi, più di un pensierino…
– Ma sei cretina? Piuttosto imbastisco una relazione col giornalaio, guarda. Quella ha un talento naturale per rovinare le vite degli altri. Hai visto come ha ridotto Viviano? Quel poveraccio mica era così. Laura è di un egoismo e di un egocentrismo senza paragoni. Vede fantasmi e complotti ovunque…
– Hai dimenticato l’ipocondria.
– È il classico dito al culo…
No, scusate, io non ce la faccio. Ogni volta si va a finire a parlare di gossip. Possibile che le tresche siano l’argomento dominante di tutte le conversazioni? Mi butto sul buffet e li lascio sfogare…
– Secondo me Luca sta con qualcuna e non vuole dirlo.
– A me non piace per niente! Con quell’aria da falso intellettuale sensibile e da malinconico incompreso mi urta i nervi.
– E di quel suo modo di fare da principino di Primavalle ne vogliamo parlare?
– Sì, Sandro, lo sappiamo che tu non lo sopporti: è evidente da come ti rivolgi a lui, si capisce lontano un miglio…
– Per forza, si atteggia a finto intellettuale e invece non capisce una cippa.
– Beh, no, non sono d’accordo. Luca dà una pista a tutti voi messi assieme… Vorrei aver letto la metà dei suoi libri.
– Ma quali libri? È uno sbruffone e basta. L’anarchico de ‘sta minchia… il pensatore libero che non si confonde con la massa. O la pensi come lui o ti reputa un coglione. Poi ti fa pure le battutine per fare il simpatico: sai dove se la può infilare, la sua ironia?
– Ma infatti! Se provi a dire qualcosa di sensato, il pensiero della gente comune, ti dice subito che sei un fascista e attacca il pippone sui valori universali, sugli ideali e sull’uguaglianza. Si sente superiore a noi. Tutte chiacchiere: cominciasse a ospitare qualche barbone o qualche negro in casa sua, poi vedi come cambia idea.
– È un fascista mascherato da comunista.
– Sentite, a me non piace parlare alle spalle delle persone…
– No, Martina, a te non piace parlare alle spalle di Luca perché sono anni che gli sbavi dietro e non ti si fila.
– Io? Ma sei scema?
– E dai, lo sanno tutti…
– Ti sei bevuta il cervello? Sandro, le rispondi tu, per favore?
– Io non mi pronuncio. Secondo me quello è pure frocio.
– E basta! Mi fate pena, guarda: siete la meschinità fatta persona.
– Chiudiamo il discorso, che è meglio.
Sì, mi sento fuori posto. Non so se sia io a essere inadeguato a loro o loro a essere inadeguati a me. O entrambi. Quando mi invitano dovrei dire no, ma evidentemente qualche demone si impossessa di me e prende le decisioni al mio posto.
– Stai sempre attaccato a quel telefono… con chi chatti?
– Con un cliente.
– Di sabato sera? Alle 21,30?
– Sì, Teresa, di sabato sera, alle 21,30: è vietato?
– No, no, ci mancherebbe.
Temo di non riuscire a resistere: prima o poi dovrò ricorrere alla bestia che è in me e a un “mi hai rotto i coglioni” con la voce di Al Bano. C’è un limite a tutto, anche allo sfrugugliamento.
– Alberto, ma cos’ha Luca? È strano…
– Sì, per forza, è Luca Strano, altrimenti sarebbe un’altra persona.
– Dai, non fare lo scemo: fa il solitario, se ne sta in disparte e non partecipa alle discussioni…
– Il dubbio che non sia interessato alle discussioni che fate ti è mai sfiorato?
– Se continua così, va a finire che si autoesclude dal gruppo di amici: uno così porta pure sfiga. Se n’è accorto pure Sandro.
– Non ne avevo dubbi: l’invidia di Sandro nei confronti di Luca è evidente. Non perde occasione per sparlare di lui. Che vuoi farci? Soffre di complessi d’inferiorità, bisogna capirlo.
– Sì, ho anch’io questa impressione: sembra geloso.
– Di cosa non si capisce, dal momento che a Luca non gliene va bene una.
– Ha dei problemi con qualche donna, vé?
– E ti pare che una cosa simile la verrei a dire a te?
– Ho indovinato?
– Sì, hai indovinato: ha dei problemi con una donna.
– Lo sapevo! Caccia fuori il nome.
– La donna con cui ha problemi… sei tu! Continui a impicciarti di cose che non ti riguardano.
– Ti hanno mai detto che sei stronzo come il tuo amico?
– Uh, non sai quante volte… Andiamo a cenare che è meglio…
Vi avverto: sono nella fase “odio tutti”. Capirai, già non li sopporto nei giorni migliori, figuriamoci in quelli peggiori.
– Tutto ottimo, Tiziana: complimenti!
– Giusto l’arrosto… era leggermente sciapo…
– Veramente la mia fetta era salata!
Che vi avevo detto? Ho indovinato: siamo sicuramente nella situazione 1. Lei ha preparato tutto e lui ha fatto la minchiata… Eppure a vederli sembrano così felici. Mai fermarsi alle apparenze.
– Beh, tutto ottimo tranne il cadavere arrostito: io la carne la toglierei definitivamente dal commercio.
– Uh, non cominciare a fare la solita vegana integralista, Laura!
– Sei un’insensibile, ecco cosa sei. Gli animali hanno un’anima, sono un dono di Dio!
– E le piante no? Anche loro hanno un’anima: non andrebbero uccise.
– Concordo: sono fonte di vita! Ci danno l’ossigeno.
– Scusate, ma prima o poi una melanzana morirebbe lo stesso: tanto vale che muoia fritta e affogata nella parmigiana…
– Un conto è la morte naturale, un altro conto è l’estirpazione: come se a te, di punto in bianco, ti togliessero l’ossigeno e ti lasciassero morire lentamente. Ossigeno che peraltro ti viene donato dalle piante.
– Scusate se mi intrometto…
Minchia, si è svegliato pure Viviano, la faccenda è seria.
– … gli animali no, le piante no, di cosa cazzo dovremmo nutrirci?
Beh, per far sbroccare Viviano ce ne vuole. Complimenti, notaio, osservazione esatta.
– Uova e formaggi.
– Per carità, sei pazzo? E gli allevamenti intensivi? Non dimenticare quelle povere galline ammassate, costrette a covare uova tutto il giorno. Senza contare che ogni uovo potenzialmente è un…
– Pollo al forno con le patate!
– Idiota, intendevo dire “pulcino”.
– Eh, certo, ma è anche una frittata di cipolle, però…
– Mi state facendo venire la nausea.
– Vado a preparare il caffè, voi intanto spostatevi in salone.
Vi è piaciuto l’angolo del nutrizionista? Okay, forse non è stato trattato agli altissimi livelli che avrebbe raggiunto Rosanna Lambertucci, ma ci siamo andati vicino. So che preferireste un argomento a piacere, ma purtroppo per voi il copione lo detto io: parliamo di complottismo.
– Per carità: io sono contro i vaccini!
– Certo, Laura, tu sei contro a qualsiasi cosa abbia un fondamento scientifico.
– Per forza! Con la scusa del vaccino, chissà cosa ti iniettano nelle vene. A parte i rischi di autismo e i problemi legati alla salute, c’è chi sostiene addirittura che mettano in circolo dei microchip collegati al 5G.
– E quale sarebbe il motivo?
– Ovvio, per spiarci.
– Quindi pensi che il mondo sia interessato a sbirciare nella tua insulsa vita e per farlo si spendano soldi ed energie nella ricerca?
Mi piaccio quando antepongo l’aggettivo al nome, rafforzo il concetto come quando uso gli improperi.
– Ti prego, non parlarmi di ricerca. Sostengo da sempre che la scienza è solo un punto di vista. La scienza è relativa…
– Ma che cavolo dici? Secondo te le leggi di Newton sono relative?
– Certamente! Sono solo convenzioni che l’uomo ha adottato per spiegare quello che non riesce a capire.
– Ma di quali convenzioni parli? Hai mai sentito parlare del metodo scientifico?
– Tutte cazzate: la gente continua a morire e ad ammalarsi, nonostante la “tua scienza”.
– Ti pare un ragionamento sensato? La medicina e la matematica sono due scienze completamente differenti…
– Senti, Luca, non fare il sapientone con me perché non attacca! Ho le mie idee e devi rispettarle.
– Io le idee le rispetto sempre. In questo caso, però, non si tratta di idee, ma di opinioni: se io ti dico che questo è un bicchiere, tu non puoi dirmi che è una ruspa. Confondi il diritto a esprimere un’opinione con la presunzione di sparare cazzate, secondo me.
– Ah, perché tu hai solo certezze? Beato te… Tu, per esempio, sei certo che la terra sia tonda? Ci sono fior fior di teorie che lo mettono in dubbio!
– Anima candida di Galileo, rispondi tu per me.
– Galileo? Quello che ha rinnegato le sue idee pur di salvarsi il culo? Lascia stare, Luca, lascia stare…
Sì, lascio stare. Non ce la posso fare. Lascio la parola alla rubrica “Ce l’ho lungo” e mi estraneo dai discorsi. Faccio la voce esterna. Chi comincerà, stavolta?
– Sto pensando di cambiare la macchina.
Fabio, come sempre… figurati se non esordiva con lo sfoggio di ricchezza non richiesto.
– Ma la tua non è seminuova?
– Sembra seminuova, ma ha già un anno e mezzo…
– Me cojoni! È da buttare, allora….
– Se non la cambio adesso, poi si svaluta troppo.
– E cos’hai intenzione di comprare?
– Qualcosa di sportivo, che abbia un motore con almeno 200 cavalli.. Sono indeciso tra la BMW Coupé e l’Audi 2.0 biturbo.
Son problemi… Io pure sono spesso indeciso sulla scelta del mezzo con cui spostarmi. Nel mio caso, però il quesito è leggermente diverso: “È meglio la tessera dell’Atac o il monopattino elettrico acquistato a rate approfittando del bonus statale?”.
Passo notti tormentate e non riesco a prendere una decisione: nessuno può capire Fabio meglio di me.
– Comprare l’auto nuova, di questi tempi, è un azzardo, se non hai il garage…
– Perché è un azzardo?
– Con tutta la delinquenza che c’è in giro… rischi che te la rubano subito.
E ti pareva che Dexter non attaccava coi soliti discorsi sul crimine: l’unico argomento di cui può parlare è quello. Dexter, stai attento ai congiuntivi: questo è un libro di un certo livello.
– Voi non avrete idea di cosa c’è là fuori. È pieno di griminali…
Griminali… E fosse solo quello: ha aggiunto anche un prezioso “voi non avrete”.
– La griminalità farebbe il suo porco comodo, se non ci fossero noi guardie giurate che rischiano la vita tutti i santi giorni.
– È vero, amò, io ciò ‘na paura quanno vai a lavorà… se io resterei sola… non ce voglio nemmeno penzà?
Se io resterei?
Se io resterei???
Padre Giove, ti prego, intervieni. Trasformala in un capitone, affinché la sua presenza su questa terra abbia un senso, almeno il giorno della vigilia di Natale. Cosa c’è di peggio di “se io resterei”? Se io andrei? No, Se io andrei una speranza la dà: fa sperare che chi lo pronuncia possa realmente andare lontano laddove nemmeno Claudio Baglioni in Poster auspicherebbe. Andare dove? Fate voi, ragazzi, fate voi. Se io resterei, invece, toglie anche quella speranza: significa che il capitone resta, e discutere con un’anguilla, perdipiù di sesso femminile, non è proprio edificante. Poi dici che uno si sente inadeguato, per forza! Dove minchia li hanno raccattati questi due? La selezione deve essere stata durissima: trovare dei compagni di viaggio di questo “calabro” culturale non è facile. Mi auguro per voi che i griminali e l’uso spericolato dei tempi verbali abbiano provocato uno shock curabile soltanto con le videolezioni notturne dell’università telematica Nettuno. In caso contrario, voi avete un problema, Dexter e Sugar hanno un problema e io ho tre problemi…
– Se io direi quello che m’è successo ieri non ci credeste.
No, Cristo, no! Se io direi è peggio di Se io resterei. Ma porca di quella troia, vi siete proprio messi in testa di condurmi all’infarto? Avete in mente di trasformare l’Accademia della Crusca in un Burger King e per farlo avete scelto i miei racconti? Posso dire che avrei preferito una fine più gloriosa? Che so, milioni di copie vendute, una serie televisiva su Netflix, interviste di Marzullo… e invece mi tocca lo sputtanamento siderale?
– Dai, racconta, le tue imprese sono sempre così emozionanti… vero, Alberto?
– Uh, come no, ci stiamo cagando sotto dalla paura…
– Visto che me lo chiedete… Insomma… Ieri tre bastardi romeni sono entrati nel supermercato di cui ero di guardia. Non gli ho dato manco il tempo di capire quello che stasse succedendo: due l’ho stesi con una scarica di cazzotti, un’altro è scappato terrorizzato.
Niente da fare: Dexter, si dice “un altro”, senza apostrofo, non un’altro: fai errori di ortografia anche quando parli…
– Se io avrei il potere, farei piazza pulita.
Alé, ci voleva la chiosa colta, stavamo in pena, se ne sentiva la mancanza. Faccio finta di niente, tanto ormai l’integrità linguistica del mio libro è bell’ e andata a puttane.
– Ma sei un eroe!
– Non fare l’imbecille, Luca! Federico sì che ha coraggio: affrontare da solo bande di criminali… sfido chiunque.
Griminali, prego! Purtroppo, con me questi racconti eroici non attaccano: io, tra le guardie e i griminali, scelgo sempre i secondi. Un ladro ha sempre un buon motivo per rubare e una guardia non ha mai un buon motivo per ammazzare il prossimo. Ma soprattutto Dexter non ha mai un buon motivo per raccontare queste cazzate colossali. Che dovrei fare, adesso? Chi parla di lusso, chi spara teorie pseudoscientifiche, chi parla di piante con l’anima, chi fa azioni eroiche… e io? Devo riscattarmi per forza, non ho alternative. Potrei far ricorso alla storia della fontana luminosa o a quella volta che ho afferrato un fico d’india pieno di spine al volo, ma non so se farebbe effetto. Ci sono! Racconterò l’impresa eroica più importante e pericolosa della mia vita. Non avrei mai pensato di doverlo fare, ma lo devo a me stesso. Ne va della mia dignità.
– Io. Una volta. Ho. Smontato. Lo sciacquone. Geberit.
Sguardi increduli. Stupore. Tutti mi guardano con sgomento e meraviglia, come Wilma Goich guardava Edoardo Vianello mentre le cantava Tù padre co tù madre più de vent’anni fa sbajareno li calcoli prima de consumà sinnò me pare chiaro non dovevo stà a pensà che ciò ‘na donna a carico che me fa disperà.
– Ci stai prendendo per il culo?
– No, sono serio.
– Non fare il buffone.
– Sfido chiunque, non temo confronti: alzi la mano chi l’ha fatto almeno una volta nella vita.
Immobilità. Silenzi. A questo punto, quella che in un primo momento poteva sembrare, a giusta ragione, una provocazione inizia a innescare la competizione.
– Io ho smontato il pulsante, ma non sono mai andato oltre… troppo complicato.
– Sì, lo so: in molti si bloccano in quel punto.
Rispondo, con l’aria da professionista degli sciacquoni.
– Quel rumore continuo d’acqua mi manda al manicomio: pensa che ogni volta spendo 200 euro di idraulico…
– È il calcare: si forma uno strato di calcare che impedisce al galleggiante di chiudere lo scarico.
Minchia, quanto sono preparato! Altro che l’equazione d’onda di Huygens-Fresnel, la teoria dello sciacquone gocciolante mi dà una soddisfazione che levati…
– Ah, c’è un galleggiante?
– Ma si smonta? Io credevo fosse tutt’uno con la cassetta di scarico.
– Si smonta, ma è un’operazione molto complessa: c’è un gioco di incastri terribil, se sbagli e ti cade qualcosa sul fondo, sei fottuto…
Qua si vede l’eroe, lo sprezzo del pericolo, il coraggio di immolarsi per una giusta causa.
– Ma sì, Luca, io lo faccio quotidianamente.
Figurati se non si palesava l’imperatore della competizione: Sandro, l’ipocondriaco che sa tutto di tutto e, nella sua immensa bontà, lo insegna anche agli altri.
– Ogni giorno? Beh, forse devi sostituire dei pezzi.
– Mi vuoi insegnare come si fa? Ne ho riparate a centinaia, di cassette Geberit. Potrei tenere dei corsi…
E certo, passare da medico internista a sturacessi è un attimo…
Quanto ci scommettete che riesco a dirottare la conversazione in un fiat e a tornarmene nel mio confortevole oblio dell’essere?
– No, certo, tra l’altro, ogni volta che devo mettere le mani alla Geberit ho qualche esitazione: sai, la mia tendinite mi dà qualche problema…
– La tua? E la mia? Tu non immagini i miei problemi al tendine della mano destra… altro che i tuoi…
Non avevo dubbi: siamo passati dalla gara sugli sciacquoni a quella sulle malattie. Proprio non ce la fa, Sandro, a perdere una competizione; deve vincere per forza. Quello che non capisce è che a me di competere con lui non me ne frega assolutamente nulla: gli do la vittoria a tavolino.
– No, per favore, non parliamo di malattie: io da ieri ho un dolore inspiegabile al braccio sinistro. Ho subito pensato a un infarto, ma credo sia qualcosa di più serio…
– Più serio di un infarto?
– Sì, qualcosa collegata alle ossa…
Fermi tutti, stanno entrando in loop. Dove sono i tasti Ctrl-Alt-Canc, per riavviare il sistema?
Niente da fare, il sistema “amici” si è impallato: funziona peggio di Windows 95. Ognuno è perso nei propri egoismi, nelle proprie manie, nell’affermazione del proprio ego. C’è un estremo bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di imporre le proprie convinzioni, di apparire migliori. Nessuno sente il bisogno di essere quello che è e di sentirsi accettato così, finalmente. Sarebbe tutto più facile, se Teresa dicesse “Non riesco a farmi i cazzi miei” o se Sandro dicesse “Sono invidioso”. Sarebbe più facile scoprire le carte, invece di bluffare continuamente, pensando che gli altri siano talmente deficienti da non accorgersi della finzione. Ci vuole tanto, dico io, a essere, in mezzo agli altri, quello che si è quando si sta da soli? Perché c’è questo bisogno spasmodico di diventare qualcun altro? Forse perché è meglio sembrare sani piuttosto che apparire rotti. E c’è da capirlo: a chi può piacere veramente un uomo in tutte le sue sfumature? Siamo mediocri, fragili e abbiamo paura, questa è la verità. La sofferenza degli altri ci dà un sottile piacere perché rende più sopportabile il dolore che ci portiamo dentro e la felicità altrui ci infastidisce perché ci ricorda quanto siamo infelici. Per fortuna, capita di innamorarsi e in quel caso ci mostriamo come siamo: soffriamo per il dolore altrui e siamo felici per la sua felicità, ma di solito questa condizione, che anestetizza tutto il resto, non dura a lungo. Ci terrorizza l’idea di morire, temiamo la diversità, la solitudine e invidiamo gli altri anche quando non c’è niente da invidiare. Per questo ci interessa tanto sapere quello che succede fuori, piuttosto che indagare su ciò che accade dentro. E cerchiamo rifugio nelle nostre manie e nell’approvazione di chi la pensa come noi. Costruiamo montagne di rapporti superficiali, che danno l’illusione di appartenere a qualcosa, perché scavare a mani nude nelle profondità di un rapporto vero è faticoso e pericoloso e si rischia di toccare vette e abissi con la stessa facilità. E allora cerchiamo di stare in equilibrio in un sistema totalmente squilibrato, costruendo piccole sicurezze a cui aggrapparci. Come in un grande circo in cui c’è il domatore di leoni, il pagliaccio e l’acrobata. Ognuno è libero di guardare gli altri come meglio crede: c’è chi ammira il coraggio del domatore e chi soffre nel vedere il leone in gabbia. C’è chi ride quando vede l’esibizione del pagliaccio e chi non può fare a meno di piangere. E poi c’è l’acrobata, quello che ha la vita appesa a un filo e guarda gli altri al contrario. È lui che ti costringe ad alzare la testa e a guardare in faccia la realtà, quello che ti fa stare col fiato sospeso perché, tra tutti, è il più fragile e precario: basta niente e cade giù.