Ridere e tacere è il miglior modo per sostenere un’esistenza tragica e dolorosa. A chi non è mai capitato di ridere, dopo aver ascoltato una castroneria con pretese di verità assoluta, e di tacere, per evitare che una discussione finisca in un tafferuglio? Per sopravvivere alla superficialità dilagante e all’inconsistenza dei (non) pensieri di massa, bisogna imparare a ridere, diffidando scetticamente delle verità altrui, e tacere, per non trovarsi coinvolti in giochi di forza inutili e in contraddittori snervanti, con bifolchi preistorici che non sanno cosa farsene del pollice opponibile. A cosa serve, la filosofia, se non a imparare a ridere e a diffidare? D’accordo, serve anche a creare problemi dal nulla, senza fornire nessuna soluzione, o a porsi domande assurde che non hanno risposta, ma su questo soprassiederei. Per ridere sarcasticamente, però, è necessario conoscere, guardare le cose dall’alto, altrimenti si rischia di passare dalla parte dei bifolchi di cui sopra. Il viaggio che conduce alla conoscenza è una buona metafora del concetto di infinito: si parte, ben sapendo di non arrivare mai. Non tutti possono permettersi un’esperienza simile: c’è chi decide di restare nei porti sicuri dei cliché e del conformismo e chi sceglie di avventurarsi in un mare aperto e burrascoso, col rischio di essere inghiottito dall’abisso. Per affrontare una prova simile, bisognerebbe essere muniti di strumenti adeguati. Invece, tutto ciò di cui siamo in possesso è una misera dotazione che però basta a differenziarci dagli animali: i riti, il senso del ritmo e il discorso. In questo breve saggio, cercheremo di capire meglio la genealogia del nostro divenire: Com’è stato possibile, per un plantigrado ciondolante, arrivare a conoscere la struttura della materia e a chiedersi cosa sia la verità? Deve essere accaduto qualcosa di sconvolgente e straordinario, per modificare così radicalmente il rapporto con la natura e con un animale che all’improvviso si è sdoppiato ed è diventato anche “l’io”. Un io che soffre e che, nonostante siano passati migliaia di anni, non ha ancora imparato a sostenere il dolore. O, meglio lo aveva imparato nella Grecia antica, attraverso i miti e i riti dionisiaci, ma lo ha ampiamente e volutamente dimenticato. Noi partiremo proprio da lì, dalla notte dei tempi, e muoveremo i primi passi in quel viaggio verso la sapienza, per capire un po’ meglio, con ironia, perché siamo fatti come siamo fatti e perché, a volte, piangendo, ci viene da ridere.