Arriva un momento, nella vita, in cui sei costretto a mettere in discussione le scelte che hai fatto, le scelte che non hai fatto e la normalità che hai costruito, a cui sei abituato, e che ti ha anche un po’ rotto le balle. La sveglia, la colazione, i figli da preparare, poi due ore in mezzo al traffico, il petto di pollo triste della mensa aziendale, due chiacchiere forzate coi colleghi, che, se non fosse per l’ufficio, non li frequenteresti nemmeno sotto minaccia di castrazione, lavoro, altre due ore nel traffico, la strada del ritorno, sempre la stessa, il telegiornale, sbarchi, inquinamento, siparietti politici, cena abbondante per compensare il pranzo misero, dolcetto anti depressivo e tutti a letto. I più fortunati dopo una trombatina serale, spesso noiosa, i più sfigati dopo essersi rincoglioniti davanti alla tv, magari convinti di essere dei grandi intellettuali perché guardano qualche programmino satirico di approfondimento politico.
Se non ci fosse qualcuno più attento degli altri alle relazioni sociali, che ogni tanto mi sbraita inferocito dal finestrino “A fijo de ‘na mignotta, ma ‘ndo cazzo vai?” con la voce ruggente di Adriano Pappalardo, mi sentirei solo, per niente coccolato e sosterrei con fermezza che la vita dell’uomo qualunque non è poi così entusiasmante. Oggi come oggi, l’esistenza è una sorte di attesa perenne nei confronti di qualcosa che, quando arriva, non è mai come uno se l’era immaginata. Si aspettano l’amore, la laurea, il lavoro, il matrimonio, i figli, il successo, la pensione… il tutto intervallato da piccoli o grandi miraggi di qualche tipo di felicità da rincorrere in maniera scomposta. Felicità che è sfuggente come una saponetta nella doccia di un carcere durante la giornata mondiale dell’igiene. Ti chini un attimo per raccoglierla e … zac! Nel frattempo, tra una doccia e l’altra, tra un miraggio e una delusione, si costruiscono una normalità e una monotonia che spesso vanno strette. Arriva un momento in cui non ce la fai più a sostenerle e, per fortuna, a volte arriva anche quell’attimo inaspettato di felicità, che stravolge tutto. Il problema, il vero problema, è che la felicità e la normalità sono come due zie che si stanno cui coglioni a vicenda: alle feste non c’è spazio per entrambe, o si invita una o l’altra. Diciamo che la normalità è la zia monotona, tranquilla e indifferente che sta sempre in mezzo alle palle e non dà mai soddisfazione, mentre la felicità è la zia pazza e scapestrata, quella che si palesa una volta ogni dieci anni, strombazzando su una spider rosa, vestita come Thelma e Louise messe insieme, e ti travolge coi suoi regali strampalati e i suoi complimenti esagerati. Ti fa sentire vivo, in poche parole. Tutti la criticano, ma in fondo vorrebbero essere come lei. Perché ha avuto il coraggio di diventare ciò che è sempre stata, senza scendere a compromessi con nessuno, nemmeno con l’altra zia, che la voleva sistemata con un buon partito. Se ne va all’improvviso, senza avvertire. Te ne accorgi perché hai paura di perderla, come è già accaduto altre volte, e segui ogni suo movimento. Una mattina, nel dormiveglia, senti il rumore di un motore, pensi di sognare, ti svegli all’improvviso, ti affacci alla finestra e vedi un po’ di polvere e una spider rosa che si allontana. Resti immobile, incollato alla finestra, a osservare l’alone del tuo respiro affannato sul vetro. Non riesci nemmeno a piangere, passi direttamente alla rassegnazione e speri che torni il prima possibile. Vabbè, taglia corto e parlaci di quello che t’è successo e come hai perso la felicità, vi starete dicendo. Sbagliato! Vi parlerò di come si perde la normalità, perché a perdere la felicità siete sicuramente bravi quanto me e non avete bisogno di lezioni da nessuno. Tutto è iniziato i primi giorni del mese di marzo, quelli che, nelle canzoni di Battisti, si vestono di nuovi colori. Mi sveglio, apro le finestre, alzo lo sguardo al cielo e penso “Oggi sarà proprio una giornata di merda: fa freddo, piove e resterei volentieri a casa, se non avessi una serie di appuntamenti scanditi come la raffica di una mitraglietta F44. Esco in balcone, guardo la strada che ho di fronte e i bagliori del nuovo giorno che sta nascendo: è da un po’ che non arriva nessuna zia scapestrata. Se non è arrivata, non c’è nemmeno il rischio che parta, penso. Meglio così.
Che anno èèè, che giorno èèè,
questo è il tempo d vivere con te,
le mie mani come vedi non tremeno più
e ho nell’anima, in fondo all’anima
cieli immensi e immenso amore
e poi ancora ancora amore amor per te,
fiumi azzurri e colline e praterie,
dove corrono dolcissime le mie malinconie,
l’universo trova spazio dentro me…
ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è…
Ta, ta, tatatà, ta, ta, tatàtatta…
Mi ritrovo a cantare con un Kinder Brioss grondante caffelatte stretto tra le mani a mo’ di microfono: quando sono posseduto dal demone della musica posso fare qualsiasi cazzata. Mi ricompongo un minimo e, mentre asciugo il tavolino con tonnellate di carta assorbente, penso che è andata a finire proprio così: nonostante l’età, il coraggio di vivere, quello, ancora non c’è. Sarà che non sono mai riuscito a decidere nulla, tantomeno come vivere. Ho avuto l’illusione di farlo, ma in realtà gli altri avevano già deciso per me, facendomi trovare davanti a una tavola apparecchiata e facendomi pesare la fortuna di avere tutto, senza capire che il problema che mi assillava, e che mi assilla ancora, era proprio quello: avere tutto, avere niente. Mi sono lasciato vivere dalla vita e, soprattutto, ho fatto in modo che le vite e le opinioni degli altri influenzassero enormemente la mia: un errore che non mi perdonerò mai, Prendi esempio dalla zia scapestrata, mi dico, lei sì che ce l’ha fatta. La verità è che sono diventato un pavido borghesuccio conformista, quindi adesso è giusto che mi ritrovi nelle condizioni di chi vorrebbe andare al mare a guardare la libecciata che imperversa sulla costa e invece gli tocca sbattersi in mezzo al traffico. Proprio come quando avrei potuto scegliere di girare il mondo in barca a vela e invece mi sono ritrovato davanti a una scrivania a eseguire ordini dettati perlopiù da grandissime teste di minchia, esattamente come tutti quegli amici che compativo e criticavo ferocemente. Dicono che la rivoluzione si faccia con le idee, e io di idee e di ideali ne ho sempre avuti parecchi. Il problema è che le idee da sole non bastano, serve anche il coraggio. Ormai è andata: il coraggio di vivere si trova a vent’anni, non certo a quaranta suonati. Esco di casa, metto in moto la mia vecchia Panda e, per andare in banca, faccio rotta a nord, come indica il navigatore. Di nautico, nella mia vita, c’è rimasto solo questo: la voce di quella baldracca che, con l’intonazione di una chat erotica, suggerisce “tra cento metri, mantenere il nord, poi spostarsi a nordest”. Dementi che non siete altro! Chi cazzo è in grado di stabilire qual è il nord, in mezzo al traffico? Direte, la banca dista meno di due chilometri da casa tua e usi il navigatore? Per forza, altrimenti come faccio a capire quale strada è meno trafficata e arrivare in un tempo ragionevole, ovvero 45 minuti?
Ma tutte queste mamme bagasce, con le labbra rifatte e la minigonna inguinale, che accompagnano i figli a scuola col SUV, parcheggiano appositamente a caso per aumentare l’entropia dell’universo e le imprecazioni degli automobilisti? E, soprattutto, è proprio necessario andare in giro con quella specie di carro armato, per fare duecento metri di strada? Ma dimmi tu se mi tocca rimpiangere i tempi in cui i genitori andavano in giro coi pantaloni a zampa d’elefante e accompagnavano gruppi di ragazzini scalpitanti, ammucchiati dentro una FIAT 126, sopravvissuti ai biscotti Montebovi e, da adolescenti, ai viaggi Roma Ostia in due, sul Ciao, senza casco e senza più gli zebedei a causa di quel micro sellino che li anestetizzava per ore e ore. Bei tempi, quando nelle radio suonava l’Avvelenata, Roma era capoccia se si inseguivano le libellule in un prato in cerca della buona novella. Bah, questa routine non la sopporto proprio più. Mi va stretta. Mi è sempre andata stretta. Sono un moderno uomo d’altri tempi. Metto la freccia per occupare un posto in quarta fila fuori dalla banca e una delle suddette mignotte, a bordo di una specie di Jeep da Hooligan, inizia a suonare come una forsennata e a gridare con la bava alla bocca a mo’ di pitbull aizzato da padrone coglione.
– Ma li mejio mortacci tua, te levi dar cazzo? Stai a bloccà er traffico”.
Riconosco una certa gioviale raffinatezza in queste parole affettuose. Degna dell’auto che possiede…
– Certo, principessa, mi saluti tanto la regina…
– Ma vaffanculo… coglione!
Che vi dicevo? Ogni tanto ci vogliono delle iniezioni di fiducia. Mica sono insensibile come il tubo di scappamento di un autobus, anch’io ho bisogno di sentimenti puri e parole dolci: ah!, la nobiltà romana… gente di uno spessore culturale, di una profondità d’animo, che non potete comprendere pienamente se non attraverso queste poche parole, incomprensibili ai più. Cosa avrà voluto dire, la principessa, con quel “vaffanculo… coglione!”? Si è sicuramente lasciata andare a qualche tipo di sofisma socratico, a complesse metafore esistenziali, al dico e non dico, all’antica arte della retorica, al metodo induttivo… vi dico la verità: non so se ho capito bene il messaggio d’amore profondo che ha voluto trasmettermi. Perché è chiaro anche a voi che dietro quelle parole apparentemente superficiali si nasconde un qualche significato recondito da decifrare, che può sfuggire ai meno attenti. Ci penso, ci penso e vi faccio sapere…
In banca mi accoglie uno Strinzetti invecchiato e prossimo alla pensione. Ricordate il dottor Strinzetti? Quello al cui confronto la zeppola di Jovanotti passa inosservata perché se pronuncia la parola sasso lava il pavimento con la saliva? Strinzetti è quel genio della finanza che in tempi passati mi ha fatto perdere cifre consistenti in investimenti azzardati. Stavolta, a differenza della volta precedente, sono stato io a chiedergli un appuntamento per investire i miei risparmi in sicuri titoli di stato tedeschi. La tedeschia, si sa, è uno Stato solido: giusto un evento di proporzioni mondiali, tipo una guerra o una pandemia, potrebbe comprometterne la stabilità economica. Esco dalla banca e mi avvio a fare quello che mi riesce meglio: bestemmiare in mezzo al traffico, mentre rimbalzo da un cliente all’altro. Per fortuna a quest’ora in radio c’è Il ruggito del coniglio a tenermi compagnia. Finito il giro dei clienti, mi toccherà fare un salto in ufficio a risolvere quintali di problemi: ‘gna posso ffà. Sapete cosa faccio? Me ne frego di tutto e di tutti e vado al mare a guardare in diretta la libecciata: l’unico atto rivoluzionario che posso permettermi è questo. Mi rifugio là, in quella grotta a strapiombo sul mare e sto un po’ da solo con me stesso come Ethan, il protagonista del libro L’inverno del nostro scontento, quello che diceva “Non voglio che la fortuna guasti la dolcezza del nostro fallimento”. Ma sì, anche i fallimenti possono avere aspetti positivi.
Mi fermo a comprare un panino, una birretta, due patatine… e resto solo coi miei pensieri, a contare le onde. A volte vorrei essere come l’acqua e adeguarmi alla vita con la stessa facilità con cui le onde si adeguano a qualsiasi ostacolo incontrino. Invece non è possibile, o meglio, non con quella facilità che vorrei. Appena mi adatto a una situazione, a un rapporto con una donna o a un qualche tipo di lavoro, arriva una libecciata che spazza via tutto e mi costringe a cambiare. Così, di uragano in uragano, cambio forma continuamente e pago un prezzo altissimo. Se riuscissi a superare le delusioni e le difficoltà che incontro con la stessa disinvoltura con cui le onde superano quello scoglio in mezzo al mare, sarei in equilibrio perfetto. Invece sono come quel peschereccio che tenta di rientrare in porto e prende schiaffi da tutte le parti. Meglio non pensarci.
Strana bestia, la solitudine: quando c’è vorresti avere compagnia e quando sei in compagnia vorresti stare solo. Sono un’anima in pena, questa è la verità. Sto là e vorrei stare qua, sto qua e vorrei stare là. Qualche ora fa smaniavo per fuggire da tutto e adesso ho voglia di tornare a casa, nella mia casa, al sicuro: mi sento improvvisamente malinconico.
Mi avvio verso la macchina, riflettendo sull’efficacia con cui il mare manifesta la sua furia e faccio un parallelismo con le mie manifestazioni di disappunto: non c’è dubbio, siamo due professionisti dell’incazzatura. Salgo in macchina e mi accordo che la salsedine ha ricoperto completamente il parabrezza e ho finito l’acqua dei tergicristalli: ho un attimo di esitazione. Vi capita mai di trovarvi in quelle situazione in cui vi chiedete “lo faccio o non lo faccio?” pur conoscendo inconsciamente le conseguenze del “lo faccio”? Non pensateci troppo, la risposta è sì. Aziono il tergicristallo e il parabrezza diventa immediatamente come lo schermo di un televisore senza antenna. Una giaculatoria profana trattenuta è peccato o no? Mezzo o intero? In caso affermativo, confido nell’indulgenza plenaria. Lo sapevo, eh, ma ho voluto sfidare la sorte. Tolgo il cacciavite che incastrato nel finestrino e guido fino alla prima fontanella, con la testa fuori, per far prendere aria ai pensieri. Aira a 3 gradi sotto zero, per l’esattezza. Faccio rifornimento d’acqua e, dopo aver perso mezz’ora abbondante per risistemare il cacciavite e bloccare di nuovo il finestrino, che, non so perché, ogni volta si ostina a ricadere giù in quella fessura che sembra una specie di pozzo senza fondo all’interno del quale non si sa bene cosa ci sia, accendo il riscaldamento e accendo anche la radio.
… I primi casi di contagio si sono verificati nella provincia di Lodi.
Minchia, ancora il virus cinese?! Sono giorni che ci terrorizzano con questa storia. Eppure quel virologo è stato chiaro: in televisione ha detto “qui da noi non arriverà mai!”. E se lo dice lui, che sta tutti i santi giorni in televisione come Lorella Cuccarini, invece di stare in laboratorio, non si può non credergli. Se le pubblicazioni scientifiche si misurassero in tweet, vincerebbe il Nobel. Razionalità, ci vuole razionalità: anche se dovesse arrivare qua, cosa vuoi che sia un’influenza? Arriva tutti gli anni… Ai giornalisti piace teorizzare complotti e scenari catastrofici per fare audience, è il loro mestiere.
… sono state adottate misure di contenimento.
Ecco, se riuscissero anche a contenere le teste di cazzo che mi inquinano la vita tutti i santi giorni, sarebbe perfetto. Meglio non pensarci, altrimenti vanifico l’effetto rigenerante e consolatorio della mareggiata… Me ne torno a casa col seguente programma: un’oretta di corsa al parco, aperitivo con gli amici, spesa… Anzi, no, gli amici stasera proprio no, altrimenti mi tocca sentire Teresa, che inizia a parlare e sparlare di tutto e di tutti pur di riempire i vuoti della sua vita. Hai visto che ha fatto quello? Hai sentito che ha fatto quell’altra? Si impiccia di tutto l’impicciabile, basta darle il LA. Sembra una delle comari descritte nella canzone Bocca di rosa, quelle che non brillano certo in iniziativa, le contromisure fino a quel punto si limitavano all’invettiva.
Capirai, a me, che delle vite degli altri non me ne può fregare di meno, mi invita a nozze: invento le storie più fantasiose per il solo gusto di sentirla teorizzare intrighi miseri e senza senso, sulla base di notizie false, che la fanno godere come una pornodiva delle maldicenze. Non c’è niente da fare: a me quelli che hanno la mania di curiosare nelle vite degli altri perché la loro è troppo noiosa stanno garbatamente sui coglioni. E Sandro, il tuttologo? Dio, che palle! Tu prendi un argomento qualsiasi e lui pretende di insegnarti quello che non sa. Qualsiasi confronto è l’occasione per mettersi in mostra e in competizione. È un pressappochista di professione e un ipocondriaco per vocazione: se dici che hai un dolore a un ginocchio, lui ti elenca tutte le malattie da cui crede di essere affetto.. Lo fa con una sicumera da pseudoscienziato che mi urta i nervi. Se a te fa male il ginocchio, a lui fa male di più, se hai un forte mal di testa, non puoi competere con il suo. Ma chi cazzo vuole competere, dico io. Che poi, quando parte per la tangente, gli si accoda subito Laura, la presidentessa del club degli inguaribili ipocondriaci. Da quando la conosco, pensa di essere affetta da qualsiasi patologia esistente, e se non le danno soddisfazione quelle esistenti ne inventa di nuove. Per lei un capillare rotto equivale alla peggiore delle malattie mortali. Inizia a cercare su internet, fa collegamenti talmente fantasiosi che neanche Jim Morrison sotto effetto di Aspirina e Coca Cola sarebbe in grado di fare. Alla fine pronuncia la sua diagnosi nefasta: “Il capillare, collegato alla dermatite seborroica e a quel giorno in cui mi sono grattata il polpaccio sinistro, che si è leggermente arrossato, è il sintomo evidente di un melanoma incurabile allo stadio avanzato, ne sono certa”. A quel punto, entra nel panico, si autoconvince si essere vicina alla morte, fa il testamento, prende appuntamenti con gli specialisti, fa accertamenti di ogni tipo e quando si accorge di non aver nulla passa a un’altra malattia. Ora è alla lettera E, Epidermodisplasia verruciforme: ha una verruca, ma la tesi che possa essersela presa in piscina è troppo semplicistica. È disperata: pensa che il suo corpo si riempirà in poco tempo di verruche e pustole infette. Per lei nutro dei sentimenti di pena e tenerezza. Cos’altro si può provare per una donna che è malata della paura di vivere al punto da non vivere più?
No, no, niente amici, per carità, che se poco poco si aggrega anche Martina con la sua sessomania siamo spacciati: lei gli uomini li misura in centimetri… non so se mi spiego. Soffre di bulimia affettiva con complicanze varie, tra cui il carattere di merda che si ritrova. Non perde occasione per intavolare discussioni sessocentriche in cui ipotizza teorie pseudo freudiane senza senso basate esclusivamente sulla personale visione che ha della vita. Qualsiasi discussione deve fare i conti con la sua chiave di lettura. Ricordo quella volta in cui, per alzare il livello della conversazioni, intavolai una discussione sulla perifrastica passiva. Sapete qual è stato il risultato? Lei capì “plurilesbica ossessiva” e raccontò la storia di una sua amica stalker, convinta di aver capito bene e di essere una grande oratrice. Se non ci fosse stata Laura a ricordarle di essere andata “fuori tema”, sarebbe stata la fine. Ricordo che indirizzò la discussione verso l’aulicità dell’amore omosessuale, la buttò sulla cultura greca, sul tìaso, sulle devote di Afrodite, parlò di Saffo di Lesbo e delle sue poesie, di Anattoria e di quei versi rivoluzionari che le vennero dedicati, Un esercito di cavalieri, dicono alcuni, altri di fanti, altri di navi, sia sulla terra nera la cosa più bella: io dico, ciò che si ama, ma lei, imperterrita, tirò fuori Youporn e un video di cui parlò con una dovizia di particolari ignota anche al regista. Io e Laura ci siamo arresi: quando c’è lei bisogna selezionare pochi argomenti, parlare del più e del meno e, possibilmente, evitare l’argomento a piacere. Anche perché, se non la pensi come lei, fa di tutto per farti sentire a disagio e inadeguato: come se lo squinternato fossi tu e non la sua personalità deviata. Che poi, a conti fatti, è una vittima di sé stessa e si illude che le compagnie superficiali possano colmare i vuoti che si porta dentro. Il contrario di Barbara, quella dura e fredda come gli accumulatori che si mettono in freezer per rinfrescare le pesche e i succhi di frutta. Ha un viso tirato da cui non traspare mai nessuna emozione, sembra una statua di sale. Non l’ho vista piangere nemmeno quando ha perso la madre. Per non parlare di quando si è lasciata col marito, sembrava che il divorzio non la riguardasse, che il marito fosse uno dei tanti estranei di cui parlava con distacco. In compenso, è malata di lusso e fissata con gli acquisiti. Ma non una fissazione normale, una patologia da squilibrati, compulsiva, che denota tutte le mancanze che inconsapevolmente ha. Compra in continuazione qualsiasi cosa si possa acquistare. Ricordo quella volta in cui si presentò a cena con una borsa terribile formata da due sfere da cui spuntava una peluria inquietante che le faceva somigliare tremendamente agli zebedei di un alano. La mostrava fiera, eh, Una borsa così che l’ho solo io, diceva. E ti credo, chi cazzo avrebbe il coraggio di andare in giro con una cosa simile? Rischi che ti fermi la polizia e ti arresti per oltraggio al pubblico pudore. La suddetta borsa era firmata da Gucci e le era costata quanto un soggiorno di sei anni per quattro persone a Ponzano Romano, spese autostradali incluse. Gliene ho dette talmente tante che non mi ha più rivolto la parola per due mesi, ma almeno non si è più presentata alle cene con quelle palle di pelo disgustosa che hanno fermato la digestione a tutti.
No, no, niente amici, per carità, che poi Fabio, il riccastro ignorantello, scelto da Barbara come rimpiazzo all’ex marito, inizia a parlare di lussi di ogni tipo e a rivangare le vecchie nostalgie. Non capisco come facciano a sopportarsi, lui e Barbara, infatti lui la tradisce con Martina, la sessuofaga, e rimpiange continuamente Paola, la sua ex. Se no ci fosse Alberto, il mio amico storico, sarei contornato da comparse, meteore, persone che stanno là e di tanto in tanto spariscono per poi riapparire. Fabio, secondo me, è una persona da evitare come i virus: i suoi problemi di autostima li scarica sugli altri, nascondendo una pericolosa aggressività dietro un compassionevole vittimismo. Ed è un coltivatore di rancore come pochi al mondo, un vero professionista in materia: usa qualsiasi cosa tu dica per rivangare fatti accaduti secoli prima e scaricarti addosso le sue frustrazioni. È normale a giorni alterni: se lo becchi nella giornata sì, è giocherellone, generoso e socievole. Nelle giornate no, ti vomita addosso le peggiori cattiverie. Bipolare, ecco la parola giusta: è un rancoroso bipolare. Per forza Paola non vuole più saperne…
No, no, niente amici, stasera, per carità.
… da questa mattina sono state chiuse tutte le attività non essenziali: la popolazione è obbligata a restare chiusa in casa. Saranno fatti controlli a tappeto… forze dell’ordine… esercito… non è consentito uscire se non per motivi di estrema necessità.È obbligatorio mantenere il distanziamento sociale e tenersi a distanza di un metro dal prossimo.
Un metro? Ah, quindi devo avvicinarmi: io il distanziamento sociale lo tengo per default, almeno 5 metri. Potrei tenere dei corsi universitari di distanziamento sociale. Quando mia nonna consigliava di mantenere il famoso “palmo di distanza” di sicurezza, io l’ho presa alla lettera e ho arrotondato a cinque metri per essere più sicuro. Il virus sta facendo anche cose buone…
– Accosti e favorisca i documenti…
Ecco, appena escono fuori le parole “ha fatto cose buon”, si rivela un qualche tipo di minchiata. Figurati se, quando ci sono ordini da eseguire, giusti o sbagliati che siano, non spuntano fuori poliziotti e carabinieri. Per loro tutti gli ordini sono giusti: proprio quello che ci vuole per quelli come me che considerano qualsiasi tipo di ordine sbagliato e non ammettono nessun tipo di ingerenza sulla libertà personale.
– È da solo?
Ah, non è un poliziotto semplice, ho beccato quello coglione. D’altronde, sarebbe stato sorprendente il contrario: trovare quello intelligente è difficilissimo. Esistono, eh, la leggenda narra che siano fra noi, ma compaiono soltanto quando le scie chimiche, in cielo, disegnano il profilo di un armadillo clamidoforo troncato.
Mi verrebbe da rispondere, No, non vede che accanto a me c’è Belen Rodriguez seminuda che sta facendo una diretta su Instagram?
– In che senso?
Dico, facendo il vago, guardando in alto e pensando a Verdone…
– Quanti sensi ha la domanda “È solo”?
– No, sono accompagnato, ma attualmente la mia donna non è in loco.
Sapevo che prima o poi la frase “non è in loco” che ho letto mille volte nei libri di Camilleri mi sarebbe tornata utile.
– Mi dia l’autocertificazione.
Risponde il tizio, evidentemente incazzato, con un accento che ricorda Abatantuono quando fa il terroncello.
– Quale autocertificazione?
– Sta scherzando o fa finta di niente?
– No, sono serio, non capisco…
– Lei pensa di potersene andare in giro liberamente? A infettare il prossimo, oltretutto? Non sa che da stamattina sono scattate delle misure di contenimento ferree? Dove se ne sta andando?
Calma, Luca, stai calmo. Vuoi prendertela con un coglione simile? Non vedi che ha già le sue disgrazie cerebrali con cui fare i conti? Che gusto ti darebbe prendere a coltellate un melone retato? Non ti sei reso conto che il suo cervello è attaccato al database centralizzato della polizia, quello dei pensieri all’ammasso, e qualsiasi cosa di ragionevole tu dica risponderà con una frase inutile e idiota?
– Veramente non sto andando, sto tornando. A casa.
– E dov’è andato?
La tentazione di rispondere “saranno cazzi miei?” è fortissima.
– A trovare mia nonna.
Senza dire nulla, prende i miei documenti e inizia a smanettare davanti a un pc portatile. Dopo un quarto d’ora ricompare con un sorriso beffardo.
– Quale delle due nonne, quella morta nel ‘97 o quella morta nel ‘99?
Brutto figlio di puttana: ecco cosa ha fatto davanti al pc, è andato a impicciarsi dei fatti miei come nemmeno Teresa, l’amica comare, si sarebbe permessa.
– Lei è obbligato a dirmi dov’è andato, perché è uscito e dove si sta dirigendo, ha capito? E senza fare lo spiritoso!
A questo punto, sarà per colpa dell’aria di mare, sarà perché apprezzo la presenza dei poliziotti come si possa apprezzare il lupus eritematoso, sarà perché penso di essere abbastanza intelligente da sapermi governare da solo senza il bisogno dei suggerimenti della regia, sarà perché quando mi impongono con la forza di fare qualcosa il mio posto lo prende lo spirito della contraddizione che ho dentro e faccio esattamente il contrario, sarà perché la saliva va per traverso nei momenti meno opportuni… insomma, ho iniziato a tossire come un forsennato.
Apriti cielo!
– Esca dall’auto.
Dice il coglione, la cui incazzatura è arrivata a toccare vette inaspettate e per la quale mi faccio i complimenti.
– Fagli la multa, a questa testa di cazzo, che già mi ha fatto perdere troppo tempo.
Perdere tempo? Come se nella vita avesse di meglio da fare che andare a rompere i coglioni alla gente. Stammi bene a sentire, specie di Playmobil mascherato, quella testa genitale a cui ti riferisci non sono di certo io. Dovresti fare outing, vedresti che poi ti sentiresti meglio e scopriresti di essere in ottima compagnia. Inutile discutere con le forze dell’ordine, sono come le code mozzate delle lucertole: si muovono senza testa in modo scomposto. Mille euro di multa e passa la paura.
Non faccio in tempo a incazzarmi adeguatamente che squilla il telefono: mi ero quasi dimenticato di averlo.
– Ce l’ho Luca, ne sono certa!
– Cosa avresti, Laura, di grazia? E comunque, ciao, eh?
– Come cosa avrei? Il virus, cosa sennò?
Minchia, sono fottuto!
– Macché, non cominciare con le tue fissazioni.
– Fissazioni? Tu le chiami fissazioni? Ti ricordi che venti giorni fa ti ho detto di non provare più gusto nel mangiare i miei piatti preferiti?
– Sì, hai anche ipotizzato un principio di disgeusia causata da un’infiammazione uterina che hai ricollegato a quella volta in cui hai usato il bagno dell’autogrill. Due anni fa, se non erro…
– Sbagliavo! È il virus, ne sono certa. Il primo sintomo è la perdita del gusto e dell’olfatto.
– Beh, l’olfatto non l’hai perso…
– Stai scherzando? Ma se ti ho parlato mille volte di quel mio disturbo ai turbinati. Pensavo fossero i turbinati… e invece…
– Ma quel disturbo non risale a un anno fa?
– Allora non leggi niente, non sei informato! Non sai che il virus è in circolazione da più di un anno? Aiutami, Luca, sono nel panico completo: devo fare a tutti i costi un tampone, prima che sia troppo tardi.
– Ma no, vedrai che non è niente…
– Niente? Sei il solito pazzo incosciente. Ci sono già milioni di morti… quelli che dicono i media, poi… saranno almeno il doppio. Io non voglio finire intubata in una terapia intensiva…
– Sì, ma stai calma, ancora è tutto da verificare.
– Non sto per niente calma! Tu, piuttosto, sei chiuso in casa, vero?
– No.
– Come no? Te ne vai in giro a infettare la gente?
Eccone un’altra…
– Mi auguro per te che almeno indossi la mascherina e i guanti.
– No, sono uscito nature.
– Sei un pazzo incosciente, ecco cosa sei. Vabbè che le mascherine sono andate a ruba, comunque io mi sono premunita: ho visto come si fa a farsele in casa e le ho fatte per tutta la famiglia. Basta prendere un assorbente, immergerlo per cinque minuti nella candeggina e avvolgerlo in due strati di carta forno… poi aggiungi due elastici, et voilà, il gioco è fatto.
– Minchia!, così non solo muori intossicata e soffocata, ma stermini anche tutta la famiglia.
– Meglio morire intossicati che a causa di un virus mortale.
No, vi prego, non la reggo. Accetto tutto, ma la morte preventiva per panico causato da ipotesi di virus è troppo anche per me. La rassicuro, o meglio, tento di rassicurarla, ma i tentativi sono vani: è completamente fuori di testa. Mi ha messo l’ansia. Riattacco il telefono e provo a concentrarmi sulla multa, per sostituire un pensiero angosciante con un altro peggiore. Sento anche un leggero mal di gola… sarà sicuramente colpa del freddo che ho preso al mare. O no? Uh, che palle, di nuovo il telefono.
– Ce l’ho, Luca, ne sono certo!
– Sandro…
Mi mancava, stavo quasi in pena.
– Hai sentito?
– Sì, ho sentito. Se può tranquillizzarti, anch’io ho un leggero mal di gola, ma non penso di avere nessun virus…
– Sì, ma il tuo non è come il mio, il mio è più grave.
E ti pareva…
– Io sento come una specie di ferro incandescente, che mi attraversa la gola quando deglutisco. Non riesco a mangiare e tra i sintomi c’è scritto chiaramente: perdita di appetito.
– Ma no, ti sarai preso l’influenza. Può capitare…
– Influenza? Ma sai qual è la differenza tra una semplice influenza e il coronavirus? Ti sei informato? No? Te lo spiego io…
Ecco là, è passato da millantato idraulico a esimio epidemiologo in meno di due giorni: se continua così, tra una settimana opererà a cuore aperto e riformulerà la teoria delle stringhe…
– Potrebbe non essere come dici tu, magari ci sono altre cause…
– Non ci possono essere altre cause: è l’RNA capisci? Dipende tutto da come l’RNA interagisce con le cellule…
Capite? Una settimana fa parlava delle tecniche per disincrostare il galleggiante dello sciacquone Geberit e adesso parla di RNA come se fosse un microbiologo. Chiudo la telefonata prima che finisca in rissa. Toh, alla radio passa E tu come stai. Era una vita che non la sentivo, mi riporta ai miei vent’anni e alle serate estive.
Questa sì che è una canzone da cantare in macchina a gola spiegata.
Tu come viiiiiiviiiiiiiiiiiiicometitroooviii
chi viene a preeeendeeeerti
chi ti apre lo spoooorteeeeellooooochiiiiiiiiiseeeegueeeeognituopaaaassssoooooo
Non so voi, ma io ho una serie lunghissima di canzoni da macchina, quelle da cantare a perdifiato in estate coi finestrini aperti, per farsi guardare da chiunque si accosti con quello sguardo un po’ schifato e un po’ invidioso. Posso vantare una lista di canzoni che in condizioni normali, e alla presenza di altre persone, non oserei mai intonare nemmeno sotto minaccia di morte: mi farebbero perdere quell’aria da finto intellettuale che ascolta solo musica impegnata. Passare dall’interpretazione sofferente e un po’ snob di Canzone di Notte N.2 alle movenze della brunetta dei Ricchi e Poveri mentre canta Mamma Maria è un lusso che non posso permettermi. Va bene mostrarsi il più possibile per ciò che si è realmente, ma c’è un limite a tutto. Poi, a dire la verità, io ho sempre fatto il tifo per il baffo, mentre il biondo belloccio era insopportabile: la tresca tra lui e la brunetta era evidente. Però, baffo, pure tu, un minimo di spigliatezza in più… eri impacciato come uno scolaretto, mentre facevi finta di suonare a tastiera.
Tucooomestainonècambiatonieeentenooo
Il tempooononèèèèmaipassaaaatotradino
Dopo aver messo a dura prova le corde vocali, mi accorgo che mi ha telefonato Fabio: chiamata senza risposta. E ti credo, perché dovrei rispondere a un rompiballe simile? C’è un dubbio, però, che si cela sempre in quella “chiamata senza risposta”: e se avesse voluto dirmi qualcosa di importante? Facendo una distribuzione statistica delle cose importanti che avrebbero dovuto dirmi i mittenti delle chiamate non risposte, mi sento di escluderlo: sarebbe la prima volta. Che faccio? Richiamo? Non vorrete mica prendervi la responsabilità di farmi perdere una comunicazione d’importanza vitale, vero?
– Luca, meno male che mi hai richiamato.
– Ciao, Fabio, che t’è successo?
– No, niente d’importante…
Lo sapevo, non avrei dovuto chiamare.
– Volevo farmi due chiacchiere e ti volevo chiedere se stasera ti andava di fare una corsetta.
– Che? Ma se l’ultima volta che hai corso mangiavi i tegolini del Mulino Bianco e giocavi coi tappi nel cortile di casa…
– Ho necessità di correre…
– Non hai sentito che da stamattina bisogna stare chiusi in casa? Proprio adesso ti è venuta questa necessità?
– Sì, appunto, ma stasera devo andare da Martina e non so cosa inventarmi con Barbara: le ho detto che mi avevi convinto a correre insieme a te…
– Ma sei coglione? Non mi presto a queste cose, lo sai! Se vuoi correre, corri da solo… e non accostare il mio nome ai tuoi impicci con Martina. Ma come ti è saltato in mente?
– Grazie, eh? Fai un favore a un amico, mica a un cane… comunque, non preoccuparti: mi arrangio da solo. A buon rendere!
Lo sapevo che non avrei dovuto richiamare. Sputerà veleno per i prossimi vent’anni… Ma io dico, posso trovarmi coinvolto in queste situazioni?
– Luca, dimmi la verità: hai un appuntamento con Fabio?
Ci mancava solo la telefonata di Barbara, per chiudere in bellezza. Quel tono da gendarme che ha riesce sempre a mettermi in imbarazzo.
– S…sì, cioè, avevamo un mezzo appuntamento, ma con questa storia del lockdown è saltato.
– Appunto, è quello che pensavo anch’io! Sono sicura che si è inventato questa cazzata per andare a trovare la sua amichetta. Chissà quante altre se ne inventerà, in questi giorni, pur di uscire di casa.
– Ma no, Barbara…
Dove la trova un’altra donna che indossi con disinvoltura la collezione “coglioni d’alano” che sarà sicuramente la protagonista della stagione autunno-inverno? Questo avrei dovuto dire, invece no, mi sono astenuto. La mia posizione non mi consente di fare passi falsi.
– Tanto lo so, cosa credi? Ma se pensa che stia insieme a lui per amore, si sbaglia di grosso: mi interessano solo i suoi soldi.
Che trio dolce e ingenuo, vero? Il trittico della miseria umana. Ma che problemi ha la gente? Tra tutte le chiamate che ho ricevuto, ce ne fosse stata una equilibrata. Possibile che sia così difficile confrontarsi con qualcuno che abbia una minima idea di cosa sia la razionalità? Secondo me aveva ragione Heidegger quando sosteneva che il pensiero delle persone è limitato dalle parole di cui dispongono. Io aggiungo anche “e dalla frequenza con cui le usano”. Se nel vocabolario di Martina, ci sono le parole sesso, troia, cazzo, trombare, che tipo di pensiero può scaturirne? Puoi parlare di qualcosa che non contempli il suo set mentale di pensieri e parole? Se Laura pensa continuamente a malattie, morte, sofferenza, quali stati d’animo può trasmettere? Certo, detta così sembra un po’ riduttiva: entrambe soffrono come bestie per cose diametralmente opposte, ma il succo del discorso è quello: parlano male e pensano male.
Ho voglia di stare lontano da tutti e da tutto: accendo la radio e spengo il cellulare.
… ci saranno inevitabili ricadute sull’economia e sugli investimenti…
Ma porca di quella troia! In mezzo a questo casino, avevo completamente dimenticato gli investimenti di questa mattina. Me la sono cercata, non avrei dovuto citare Ethan e quel maledetto “Non voglio che la fortuna guasti la dolcezza del nostro fallimento”. Dolcezza una beata minchia, dico io.
Non vedo l’ora di tornare a casa e farmi una doccia. Come al solito, non si trova un parcheggio nemmeno a pagarlo oro, mi tocca parcheggiare a un chilometro da casa.
– A fijio de ‘na mignotta, ma ‘ndo cazzo vai? Devi restà a casa!
Mi grida dalla finestra un tizio inferocito con la canottiera bianca e con le fattezze di Asterix. Riconosco lo stesso tono dolce e accogliente di questa mattina: non posso fare a meno di rispondere…
– Ci conosciamo? Ma niente niente è parente di una certa principessa…
– Ma vattene a casa, coglione!
Sì, sì, è un parente, ne ho la certezza. Hanno la stessa madre ignota. Ci mancava solo lo sceriffo di quartiere: ora c’è e siamo a posto. Ammetto di aver sbagliato a pensare che avessimo toccato il fondo, questa storia del virus sta cominciando a tirare fuori il peggio del peggio dalle persone. Ma come si permette un coglione obeso in pancera e canotta a dirmi quello che devo fare, dove andare e con chi stare? Sulla base del potere conferito da Non è l’arena di Giletti? Apro la porta, incazzato, e accendo il pc per leggere un po’ di notizie più approfondite: c’è di peggio. Le persone, non potendo uscire per chissà quanto tempo, si sono date appuntamento per cantare sui balconi e darsi forza a vicenda. In ogni quartiere c’è una playlist. Nel mio sono capitate, nell’ordine, l’Italiano di Toto Cutugno, Tu che ne sai di Gigi d’Alessio e Torna a Surriento di Enrico Caruso. Temo di non riuscire a sopravvivere: preferisco morire di virus, è più dignitoso. Vedete quanto ci vuole poco a stravolgere la normalità, a crearne una nuova e a non capire più cosa sia normale e cosa non lo sia? Quanto sono fragili le sicurezze che ci creiamo ogni giorno, le piccole barricate e le abitudini che ci fanno sentire protetti? Quante e quali miserie siamo costretti a mostrare quando siamo di fronte a una delle tante facce della normalità. Quanta disumanità mostriamo in ogni situazione, per egoismo o per paura? Ci servirà da lezione? Passato il terrore del virus, riusciremo ad accettare la normalità degli altri senza deriderla o colpevolizzarla, barricandoci dietro le piccole e meschine sicurezze, che ci siamo costruiti, convinti che siano migliori delle altre? Riusciremo a non ammalarci di noia e di monotonia, a dare il giusto valore a quello che viviamo giornalmente, senza farci sopraffare dall’insoddisfazione e dall’inquietudine?
Tu che ne sai, che sto ancora a pensarti da solo
Tu che ne sai, e se cade una stella dal cielo la dedico a noi
La risposta è no, siamo senza speranza e nella merda fino al collo. Non c’è speranza per chi canta dai balconi le canzoni di Gigi d’Alessio, convinto che possano mandar via la paura. Non c’è speranza per chi pensa di sapere tutto solo perché ha letto qualche informazione sul web. Non c’è speranza per chi si arroga il diritto di urlare odio ingiustificato da un balcone, certo di sapere cosa sia giusto e cosa non lo sia. Non c’è speranza per chi usa la scusa dell’epidemia per umiliare qualcun altro con l’arroganza del potere. E, soprattutto, non c’è speranza per quel coglione che investe tutti i suoi risparmi in modo fallimentare poche ore prima che si palesi il fallimento.